Posts written by Costantine Rose

view post Posted: 22/4/2024, 07:11     +2Il monologo di Scurati per il 25 Aprile censurato dalla Rai [TESTO INTEGRALE] - NEWS


Il rozzo tentativo di censura della Rai, lottizzata da questo governo di nostalgici ha sortito l'effetto opposto: il monologo di Scurati viene letto e riproposto ovunque...Dei geni, oltre che dei nostalgici della storia peggiore del Novecento!



Edited by Milea - 25/4/2024, 08:50
view post Posted: 18/3/2024, 20:26     +6Un aforisma al giorno - ANGOLO LETTURA



Tutto è veleno: nulla esiste di non velenoso.
Solo la dose fa in modo che il veleno non faccia effetto.


(Paracelso)

view post Posted: 1/1/2024, 11:08     +5PARIGI - LA COSTRUZIONE DELLA TORRE EIFFEL - Tesori dell'umanità


Ho lasciato Parigi, anzi la Francia,
perché la Torre Eiffel cominciava a darmi troppo sui nervi.

(Guy de Maupassant)



TORRE EIFFEL:
LA COSTRUZIONE DI UN COLOSSO




Grazie alla sua esperienza nella progettazione di grandi opere
in ferro, nel 1889 Gustave Eiffel eresse una torre alta più di
trecento metri per l’Esposizione universale di Parigi.






La seconda metà del XIX secolo fu l’epoca d’oro delle esposizioni universali. Erano gli anni di massimo sviluppo della moderna civiltà industriale, e i Paesi più avanzati sentivano la necessità di esporre i loro ultimi successi in campo tecnologico e scientifico attraverso eventi che attiravano migliaia di visitatori. Per i Paesi organizzatori, le esposizioni erano anche un’opportunità per dimostrare il loro potere economico e politico, e per ottenere questo scopo nulla era meglio di un nuovo grande edificio costruito con le più moderne tecniche, come il Crystal Palace dell’Esposizione Universale di Londra del 1851. Fu perciò che, nel 1886, quando le autorità francesi, per celebrare il primo centenario della Rivoluzione francese del 1789, decisero di organizzare una nuova esposizione universale a Parigi – la quarta dopo quelle del 1855, 1867 e 1878 –, indissero un concorso affinché architetti e ingegneri presentassero progetti di ogni tipo destinati all’Esposizione. Fu però un punto del bando ad attirare la massima attenzione, quello relativo allo "studio della possibilità di erigere nello Champ de Mars una torre a base quadrata di centoventicinque metri di lato alla base e trecento metri di altezza", con l’obiettivo di realizzare l’edificio più alto al mondo. Era esattamente il progetto che aveva appena elaborato l’ingegnere e imprenditore Gustave Eiffel.


L’ansia dell’uomo di costruire un edificio che superi in altezza tutti gli altri è sempre stata una costante della storia, dal mito biblico della torre di Babele alle piramidi, dagli obelischi alle colonne e alle basiliche che hanno costellato la storia delle grandi civiltà. Tuttavia, la Rivoluzione Industriale dei secoli XVIII e XIX aprì possibilità di costruzione in altezza che erano inimmaginabili nelle epoche precedenti, e questo grazie alla diffusione del ferro come nuovo materiale strutturale. Anche se in passato il ferro si usava già per funzioni secondarie, come la connessione tra conci di pietra, nel XIX secolo divenne lo scheletro visibile dei nuovi edifici tipici della modernità: stazioni ferroviarie, fabbriche, mercati, strade coperte, gallerie, giardini d’inverno. Grazie alla sua leggerezza e alla sua resistenza,il ferro permetteva di costruire, in un tempo assai ridotto rispetto al passato, edifici più grandi senza il sistema di muri, pilastri e colonne necessario per gli edifici in pietra, e anche più alti. Fu quest’ultima possibilità ad alimentare la fantasia di creare l’edificio più alto del mondo, più dei centoquarantasei metri della Grande piramide di Cheope o i centotrentasei della cupola della basilica di San Pietro a Roma. Un edificio, per dare una cifra tonda, alto trecento metri.



La Torre Eiffel si erge all'estremità degli Champs-de-Mars,
una vasta distesa di quasi ottocento metri di lunghezza e oltre duecento di larghezza


La gara dei trecento metri

Dal 1830 si erano susseguiti vari progetti per costruire una torre di trecento metri o, secondo le unità di misura abituali del mondo anglosassone, di mille piedi (304,8 metri). Il primo fu quello di un ingegnere inglese, Richard Trevithick, il costruttore della prima locomotiva, che nel 1832 progettò la "Colonna della Riforma", una torre di ghisa alta mille piedi con un diametro di trenta metri alla base e formata da millecinquecento lastre traforate di ghisa. Trevithick immaginò addirittura un ascensore spinto da un sistema ad aria compressa attraverso un tubo interno, però morì senza che nulla di tutto ciò fosse messo in pratica. Nel 1852 Charles Burton propose una torre di ferro con la quale pretendeva di riciclare gli elementi strutturali del Crystal Palace dell’Esposizione di Londra del 1851, ma poiché impiegava gli stessi componenti e gli stessi criteri di quella costruzione, tutto lascia supporre che la sua torre sarebbe stata ugualmente instabile di fronte al vento. Un altro progetto mai realizzato di torre metallica alta mille piedi fu quello proposto dalla statunitense Clarke Reeves & Company per l’Esposizione Universale di Filadelfia del 1876, rifiutato per questioni economiche e l’incertezza del risultato. Negli anni successivi, parallelamente a Eiffel, gli ingegneri francesi Sébillot e Bourdais proposero una torre di granito alta mille piedi per l’esposizione parigina del 1889, che si rivelò del tutto inattuabile per la scarsa capacità della muratura di resistere alle flessioni provocate dal vento.


Accanto a questi progetti mai realizzati, vale la pena ricordare altre costruzioni che, al di fuori della gara per i trecento metri, raggiunsero altezze sempre più elevate. Una prima prova, ancora precaria tecnologicamente, furono le torri di ghisa dell’americano James Bogardus, come la torre d’avvistamento e di allarme incendio nella 33a strada di New York (1851). Il precedente più significativo della Torre Eiffel, però, fu indubbiamente il Washington Monument, progettato dall’architetto nordamericano Robert Mills. Composto da vari strati esterni di pietra e con un nucleo centrale di scale in ferro collegate alla pietra, l’obelisco doveva essere alto 1centottantatre metri, ma sin dall’inizio della costruzione nel 1848 incontrò numerose difficoltà, compreso un importante crollo al raggiungimento dei quarantasei metri, che costrinse a rinforzare le fondamenta. Alla fine venne completato nel 1884, quando si arrivò all’altezza di centosessantanove metri.



Gustave Eiffel in una fotografia scattata verso il 1880,
qualche anno prima che iniziasse il progetto che gli avrebbe dato fama mondiale


Ponti e viadotti

La sfida rappresentata dalla costruzione di una torre alta trecento metri poteva essere raccolta soltanto da un ingegnere con una solida esperienza nella costruzione di opere in metallo dalla grande complessità tecnica. Negli anni ottanta dell’Ottocento nessuno possedeva più competenza in questo campo di Gustave Eiffel e dei suoi collaboratori. Nei trent’anni precedenti Eiffel aveva realizzato una serie di grandi ponti e viadotti in ferro che ebbero una vasta eco e nei quali mise in pratica gli stessi metodi che avrebbe applicato alla torre del 1889. Per il ponte di Bordeaux (1858) costruì le fondamenta nell’alveo del fiume, utilizzando un sistema ad aria compressa che permetteva di scavare a secco sotto il livello freatico, proprio come avrebbe fatto successivamente per le fondamenta della sua torre sulle rive della Senna. Nel 1869 costruì due viadotti, a Rouzat e a Neuvial, con pilastri il cui aspetto è sorprendentemente simile al tracciato della futura torre di trecento metri. La torre fu costruita a tempo di record: i lavori iniziarono il 26 gennaio 1887 e terminarono il 31 marzo 1889, in tempo per l’inaugurazione dell’Esposizione Universale, avvenuta due mesi dopo. Non sorprende solo la velocità di esecuzione, ma anche il fatto che in tutto il processo non abbiano lavorato alla torre più di duecento operai per volta, grazie al sistema dei componenti prefabbricati da assemblare progressivamente. La costruzione delle fondamenta fu la fase più ardua, soprattutto per i due pilastri più vicini alla Senna, poiché si dovette scavare al di sotto del letto del fiume utilizzando un complesso sistema di cassoni pneumatici. La costruzione dei pilastri e il loro collegamento mediante quattro grandi travi fu portata avanti attraverso una serie di ponteggi di legno e grandi torri di carico. Le sezioni successive della torre vennero costruite utilizzando un sistema di gru azionate dal vapore fino a raggiungere la cuspide.



Gustave Eiffel sulla scala a chiocciola che all'inizio univa la seconda piattaforma con la cima della torre


L’asta da bandiera più alta del mondo

L’inaugurazione ufficiale della torre Eiffel avvenne il 15 maggio 1889. Mentre Gustave Eiffel e un gruppo di personalità issavano una bandiera della Francia sul punto più alto della torre, questa venne illuminata da fuochi artificiali e dal primo livello vennero sparati ventun colpi di cannone. In un comprensibile eccesso di sciovinismo, Eiffel disse: "La bandiera francese è l’unica a possedere un’asta di trecento metri". Durante la costruzione si erano levate alcune voci, soprattutto di artisti e letterati, che denunciavano le dimensioni "mostruose" della torre e ne sottolineavano la bruttezza. Il romanziere Guy de Maupassant, per esempio, la considerava uno "scheletro sgraziato e gigantesco", e un altro scrittore, Joris-Karl Huysmans, parlava di un "orrido pilastro tralicciato". L’avanzamento dell’opera, però, aveva creato grande aspettativa, e quando fu completata il pubblico reagì in modo entusiasta. Durante l’Esposizione Universale vi fu un vero fiume di visitatori – circa due milioni –, che potevano salire ai tre livelli della torre mediante un moderno sistema di ascensori. Famoso, carico di onorificenze e multimilionario, Gustave Eiffel morì nel 1923. Pochi anni dopo, la sua torre perse il titolo di edificio più alto del pianeta, che andò a due grattacieli nordamericani completati rispettivamente nel 1930 e nel 1931: il Chrysler Building dell’architetto William van Allen, di trecentodiciannove metri, e l’Empire State Building, di trecentottantuno metri, progettato da William F. Band.




I disegni originali della Torre


Il progetto della torre Eiffel fu il frutto di dettagliate analisi condotte da circa quaranta ingegneri e disegnatori che realizzarono settecento disegni di complessivo e tremilaseicento disegni di fabbricazione. La prima preoccupazione degli ingegneri era impedire che la torre si rovesciasse, scopo raggiunto mediante il tracciato campaniforme (cioè di forma svasata) dei suoi quattro pilastri, che le fornisce la stabilità sufficiente. Le settemilatrecentoquarantuno tonnellate di peso della torre avevano così una solida base. La seconda preoccupazione era evitare che la torre si deformasse (od oscillasse) eccessivamente per l’azione del vento, quindi doveva essere una struttura di rigidità elevata. Il problema fu risolto con due espedienti: la connessione dei quattro grandi pilastri della torre mediante grandi traverse al livello del primo piano e il sistema della triangolazione.




Opere di fondazione della Torre Eiffel

Si possono vedere alcuni dei cassoni metallici usati per scavare sotto il livello freatico.




Eco internazionale


All’inizio dei lavori della torre, il direttore delle opere pubbliche della capitale francese affermava: "Quest’opera farà parlare di Parigi sino in Oriente [...] il mondo intero rimarrà senza fiato quando vedrà questa torre gigantesca".




Operai al lavoro su uno dei pilastri della Torre. Incisione. 1889


Alla torre lavorarono contemporaneamente dai centocinquanta ai trecento operai. Il loro compito consisteva nell’assemblare i pezzi che altri cento operai fabbricavano e premontavano negli stabilimenti di Levallois-Perret, poco fuori Parigi, da dove arrivavano tramite ferrovia. All’assemblaggio si procedeva unendo i diversi pezzi mediante rivetti, simili ai ribattini.




Posizionamento di un rivetto. Incisione. 1889


Per posizionare i rivetti si formarono squadre di quattro uomini: il primo azionava la fucina, arroventando il rivetto; il secondo lo introduceva nell’orifizio del pezzo, arrivato pronto dall’officina, e lo teneva fermo per la testa; il terzo colpiva lo stelo per formare la testa opposta e infine il quarto operaio la fissava con una mazza. Nella prima fase erano al lavoro quaranta squadre che posizionavano circa quatttromila rivetti al giorno. In totale, la torre Eiffel contiene due milioni e mezzo milioni di rivetti. Alla torre lavorarono contemporaneamente dai centocinquanta ai trecento operai. Il loro compito consisteva nell’assemblare i pezzi che altri cento operai fabbricavano e premontavano negli stabilimenti di Levallois-Perret, poco fuori Parigi, da dove arrivavano tramite ferrovia. All’assemblaggio si procedeva unendo i diversi pezzi mediante rivetti, simili ai ribattini.




Operai lavorano alla costruzione della Torre


Gli operai furono selezionati tra i carpentieri di Parigi abituati a lavorare a una certa altezza e che dimostrarono di non soffrire di vertigini. In effetti, si verificò un solo incidente mortale, oltretutto fuori dell’orario di lavoro. Più dell’altezza, il problema principale per gli operai fu il freddo, soprattutto durante il gelido inverno del 1888-1889. La giornata lavorativa era di nove ore, che diventavano dodici in estate. Alle richieste degli operai, che alla fine del 1888 scioperarono per due volte ritenendo la paga insufficiente, Eiffel rispose offrendo premi di produzione e miglioramenti delle condizioni di lavoro, come tute impermeabili e una mensa al primo piano della torre, dove potevano riscaldare il cibo che si portavano da casa.




Il grande richiamo dell'Esposizione


Un cartellone annuncia le tariffe ridotte proposte dalla compagnia ferroviaria Chemins de Fer Paris-Lyon-Méditerranée per recarsi all’Esposizione Universale di Parigi, nel 1889.




Parigi vista dall'alto

Un gruppo di visitatori, muniti di binocoli e cannocchiali, osserva Parigi dalla
piattaforma del secondo piano della Torre Eiffel, a centoquindici metri d’altezza.




I colori della Torre


Per la sua inaugurazione nel 1889, la torre Eiffel fu dipinta di rosso scuro, come dimostra questa foto dell’epoca colorata a mano, che permette di vedere il palazzo del Trocadéro sullo sfondo. Dal 1968 è dipinta di color bronzo.




Ascensori

A causa della curvatura della Torre furono creati tre sistemi di ascensori, uno per ogni livello.
Nella foto, visitatori nella cabina del terzo ascensore, che sale in verticale sino alla cima.





Edison

In visita a Parigi, il celebre inventore salì più volte sulla Torre nel 1889.
Qui è ritratto con Adolphe Salles, genero di Gustave Eiffel.





Il faro

Eiffel collocò sulla cuspide una serie di fari che illuminavano i monumenti della città.




Il teatro


Per attirare il pubblico, al primo piano della Torre Eiffel furono aperti negozi di articoli da regalo, ristoranti e persino un teatro. Gran parte di queste strutture venne eliminata qualche decennio dopo.




1940


All’inizio dell’occupazione tedesca della Francia Adolf Hitler visitò Parigi e volle salire sulla torre Eiffel, ma i lavoratori sabotarono gli ascensori e poté solo farsi fotografare sulla spianata dello Champ de Mars.
view post Posted: 8/12/2023, 21:27     +1NATALE 2023 - I MIGLIORI REGALI PER UNA DONNA - COFFEE GLAMOUR




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view post Posted: 8/12/2023, 18:15     +5NATALE 2023 - I MIGLIORI REGALI PER UNA DONNA - COFFEE GLAMOUR




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view post Posted: 2/12/2023, 13:18     +5Il pesce magico - Favole, miti e leggende


Il pesce magico

(Un pesce al museo)


C’era una volta, e c’è ancora, una grande città con un grande museo. In quel museo c’era, e c’è ancora, un quadro che piaceva soprattutto ai bambini. Era un quadro con un pesce tutto d’oro dipinto su uno sfondo blu intenso. I bambini lo guardavano incantati e a volte, quando il custode guardava da un’altra parte, lo accarezzavano. Allora il pesce apriva i suoi grandi occhi rotondi e sorrideva. I pesci rossi che abitavano nella piccola fontana al centro della sala lo invitarono a giocare con loro e il Pesce Magico fece un guizzo e si tuffò nella vasca.

- Seguitemi, amici! - disse ai pesci rossi. Tutti insieme nuotarono nel canale sotto la città e raggiunsero il mare. Che meraviglia! Sul fondo c’erano alghe, sabbia, coralli, conchiglie e pesci colorati. All’improvviso, però, una grande ombra nera oscurò l’acqua. I pesci si trovarono tutti prigionieri in una rete, ma il Pesce Magico si mise a guizzare e le sue scaglie divennero così lucenti che i pescatori, abbagliati, lasciarono andare la rete. Allora i pesci scapparono velocissimi e tutti festeggiarono il Pesce Magico, che li aveva salvati.




Paul Klee
Il pesce magico
(Fish Magic)
1925
Olio e acquerello su tela incollata su tavola
77.2 x 98.5 cm
Philadelphia Museum of Art


In quel momento si avvicinò un pesciolino e disse al Pesce Magico:
- Un mio amico è prigioniero nella tana della Piovra e non può uscire perché la Piovra fa la guardia e non dorme mai. Puoi fare qualcosa?
Il Pesce Magico nuotò verso la tana della Piovra, che da cento anni soffriva d’insonnia. Quando la vide, cominciò a girarle intorno cantando una ninna nanna:
- Dormi, Piovra dormi… Chiudi gli occhi e sogna…
Intanto le sue scaglie brillavano e alla Piovra girava la testa, finché cominciò a russare; il pesciolino prigioniero guizzò fuori dalla tana e corse via con il Pesce Magico. Tutti gli abitanti del mare, a quel punto, lo pregarono di diventare il loro re, ma il Pesce Magico rispose:
- Grazie, ma io non appartengo al popolo del mare. Io appartengo al quadro di un museo dove i bambini mi aspettano.

Fu così che il Pesce Magico ritornò al museo e ancora oggi è lì che aspetta le visite dei bambini.
view post Posted: 22/11/2023, 13:51     +16PALAZZO MORONI - A Bergamo riapre il gioiello seicentesco - CAFFE' LETTERARIO


PALAZZO MORONI
A BERGAMO RIAPRE AL PUBBLICO IL GIOIELLO SEICENTESCO




Nel 2019, l’accordo tra la Fondazione istituita dalla famiglia Moroni e il FAI garantiva
l’avvio del cantiere di restauro che oggi consente di ampliare l’offerta culturale della città.
La visita tra capolavori di pittura rinascimentale, affreschi barocchi,
arredi ottocenteschi e uno straordinario giardino con orto urbano...






Bergamo, Palazzo Moroni, Scalone d'onore


Non è stato casuale, nel giugno 2020, il momento scelto dal FAI per restituire a Bergamo la fruizione di uno degli spazi all’aperto più preziosi della Città Alta: i giardini di Palazzo Moroni – estesi conterrazzamenti panoramici ai piedi della Rocca civica, sul colle di Sant’Eufemia – e la cosiddetta ortaglia, due ettari di campagna nel cuore dell’abitato storico, terreno acquisito nell’Ottocento per scopi agricoli, che conserva viti a pergola, alberi da frutto e di gelso, e il circolo di carpini che costituiva una voliera naturale per la caccia agli uccelli.



Bergamo, Palazzo Moroni, Sala Gialla



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Bergamo, Palazzo Moroni, Sala Gialla


Tre anni fa, la città lombarda diventava suo malgrado il simbolo della lotta al Covid: il recupero e la riapertura dei giardini, a concludere la fase più inaspettata e drammatica della pandemia, segnalavano la voglia di ripartire, facendo affidamento sul patrimonio culturale e l’identità bergamasca. Ma il restauro di Palazzo Moroni, per la messa in sicurezza, la conservazione e la valorizzazione dell’edificio seicentesco, che prende il nome dalla famiglia che l’ha fondato e attualmente presiede la Fondazione Museo Palazzo Moroni istituita nel 2008, era iniziato nel 2019, quando l’immobile, con tutte le sue pertinenze, veniva affidato alla gestione del Fai, con l’intenzione di rendere il bene un patrimonio collettivo. Così Palazzo Moroni, grazie alla lungimiranza del conte Antonio Moroni (1919 – 2009), oggi rinsaldata da sua figlia Lucretia, fautrice dell’accordo con il FAI – diventava il primo palazzo urbano del Fondo per l’Ambiente Italiano: "La scelta di Antonio Moroni, nobile come quelle di Gian Giacomo Poldi Pezzoli, di Pasino Bagatti Valsecchi e di Antonio e Marieda Boschi di Stefano, fa parte della storia più civile del nostro Paese dove ancora c’è chi ritiene che un gesto a favore della collettività sia un punto d’onore per il proprio nome e quello della propria famiglia" spiega il presidente FAI Marco Magnifico "E come tale ha dunque diritto di essere affidato al futuro e raccontato esattamente come le opere d’arte e di architettura oggetto di tanto dono. Nel segno della migliore tradizione italiana".



Bergamo, Palazzo Moroni, Sala Turca



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Bergamo, Palazzo Moroni, Sala Azzurra


Dunque alla riapertura dei giardini e dell’ortaglia (estesa per un decimo dell’intera Bergamo Alta) ha fatto seguito, nel 2021, la restituzione di quattro sale con affreschi barocchi seicenteschi (a opera del cremasco Gian Giacomo Barbelli), in concomitanza con le celebrazioni per il 500° anniversario della nascita di Giovanni Battista Moroni (Albino, 1520-1578) – tra i pittori più rappresentativi del Cinquecento lombardo e della ritrattistica rinascimentale italiana – di cui gli ambienti in questione conservano "Il Ritratto di Isotta Brembati", quello di "Giovanni Gerolamo Grumelli", meglio noto come Il Cavaliere in rosa, e il Ritratto di signora anziana.



Bergamo, Palazzo Moroni, Scalone d'onore


E ora si completa il cantiere di restauro avviato nel 2020, che nell’ultima fase, a partire dal 2022, ha interessato cinque stanze ancora chiuse al pubblico, frutto delle modifiche che hanno interessato il palazzo intorno al 1835, in vista del matrimonio di Alessandro Moroni con la nobile milanese Giulia Resta (1838). Spazi raffinati per l’allestimento che fa largo uso di sete preziose, ceramiche orientali e francesi, arredi laccati e in stile impero, con decorazioni ad affresco che riproducono stucchi a trompe-l’oeil e si alternano a soggetti ispirati dal mondo classico ed esotico. A partire dal 22 novembre 2023, quindi, Palazzo Moroni torna ad aprire integralmente ai visitatori, che potranno percorrere l’intero piano nobile e tutto il mezzanino, oltre a continuare a godere dei giardini, che pure hanno beneficiato della sostituzione degli alberi e degli arbusti che si presentavano in condizioni fitosanitarie critiche, dell’integrazione di piante ornamentali nelle aiuole, della potatura dei tassi in forma e della realizzazione di percorsi in ghiaia a tutela dei prati. Oltre agli ambienti seicenteschi, il percorso di visita ampliato si articola tra Sala Gialla, Sala Rosa, Sala Azzurra, Salottino Cinese e Sala Turca – con arredi, tappezzerie antiche (restaurate con il contributo del Centro per la Conservazione e il Restauro La Venaria Reale) oggetti e opere d’arte originali che documentano il gusto e il modo di vivere aristocratico dell’Ottocento – e mezzanino, con il cucinone e l’appartamento utilizzato fino al 2009 dal conte Antonio Moroni. Si inaugurano, inoltre, gli spazi di accoglienza rinnovati, come la biglietteria con negozio, e nuovi servizi e strumenti di accompagnamento alla visita: proprio nel cucinone, un video-racconto con proiezioni immersive racconta, con la voce dell’attore e baritono Luca Micheletti, la storia della famiglia e del palazzo.



Bergamo, Palazzo Moroni, Sala Gerusalemme Liberata


Al cantiere di restauro si è infatti associato un "cantiere della conoscenza", avviando studi e ricerche coordinati dal FAI, a cominciare dall’archivio storico di famiglia. Nel 2024 queste informazioni confluiranno anche nel volume guida a Palazzo Moroni, edito da Skira. E sempre dal prossimo anno, in tema con l’impegno per l’accessibilità del sito museale, sarà disponibile una guida in linguaggio semplificato per orientare alla visita persone con disabilità intellettiva. Si organizzeranno, inoltre, visite guidate in LIS per persone sorde, mentre già allestiti sono i supporti tattili per non vedenti.

Dopo l’inaugurazione, Palazzo Moroni sarà visitabile dal mercoledì alla domenica, dalle 10 alle 18, al costo di 11 euro (salvo riduzioni).



Giovanni Battista Moroni
Ritratto di Gian Gerolamo Grumelli (Il Cavaliere in rosa)
1560
Olio su tela
216 x 123 cm
Bergamo, Palazzo Moroni



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Giovanni Battista Moroni
Ritratto di Isotta Brembati
1552
Olio su tela
160 x 115 cm
Bergamo, Palazzo Moroni

view post Posted: 18/11/2023, 13:32     +10INFINITO PRESENTE - YAYOI KUSAMA È A BERGAMO - CAFFE' LETTERARIO


INFINITO PRESENTE
YAYOI KUSAMA È A BERGAMO




E’ con un fuoco d’artificio che Bergamo si incammina
verso la chiusura dell’anno che l’ha vista insignita del
titolo Capitale italiana della cultura, in tandem con Brescia.






Yayoi Kusama
Lucciole sull'acqua
(Fireflies on the Water)
2002
Specchi, plexiglass, luci e acqua
281,9 × 367 × 367 cm
New York, Whitney Museum of American Art


Nell’ambito dell’iniziativa ArtDate, il Festival Europeo di Arte Contemporanea che si svolge in città fino al 26 Novembre, Palazzo della Ragione ospita un’icona dell’arte di oggi: la giapponese Yayoi Kusama, un nome molto popolare che da solo è in grado di suscitare nel grande pubblico il desiderio di vedere l’esposizione per non mancare l’occasione. E infatti ancor prima di aprire i battenti la mostra "Infinito presente" era data in sold out. Per questa ragione si è corso ai ripari prorogandola di due mesi ed estendendo l’orario di apertura giornaliero, incrementando così la disponibilità complessiva dei biglietti. Un successo in termini di comunicazione territoriale e visibilità. Artefice dell’idea di portare a Bergamo un’artista donna che ha inteso l’arte come processo terapeutico individuale, dando così forma a una delle linee guida del progetto Capitale della cultura che riguardava "l’arte come cura", è Stefano Raimondi, presidente dell’associazione The Blank Contemporary Art, da oltre tredici anni attiva in città sul fronte del contemporaneo.


Ma portare a Bergamo un’Infinity Mirror Room non era affatto un’idea scontata, né in termini di disponibilità dell’opera né in termini economici. Tanto per cominciare alle spalle non c’è una fondazione in grado di coprire i costi dell’iniziativa culturale e quindi si è fatto ricorso alla "colletta". E poi occorreva convincere un’istituzione internazionale di privarsi di un’opera di primo livello nella sua collezione e di cederla a una realtà non museale. Raimondi è riuscito a trovare i capitali e a ottenere l’agognato prestito dal Whitney Museum of American Art di New York. "Yayoi Kusama. Infinito Presente è una mostra straordinaria sotto molti punti di vista - spiega il curatore Stefano Raimondi - che ha richiesto un impegno e un approccio non comuni, diventando mese dopo mese un appuntamento attesissimo, capace di arrivare a milioni di persone”. Il risultato, più che una mostra vera e propria sulla ricerca della Kusama, è un’esperienza godibile di persona, varcando, uno alla volta, la soglia dell’installazione Fireflies on the Water alla quale si accede attraverso un corridoio punteggiato da poesie, filmati, libri e documentazioni che raccontano la vita e l’arte della Kusama.


L’opera consiste in un ambiente buio, le cui pareti sono rivestite di specchi. Al centro di trova una pozza d’acqua che trasmette un senso di quiete in cui sporge una piattaforma panoramica simile a un molo e 1centocinquanta piccole luci appese al soffitto che sembrano lucciole. Gli elementi creano un effetto abbagliante di luce diretta e riflessa, emanata dagli specchi e dalla superficie dell’acqua. Lo spazio appare infinito, senza cima né fondo, inizio né fine. E in questo smarrimento quasi allucinatorio un po’ ci si perde e si entra in una dimensione diversa, abbandonando il senso di sé e arrendendosi a una sorta di magia meditativa. Come le prime installazioni di Kusama, "Fireflies on the Water" evoca le allucinazioni che caratterizzano la vita dell’artista fin da quando era bambina, delle quali l'arte è da sempre espressione e cura. Ma contiene anche riferimenti al mito di Narciso e ai paesaggi del Giappone, dove Kusama è cresciuta ed è tornata a vivere dopo aver trovato fama e successo negli Stati Uniti. "Gli artisti normalmente non esprimono i loro complessi psicologici in modo diretto, ma io uso i miei complessi e le mie paure come soggetti" ha dichiarato un giorno Yayoi Kusama.


L’arte e la vita per la Kusama sono indissolubilmente legate: nata in Giappone, a Matsumoto, nel 1929, da una famiglia dell’alta società, da bambina inizia ad avere delle allucinazioni uditive e visive. L’arte si rivela fin da subito un elemento necessario e terapeutico, con la quale Yayoi riesce a gestire le allucinazioni. La famiglia non accetta la sua passione, tanto che la madre distrugge i disegni della giovane artista prima che lei riesca a terminarli. È proprio per questo motivo che una delle prime forme d’arte di Kusama sono stati i pois, elementi veloci da disegnare che ancora oggi caratterizzano la sua opera assolutamente unica. L’arte diventa un canale per trovare stabilità, per combattere l’ansia e la paura di ogni giorno. Lascia il Giappone, paese troppo piccolo per le sue aspirazioni e per la sua arte. Kusama vuole esplorare spazi e sentimenti universali, la libertà espressiva deve essere senza confini. Ed è per questo che nel 1957, grazie anche all’incoraggiamento dell’artista americana Georgia O’Keeffe, Kusama si trasferisce negli Stati Uniti. Nel 1958 espone a NY i suoi "Infinity Net paintings", le tele nere ricopre da un’unica pennellata curva, carica di un singolo colore, ripetuta attraverso un gesto che è ossessivo e meditativo al tempo stesso. E poi nel 1965 realizza la prima "Infinite Mirror Room". Da questo momento l’uso delle superfici specchianti offrono alla Kusama la possibilità di creare piani infiniti nelle sue installazioni. Gli incontri sono tanti e importanti: Lucio Fondata ospita la Kusama per due mesi a Milano e finanzia personalmente la "Narcissus Garden", un’opera che verrà presentata senza invito formale alla Biennale di Venezia.


La migliore definizione della Kusama la dà lei stessa:

"Io, Kusama, sono la moderna Alice nel paese delle meraviglie.
Come Alice che attraversava lo specchio,
io, Kusama ho aperto un mondo di fantasia e libertà.
Anche tu puoi unirti alla mia avventurosa danza della vita."


Entrare nell"’Infinity Mirror Room" significa in qualche modo entrare nel corpo e nell’anima dell’artista, cogliendone l’essenza nelle parti intangibili che ne definiscono l’infinito. L’epilogo si conosce. Il mutato contesto sociale e politico, l’acutizzarsi della malattia e la morte del partner Joseph Cornell sono alcuni dei motivi che spingonoYayoi Kusama nel 1973 a tornare in Giappone e nel 1977 a entrare volontariamente e in modo permanente presso un ospedale psichiatrico a Tokyo dove tutt’oggi vive.


YAYOI KUSAMA. INFINITO PRESENTE
Dal 17/11/2023 al 24/03/2024

DOVE

Palazzo della Ragione - Piazza Vecchia, Bergamo, 24129

PREZZO

Intero: 14,50
Ridotto: 12,50

Prenotazione obbligatoria

ACQUISTA I BIGLIETTI
view post Posted: 8/11/2023, 09:07     +12REVERSOS - IL PRADO ESPONE I QUADRI GIRATI - CAFFE' LETTERARIO


MUSEO DEL PRADO
LA MOSTRA CHE ESPONE I QUADRI GIRATI




Molte tele nascondono sul retro messaggi, segni e persino altri
dipinti che nei musei tradizionali non sono visibili al pubblico.





Dal 7 novembre fino a marzo del 2024 è visitabile al Museo del Prado di Madrid la mostra Reversos (Sul retro), in cui i quadri appesi sono girati, perché l’attenzione degli spettatori sia dedicata non tanto alle opere d’arte per come le intendiamo di solito ma ai supporti che le ospitano: cioè le cornici e il retro della tavola o tela su cui sono state dipinte, che possono dare molte informazioni sulla loro storia.


Come spiega il direttore del museo Miguel Falomir, l’idea per questa mostra è nata a partire dal quadro Las Meninas del pittore spagnolo Diego Velázquez, in cui Velázquez stesso guarda lo spettatore da dietro un’enorme tela a cui sta lavorando, in un modo che sottolinea la materialità dell’opera d’arte. L’obiettivo della nuova mostra, curata dall’artista Miguel Ángel Blanco, è quindi di incoraggiare lo spettatore a percepire un dipinto non solo come un’immagine, ma anche come un oggetto fisico che porta con sé i segni della sua storia e che può rivelare segreti e significati inaspettati. Non a caso, Reversos si apre con una riproduzione di Las Meninas appoggiato al muro al contrario.



Annibale Carracci e gli allievi
L'Estasi della Maddalena (Retro)
Schizzi di figure
1585-1600
Olio su tavola
Gesso nero, carboncino, inchiostro di seppia e olio su tavola.
La Coruña, Museo de Belas Artes da Coruña, deposito del Museo Nacional del Prado


La mostra comprende centocinque opere provenienti dal Prado e da ventinove musei e collezioni internazionali che includono dipinti di pittori famosi come Goya, Rembrandt e Van Gogh. Alcune opere possono essere viste da entrambi i lati, mentre altre hanno il lato dipinto appoggiato al muro per esporre il retro della tela, che rivela messaggi, timbri e macchie altrimenti invisibili ai visitatori.



Tiziano
La Mater Dolorosa con le mani giunte (Retro)
(The Mater Dolorosa with clasped Hands)
1554
Olio su tavola
Madrid, Museo Nacional del Prado


Ad esempio, sul retro di un dipinto del pittore olandese Salomon Koninck che raffigura un filosofo si trovano un ritaglio di giornale di un necrologio e altri segni che indicano che ad un certo punto era stato parte di una collezione rubata dai nazisti a una persona ebrea. Falomir ha detto che per lui "vedere un’opera, il suo retro e la sua cornice, è come trovarsi di fronte a una scoperta archeologica in cui ogni strato ha la sua storia da raccontarci".





Bernard van Orley (Fronte e retro)
La sacra famiglia
(The Holy Family)
1522
Olio su tavola
Madrid, Museo del Prado


Alcune tele o tavole ospitano due dipinti diversi, uno per lato: in questi casi di solito il pittore era a corto di materiale su cui dipingere o voleva risparmiare. Ma ce ne sono altri in cui il fronte e il retro sono collegati e la decisione di dipingerli entrambi è stata presa con l’intento di raccontare una storia. In questa seconda categoria, l’opera più particolare esposta in mostra è la Monaca inginocchiata di Martin van Meytens, un dipinto della prima metà del Settecento: nella parte anteriore del quadro viene mostrata una suora devota in preghiera, ma dal retro si scopre che la suora mostra il suo sedere nudo. Il quadro apparteneva a quello che allora era l’ambasciatore svedese a Parigi e la visione del retro era riservata agli ospiti speciali.



Martin van Meytens
Suora inginocchiata (Fronte e retro)
(Kneeling Nun)
1731
Olio su rame
Stoccolma, Nationalmusum


La mostra include anche diverse opere di arte contemporanea, fra cui quelle degli artisti italiani Lucio Fontana e Michelangelo Pistoletto. Fra queste ci sono anche tre opere di Blanco, il curatore della mostra, realizzate ispirandosi alla "nuvola di polvere" che ha sollevato un’enorme copia della Trasfigurazione di Raffaello quando dopo decenni era stata staccata dalla parete del Prado per essere restaurata.



Attribuito a Orazio Borgianni
Autoritratto ? (Retro)
(Self-Portrait ?)
1600-1610
Olio su tela
Madrid, Museo Nacional del Prado




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Rembrandt Harmensz van Rijn
Artista nel suo studio (Retro)
(Artist in his studio)
1628 circa
Olio su tavola
Boston, Museum of Fine Arts




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Wallerant Vaillant
Un ragazzo che copia un dipinto (Retro)
(A Young Boy copying a Painting)
1670 circa
Olio su tavola
Londra, Galleria d'arte Guildhall




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Zacarías González Velázquez
Rovescio di due pescatori, uno con la canna e l'altro seduto (Retro)
(Reverse of Two Fishermen, one with a Rod and the other seated)
1785
Olio su tela
Madrid, Cuartel General del Ejército, deposito del Museo Nazionale del Prado




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André Jacques Victor
Mosè salvato dalle acque (Retro)
(Moses rescued from the waters)
1821-1830
Guazzo, carboncino, matita su carta marrone
Madrid Museo del Prado




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Vilhelm Hammershøi
Interno con il cavalletto dell'artista (Retro)
(Interior with the Artist’s Easel)
1910
Olio su tela
Copenaghen, SMK, Galleria Nazionale di Danimarca



Edited by Lottovolante - 12/11/2023, 13:11
view post Posted: 7/11/2023, 13:26     +10OTTO VERKUYL - UN MISTERIOSO FOTOGRAFO OLANDESE - CAFFE' LETTERARIO


L'occhio che guarda questi luoghi, immagina il loro passato,
sente attraverso la pelle consumata dal tempo l'anima che li avvolge.

(Roberto Peregalli, I luoghi e la polvere)



OTTO VERKUYL
UN MISTERIOSO FOTOGRAFO OLANDESE SCOPERTO PER CASO IN ITALIA




Pierluigi Ortolano, un operaio abruzzese, acquista su un sito di aste online 141 rullini non sviluppati.
Ne nasce un progetto che racconta la vita di una famiglia nei Paesi Bassi alla fine degli anni Sessanta...





Pierluigi Ortolano è un operaio di quarantotto anni. Ogni notte si sposta dalla sua San Salvo, al confine tra Abruzzo e Molise, verso l’entroterra, per lavorare in uno stabilimento che si occupa di assemblare mezzi Fiat. Nei momenti di pausa, per superare la monotonia imposta dal mestiere, coltiva le sue passioni, una su tutte la fotografia. Proprio durante un turno, a maggio del 2017, è finito su Catawiki, uno dei più famosi siti di aste online, e tra una macchina fotografica e l’altra si è imbattuto nell’annuncio di un pacco contenente centoquarantuno rullini "impressi ma non sviluppati, risalenti agli anni Sessanta in Olanda". "Mi sono detto ‘io questo lo devo prendere’ e ho chiesto aiuto ad altre persone per darmi una mano se il prezzo si fosse alzato troppo", racconta. Per fortuna, all’asta ha partecipato solo un’altra persona che ha preferito non rilanciare oltre i duecento euro.


La storia del ritrovamento di Pierluigi Ortolano

Il pacco è arrivato una settimana dopo. Le linguette dei rullini riportavano indicazioni sui luoghi degli scatti, come "circo", "vacanze", "navi", ed erano tutte della stessa marca, Agfa, lasciando così presumere che probabilmente si trattasse di un solo fotografo. Le pellicole si sono perfettamente conservate, nonostante la scadenza datata 1971. Erano avvolte da un foglio di giornale del 1969, il Randstad, che è anche il nome di un agglomerato urbano che comprende Amsterdam e altre sedici città dei Paesi Bassi. All’arrivo in Italia, i rullini vengono affidati alle sapienti mani del fotografo e stampatore Franco Glieca che, dai circa quattromila negativi, sviluppa la prima di una lunga serie di immagini che raccontano la passione di un uomo per la sua macchina fotografica, ma anche la storia di una famiglia in un probabile arco temporale di due anni. Si vedono tre bambine in bicicletta che guardano in camera davanti a un paesaggio brullo, in un’atmosfera lugubre che ricorda quasi quella delle gemelle di Shining. Già da quel momento Pierluigi capisce che si trova davanti uno che il mestiere lo conosce bene: "Se sono tutte così andiamo avanti", ha detto a Glieca.


Il progetto Randstad 1969

Il progetto prende proprio il nome di Randstad 1969 e diventa prima una mostra itinerante, varcando i confini regionali per raggiungere città come Roma, Brescia, Genova. Man mano che le foto vengono sviluppate, però, la curiosità verso i soggetti immortalati e il suo autore cresce. I segnali topografici e gli indizi lasciati dalle stampe alimentano il desiderio di conoscere la loro identità e spingono Pierluigi a mettersi sulle loro tracce. La svolta arriva da una foto che ritrae una delle tre bambine che scende da uno scuolabus mentre le altre due la accolgono. Sul retro del mezzo c’è la scritta "Garage Pollè" con un numero di telefono, che però non risulta più attivo. Le speranze iniziano a svanire quando, a febbraio 2018, condivide la foto su un gruppo Facebook per appassionati di mezzi di trasporto in Olanda, dove non solo non riceve alcuna risposta ma viene anche espulso. "Il mistero nasce lì. Come se qualcuno conoscesse la storia di questo fotografo. Anche perché il posto dove viveva non è grandissimo", sostiene Pierluigi. A scrivergli poco dopo è proprio una Pollè, la nipote del fondatore della compagnia, che gli chiede una copia della foto. "È lì che le ho detto 'io la copia te la mando', ma tu mi devi dire chi sono le tre bambine", racconta.


Il punto di svolta

Dalla Pollè, Pierluigi scopre che al momento dello scatto lo scuolabus si trovava sul terreno della famiglia Verkuyl. Sarà poi un anziano signore, Leo Kranenburg, presidente dell’associazione Historic Halfweg, a svelare maggiori dettagli sul fotografo e a sbloccare le ricerche. Si chiamava Otto Verkuyl. Nato nel 1925 e morto nel 2008, era un contadino ma nei fatti il suo lavoro ricorda quello di un mezzadro o un piccolo proprietario terriero che amministra i raccolti di alcune terre per la sua famiglia, quelle dei suoi dipendenti e la vendita al dettaglio. Andava spesso in giro con la sua auto, un Maggiolone, ma soprattutto con la sua macchina fotografica. Nell’agosto del 2018 Pierluigi è pronto per volare ad Amsterdam. Una volta arrivato, prende un Uber che lo porta di fronte alla casa dei Verkuyl, apparsa in una foto in mezzo a una distesa di campi coperti dalla neve. "Quando sono sceso mia moglie mi ha detto ‘ti senti bene?’, perché non parlavo più. Era come ritrovarmi in una fotografia in bianco e nero dopo cinquant'anni. Solo che all’improvviso ho visto tutto vivo e colorato", dice. La porta era lì, a portata di mano, ma non ha avuto il coraggio di bussare. Aveva infatti appena scoperto che Mathilda, la prima figlia di Otto, era morta nel 2016, un anno prima che acquistasse le pellicole, e non era sicuro che uno sconosciuto sarebbe stato accolto senza diffidenza.


Chi era Otto Verkuyl

Dai racconti di Mathilda a Pauline e Simone emerge il ritratto di un uomo protettivo e devoto alla famiglia. Durante la prima settimana di liceo della madre, per esempio, nonno Otto era solito seguire in macchina l’autobus per controllare che la primogenita arrivasse a scuola sana e salva. Le nipoti sapevano della sua passione per la fotografia ma nessuna delle due immaginava che celasse un talento così grande. Alla sua morte, infatti, Otto ha lasciato una gigantesca quantità di rullini disseminati tra varie scatole, abbandonate nell’appartamento dove viveva. Ma sviluppare ogni pellicola richiedeva uno sforzo immane e dopo una spesa di alcune migliaia di euro si è deciso di interrompere tutto. Oggi quella casa accoglie donne in difficoltà, dopo essere diventata un bene culturale. Alcune scatole di rullini sono invece finite nelle mani di un amico di famiglia, che poi potrebbe averle cedute a una persona che le ha vendute online. "Per noi è come guardare lo spirito dell’epoca in cui sono state scattate le foto con le nostre esperienze e con ciò che è cambiato negli anni all’interno della regione, ma anche all’interno della casa, dagli alberi al giardino", pensa Simone. L’ultima foto sviluppata raffigura ancora una volta le tre bambine, assieme ad altri due bambini, questa volta su un’altalena, mentre l’unica di loro di spalle rivolge lo sguardo verso l’obiettivo. È stata stampata in sette copie, come in un’edizione limitata, per renderla ancora più speciale. Quando Pierluigi la guarda resta ancora stupito dalla geometria perfetta delle assi dell’altalena, come se fosse una cornice nella cornice, che solo chi ha lavorato a questo progetto per così tanto tempo può riempire di significato senza perdere quell’alone di mistero che circonda Otto Verkuyl, il fotografo olandese che non vedrà mai le foto con cui ha scandito il racconto della sua vita...

view post Posted: 5/11/2023, 13:42     +5NATALE 2023 - TANTE IDEE PER DECORARE LA CASA - COFFEE GLAMOUR




Cuscino decorativo, Westwing





Set di portatovaglioli, Westwing





Decorazione in tessuto, Westwing





Calendario dell’Avvento, Westwing





Set di stoviglie a tema natalizio, Westwing

view post Posted: 3/11/2023, 10:20     +13L'ARMADIO DEGLI ARGENTI IN MOSTRA A MILANO - CAFFE' LETTERARIO


CHE LUCE BEATO ANGELICO!
L'ARMADIO DEGLI ARGENTI IN MOSTRA AL DIOCESANO


Fino al prossimo 28 gennaio 2024, il Museo Diocesano di Milano accoglie lo straordinario scomparto dell’Armadio degli Argenti dedicato alle Storie dell’Infanzia di Cristo, dall’Annunciazione alla Disputa fra i Dottori, introdotte dalla Visione di Ezechiele, proveniente dal Museo di San Marco a Firenze, che custodisce la più grande collezione di opere di Beato Angelico.



Beato Angelico, Annunciazione, particolare del primo pannello dell’Armadio degli Argenti.
Firenze, Museo di San Marco


Si tratta di una delle ante dell’Armadio degli Argenti, così chiamato in quanto i trentasei scomparti che lo componevano erano in origine gli sportelli esterni dell’armadio ligneo che raccoglieva le offerte votive destinate all’immagine miracolosa della Vergine nella chiesa fiorentina della SS. Annunziata, ancor oggi tra le più venerate a Firenze.



Beato Angelico, Annunciazione, particolare del primo pannello dell’Armadio degli Argenti.
Firenze, Museo di San Marco




La mostra è curata da Angelo Tartuferi, direttore del Museo di San Marco di Firenze,
Nadia Righi, direttrice del Museo Diocesano di Milano, Gerardo De Simone, storico dell’arte,
con il patrocinio del Comune di Milano e il sostegno di Fondazione Bracco, in qualità di main sponsor.



Commissionata nel 1448 da Piero Cosimo de’ Medici, la tavola (123×123 cm), composta da nove formelle quadrate, è stata dipinta tra il 1450 e il 1452, al culmine della carriera del Beato Angelico. L’opera presenta una ricchissima sequenza narrativa, una vera e propria Bibbia illustrata, in cui tutti gli otto episodi dell’infanzia di Cristo sono inquadrati, in alto, da un cartiglio con una profezia del Vecchio Testamento e, in basso, dalla citazione del Vangelo corrispondente.



Beato Angelico, Annunciazione, particolare del primo pannello dell’Armadio degli Argenti.
Firenze, Museo di San Marco


I pannelli dell’Armadio degli Argenti condensano al loro interno la summa dell’Angelico. Alcune scene infatti ripropongono, mai in maniera ripetitiva, temi iconografici e soluzioni compositive o formali già adottate in precedenza dall’artista. L’Annunciazione, ad esempio, in cui il dialogo fra l’Angelo dalle ali variopinte e la Vergine in umile preghiera avviene in un loggiato umanistico, rinvia in primo luogo al veneratissimo affresco trecentesco dell’Annunziata a Firenze, ma soprattutto a quella all’inizio del corridoio dell’ex dormitorio del vicino convento di San Marco. L’impianto frontale dell’Adorazione dei Magi ripropone, inoltre, quello analogo nella predella dell’Annunciazione del Museo del Prado a Madrid e della cella numero 5 dell’ex dormitorio di San Marco.



Beato Angelico, Annunciazione, particolare del primo pannello dell’Armadio degli Argenti
Firenze, Museo di San Marco


Tra le altre formelle spiccano l’intima e intensa Natività, con uno straordinario effetto di luce artificiale, la Circoncisione, ambientata in un tempio che rivela anche l’aggiornamento del pittore sulle novità architettoniche del tempo e quella tra le più complesse, la Visione di Ezechiele, che ricalca uno schema a doppia ruota concentrica, con i quattro evangelisti e i quattro apostoli in quello interno, i dodici profeti in quello esterno, e le figure di Ezechiele e di San Gregorio Magno accovacciate negli angoli inferiori.


Fonte
view post Posted: 31/10/2023, 13:29     +6CITTÀ DELLE STREGHE - LE 5 DA VISITARE IN ITALIA - VIAGGI & NATURA


LE CINQUE CITTÀ DELLE STREGHE
DA VISITARE IN ITALIA PRIMA DEL SOLSTIZIO D'INVERNO



Dalle Alpi al Sud, borghi e città dove vivevano ed erano attive le streghe.
Da visitare perché sono posti bellissimi e per provare un brivido...


Le streghe sono tornate. O meglio, non se ne sono mai andate. Le streghe sono tra noi, come ci ha ben raccontato Roald Dahl, spesso camuffate sotto abiti alla moda, scarpe a punta, denti azzurrini… Questo, oggi. Ma nel passato essere accusate di stregoneria non significava soltanto guadagnarsi un marchio di infamia e di sospetto. Nella maggior parte dei casi, in alcuni luoghi dell’Italia, significava anche morte. Siamo andati a cercare i paesi dove è ancora forte l’impressione lasciata dai processi, dai roghi, dalle maledizioni vere e presunte, così come un certo senso di mistero che attira un turismo curioso di scoprire i segreti delle "città delle streghe". Unico avvertimento: andateci prima del solstizio d'inverno, chiamato Yule nel calendario della stregoneria (il 21 dicembre), perché è un punto di svolta del calendario spirituale: la luce raggiunge, in questo giorno, il minimo della durata per poi iniziare ad allungarsi nuovamente.



Le antiche pietre di Triora.


Triora, provincia di Imperia


La città delle streghe per antonomasia si trova nel ponente ligure: a Triora ogni angolo racconta storie di streghe e magie. La vicenda che ha regalato al paese il suo primato è triste: nel 1588 alcune donne furono vittime di uno dei più sanguinosi processi per stregoneria della Liguria (esistono ancora gli atti del processo, in mostra nel piccolo Museo Etnografico e della Stregoneria del paese): accusate di stregoneria, una trentina di donne che curavano e guarivano, utilizzando le erbe del posto, furono condannate dopo orrendi supplizi in case trasformate in carceri, ma non giustiziate. , fuori dalle mura del borgo di cui restano solo pochi resti, dove pare che le streghe venissero Fuori dalle nura, di cui restano pochi resti, si diceva che si svolgessero i riti e le donne stringessero accordi con il Diavolo: ed è da qui che parte una bellissima passeggiata nei boschi, il sentiero delle streghe, con vista sulla valle e sull’areale del Monte Saccarello (il monte più alto della Liguria). Ancora, il Monte delle Forche, è stato palcoscenico di sacrifici umani, pene capitali, e di torture di cui le donne considerate streghe sono state vittime.




La città di Calcata, costruita su uno sperone di tufo.


Calcata, provincia di Viterbo


Calcata, in provincia di Viterbo, è uno dei borghi più visitati del Lazio. Merito la sua fama di città delle streghe, delle quali si ode il canto, ma anche di una folta comunità di hippy e di artisti da tutto il mondo. Costruita su una rupe di tufo molto instabile, Calcata domina la valle del Treja. Molte credenze, che risalgono agli antichi Falisci, ritenevano Calcata il centro nevralgico di energie primitive provenienti dal sottosuolo: di qui, tutte le leggende sul su occultismo. Nei giorni e nelle notti di forte vento, sembra davvero di sentire un canto, quello che le credenze popolari chiamano il canto delle streghe.





Il noce di Benevento.


Benevento, in Campania


Le streghe di Benevento le conoscono tutti. Erano** janare**, una parola forse legata al culto di Diana, forse alla venerazione sannitica e della Magna Grecia di Cibele. Oppure si pensa che il nome venga dal latino ianua, cioè porta. Come la porta delle stalle delle giumente, cosparsa di sale per impedire l'ingresso alle "figlie della notte". Secondo la leggenda, le streghe, che rapivano di notte le giumente per cavalcarle e stremarle, non potevano resistere alla tentazione di contare i grani di sale oppure i fili della scopa di saggina. Ma c’è anche un’immagine letteraria legata ai sabba, le riunioni rituali delle streghe: quella della porta del solstizio di inverno che scricchiola sui cardini, nella notte più lunga dell’anno, luogo di transizione tra bene e male, tra il mondo terreno e quello infernale. Dal XV secolo furono estorte con la tortura molte confessioni di stregoneria a donne beneventane, che poi furono mandate al rogo. Secondo la leggenda, le janare potevano volare: reclutate dall’Arcistrega, si spalmavano addosso un unguento, diventavano incorporee e potevano essere trasportate da venti di tempesta. A cavallo di una scopa, si riunivano nei sabba dove evocavano il diavolo e si dedicavano ad attività come succhiare il sangue ai bambini, provocare malefici sui neonati e sulle donne fertili, opprimere le persone dormienti sedendosi sul loro petto.




Lo Sciliar visto dall'altipiano di Renon in Trentino Alto Adige.


Fiè allo Sciliar, in provincia di Bolzano


Il massiccio dello Sciliar è la prima delle Dolomiti ed è di sicuro la montagna più intrisa di miti e leggende magiche. Nel Medioevo, si pensava che lo Sciliar fosse un luogo d’incontro per streghe e diavoli. Le Streghe dello Sciliar (Schlernhexen, in tedesco) si radunavano per scatenare forti temporali sulla montagna e, solamente nell’area di Fiè, vennero processate nel 1506 a Castel Presule (Schloss Prösels) e uccise nove donne per stregoneria. A quel primo processo ne seguì un secondo nel 1510.




L’antico monastero femminile di Santa Maria della Stella.


Rifreddo, provincia di Cuneo


Al massiccio del Mombracco sono legate leggende popolari che narrano di masche, faje (donne dotate di facoltà sovrannaturali) ed altri terrificanti esseri che hanno terrorizzato intere generazioni di rifreddesi. Nel 1495 il piccolo paese del cuneese è stato teatro di atroci persecuzioni alle streghe, con processi ad alcune donne del luogo ritenute responsabili di eresia. I documenti storici dei processi alle streghe, esistono ancora e si trovano nell'archivio storico del Comune. Forse per esorcizzare il passato, ogni anno a fine ottobre il paese organizza "Le notti delle streghe", con una passeggiata serale per le vie di Rifreddo immerse nell'oscurità, accompagnati da un fantasma silenzioso armato di torcia a vento.
view post Posted: 19/10/2023, 20:49     +5ACQUEDOTTI ROMANI - GENIALI ITINERARI - CAFFE' LETTERARIO


ACQUEDOTTI
CAPOLAVORI D'INGEGNERIA ROMANA




Per rifornire di acqua le città, i romani crearono un impressionante sistema di canali e ponti monumentali





Itinerario di un acquedotto romano


La prima captazione d’acqua avveniva in una sorgente di montagna con acque limpide e salubri, prive di vegetazione o limo. Per superare dislivelli importanti si costruivano canali a cascata. Nel tratto iniziale dell’acquedotto l’acqua passava da un deposito, chiamato piscina limaria, dove la corrente si fermava, l’acqua stagnava e il limo e le altre impurità si depositavano sul fondo per decantazione.



Attraverso una tubatura, l’acqua passava da un punto a un altro,
leggermente più basso del primo, spinta soltanto dalla pressione.



Per superare i dislivelli del terreno si poteva usare il sistema a sifone. Da una cisterna, l’acqua si riversava in una tubatura che seguiva un percorso a forma di U. Grazie alla pressione, poteva risalire fino a una quota inferiore di quella del punto di partenza. Gli archi sul fondo dell’avvallamento permettevano di ridurre il dislivello e la pressione.



I tubi, di piombo, erano interrati a una profondità di un metro.


Una possibilità per attraversare un corso d’acqua era costruire un ponte ad archi. Il ponte poteva avere un singolo ordine di archi, oppure due o addirittura tre. Il canale (specus) correva nella parte superiore ed era coperto. Per costruire i canali sotterranei si scavavano pozzi a distanza regolare l’uno dall’altro. I pozzi non venivano chiusi, ma si utilizzavano per gli interventi di manutenzione e riparazione dei canali. Nella sezione illustrata sotto sono evidenti la forma a volta del canale sotterraneo e la copertura della metà inferiore, fino al livello abituale dell’acqua, con opus signinum, una miscela di laterizi e malta di calce.



Canale sotterraneo di un acquedotto


Per attraversare uno spazio aperto mantenendo un dislivello lieve talvolta si costruivano lunghe arcate. Per esempio, l’Aqua Claudia, una volta emerso dal sottosuolo, si estendeva per dieci chilometri prima di entrare a Roma. Quando l’acqua arrivava in città, veniva raccolta in un deposito, solitamente interrato, chiamato castellum aquae. Da questi depositi, splendidamente decorati, l’acqua veniva distribuita nei vari canali che rifornivano la città.



Il 'castellum aquae' con i suoi tre canali, parte finale dell’acquedotto e punto dal quale l’acqua veniva distribuita alla città

view post Posted: 15/10/2023, 13:04     +10ITALO CALVINO - LA STORIA DEL PARTIGIANO SANTIAGO - CAFFE' LETTERARIO


Ma quando penso all'avvenir
della mia libertà perduta
vorrei baciarla e poi morir
mentre lei dorme... all'insaputa...

(Italo Calvino)



ITALO CALVINO
IL PARTIGIANO SANTIAGO




Tra il 1944 e il 1945 lo scrittore partecipò alle fasi più cruente
della Resistenza sanremese al nazifascismo e tra bombardamenti
e rappresaglie conobbe quel «"ancinante mondo umano"
che avrebbe orientato la sua attività di scrittore.






Un passo da "Il sentiero dei nidi di ragno"


"Questo è il significato della lotta, il significato vero, totale […] Una spinta di riscatto umano, elementare, anonimo, da tutte le nostre umiliazioni: per l’operaio dal suo sfruttamento, per il contadino dalla sua ignoranza, per il piccolo borghese dalle sue inibizioni, per il paria dalla sua corruzione".

Restano indelebilmente scolpite della memoria antifascista le parole che lo scrittore Italo Calvino nel suo romanzo d’esordio Il sentiero dei nidi di ragno (1947) mette in bocca al commissario Kim, lo studente universitario comandante di una brigata partigiana che spiega ai compagni le ragioni profonde, politiche ma soprattutto etico-esistenziali dell’adesione alla Resistenza. A cento anni esatti dalla nascita dello scrittore Italo Calvino, uno dei massimi esponenti della letteratura nazionale della Resistenza al pari di Beppe Fenoglio, Cesare Pavese, Elio Vittorini e Primo Levi, e nell’ottantesimo anniversario dell’inizio della guerra di Liberazione, in un mondo gravato da conflitti e disparità sociali, quelle frasi assumono un senso marcatamente speranzoso e pacifista:

"Tutto servirà se non a liberare noi,
a liberare i nostri figli,
a costruire un’umanità senza più rabbia,
serena, in cui si possa non essere cattivi
".






Lo scrrittore Italo Calvino fotografato a Oslo, in Norvegia, il 7/71961
da Johan Brun, fotografo affiliato al quotidiano norvegese "Dagbladet".


A vent’anni

Italo Calvino nasce il 15 ottobre 1923 a Santiago de Las Vegas de La Habana da genitori italiani emigrati a Cuba per ragioni commerciali. A soli due anni si trasferisce a Sanremo e lì vive la propria giovinezza, frequenta il liceo classico e poi s’iscrive alla facoltà di agraria all’università di Torino. Alcune delle Pagine autobiografiche, confluite poi nei Saggi Meridiani Mondadori, sono rivelatrici di una scelta radicale: "Dopo il liceo feci qualche tentativo di seguire la tradizione scientifica familiare, ma già avevo la testa alla letteratura e smisi. Intanto era venuta l’occupazione tedesca e, assecondando un sentimento che nutrivo fin dall’adolescenza, combattei con i partigiani, nelle Brigate Garibaldi". A un certo punto, soprattutto dopo l’armistizio dell’8 settembre del 1943, migliaia di giovani poco meno o poco più che ventenni si trovarono dinanzi a un bivio: "Tutto il male avevamo di fronte, tutto il bene avevamo nel cuore, a vent’anni la vita è oltre il ponte, oltre il fuoco comincia l’amore". Sono versi toccanti scritti tra il 1958 e il 1959 e musicati da Sergio Liberovici, espressione di una poesia realistica, popolare, antimilitarista in cui l’autore attinge alla sua stessa esperienza. Tra il 1943 e il 1944 il Paese era diviso, lacerato. Con la fine dell’alleanza con la Germania nazista e lo sbarco degli angloamericani che da Salerno risalivano la Penisola si entrò negli ultimi e più cruenti sedici mesi di guerra costellati da stragi, rastrellamenti, rappresaglie e bombardamenti fino al 25 aprile del 1945, data che segnò la liberazione del Paese dal nazifascismo e la fine della guerra. In siffatto contesto "chi non vuole chinare la testa, con noi prenda la strada dei monti" taglia corto Calvino.



Attestato degli Alleati




Documento di riconoscimento di Calvino come membro della divisione partigiana "Felice Cascione"


Scalzi e laceri

Tra maggio e giugno del 1944 la Repubblica sociale italiana è solo un microstato fantoccio, tenuto cioè in piedi della Germania nazista cui Calvino, pur prestando servizio come soldato sedentario nel tribunale militare di Sanremo, non aderisce. Nella clandestinità prende contatti con il Partito comunista e il Fronte della gioventù. La decisione di salire in montagna matura il 15 agosto del 1944 quando entra a far parte nella brigata alpina accampata nei boschi di Baiardo, in provincia di Imperia. Nell’ottobre successivo aderisce alla brigata cittadina "G. Matteotti" che il 15 novembre viene rastrellata nei dintorni di Sanremo. Viene fatto prigioniero, incarcerato per tre giorni nella fortezza di Santa Tecla a Sanremo e obbligato ad arruolarsi nella Repubblica sociale italiana. Però riesce rocambolescamente a fuggire e, dopo aver assunto "Santiago" come nome di battaglia, l’1 febbraio del 1945 ritorna sui monti entrando a far parte del I battaglione della V Brigata d’assalto Garibaldi "L. Nuvoloni" nel momento più tragico della resistenza sanremese.



Italo Calvino (a destra) e il fratello Floriano nelle campagne di San Giovanni.


Il libro curato da Daniela Cassiani e Sarah Clarke Loiacono (Fusta Editore, 2023) ripropone la vivida testimonianza di Francesco Biga, partigiano garibaldino e direttore scientifico dell’Istituto Storico della Resistenza d’Imperia: "Le cinghie della cassetta delle munizioni che portava gli laceravano la pelle delle spalle, ma Calvino marciava in silenzio, col cuore sulle labbra per l’ansia, pensando ai drammatici avvenimenti ancora ignoti, ma che si sarebbero succeduti a catena di lì a poco". Nei giorni della Liberazione "Santiago" scende a Sanremo come combattente garibaldino. Sempre nelle Pagine autobiografiche avrà modo di ricordare il "teatro" di quelle epiche battaglie:

"Negli stessi boschi che mio padre
m’aveva fatto conoscere fin da ragazzo;
approfondii la mia immedesimazione i
n quel paesaggio e vi ebbi la prima scoperta
del lancinante mondo umano".






Illustrazione contenuta in "I sentieri di nidi di ragno" edito da Mondadori nel 2012


Boschi, caserme, cadaveri

Prima di vivere la montagna, la fame e il freddo, la prigionia, le bombe e i rastrellamenti non v’era traccia del Calvino scrittore. C’era il ventenne partigiano Santiago, il cui unico "mestiere" era quello di sopravvivere. Ma il bagaglio d’esperienze del combattente informò la penna del futuro scrittore: "Tutto quello che scrivo e che penso parte da quell’esperienza" avrebbe dichiarato nel 1957 al giornalista Enzo Maizza. In altri termini il vissuto della Resistenza fu come una sorta di guida che "determinò il mio impegno politico a essere parte di un profondo rinnovamento democratico del mio paese", confessò al giornalista statunitense Alexander Stille. Il romanzo è un genere ancoro lontano negli orizzonti del giovane scrittore che privilegia un narrato "bello, pulito, stringato". Nell’Archivio Giacometti-Loiacono, studiato a fondo dalla studiosa Sarah Clarke Loiacono, c’è una cartellina che reca l’intestazione "Italo Calvino" che racchiude quattro racconti, tre dei quali dedicati al tema della Resistenza. Il primo è Radura, scritto nel 1945 e successivamente pubblicato nella raccolta "Ultimo viene il corvo" (1949) con il titolo "Andato al comando". "Il bosco era rado, quasi distrutto dagli incendi, grigio nei tronchi bruciati, rossiccio negli aghi secchi dei pini. L’uomo armato e l’uomo senz’armi se ne venivano a zig-zag tra gli alberi, scendendo". È l’incipit del racconto della marcia di un partigiano armato che tiene prigioniera una spia collaborazionista illudendola che una volta giunta al comando avrebbe trovato la libertà. E invece: "Cascò con la faccia al suolo e il colpo di grazia lo colse in una visione di piedi calzati coi suoi scarponi che lo scavalcavano. Così rimase, cadavere nel fondo del bosco, con la bocca piena di aghi di pino. Non erano passate due ore e già era pieno di formiche".



Illustrazione contenuta in "I sentieri di nidi di ragno" edito da Mondadori nel 2012


Gli altri due racconti, "Angoscia in caserma" e "La stessa cosa del sangue", entrambi scritti nel 1945 e pubblicati anch’essi per la prima volta in "Ultimo viene il corvo" trattano di alcuni fatti realmente accaduti all’autore e alla sua famiglia: l’arresto dei genitori nell’autunno del 1944, il rastrellamento di San Romolo e la conseguente cattura di Calvino, la prigionia in Santa Tecla e la successiva fuga. In Angoscia in caserma pensieri convulsi s’affollano nella mente del ragazzo rastrellato che fa la conta delle brande della caserma o di quanto gli rimane da vivere: "Erano pensieri senza senso: se ne accorse. Eppure, una due tre brande, forse gennaio febbraio marzo, giugno luglio, cosa gli era successo in luglio? Poi quella branda vuota, perché? Agosto settembre ottobre novembre. Qualcosa finiva a novembre: la guerra? La vita?". In La stessa cosa del sangue tornano i boschi dell’entroterra ligure dove due fratelli si nascondono per sottrarsi alla leva obbligatoria alla Repubblica di Salò. La madre è stata catturata dai tedeschi e "adesso si sarebbero presi per mano, avrebbero camminato smarriti, bambini senza mamma. Invece c’erano tante cose da fare, nascondere le bombe, le pistole, i caricatori, i fucili, i medicinali, gli stampati, nasconderli dentro il covo degli olivi e dietro le pietre dei muri, chè i tedeschi non venissero a perquisire fin lassù, a cercar loro". Dopo la prima pubblicazione entrambi i racconti vengono tagliati nelle riedizioni del 1958 e del 1969 per essere ripristinati nel 1976. Come afferma Clarke Loiacono "se da un lato [Calvino] li racconta a caldo come ricordo vivo e come testimonianza della Resistenza […] dall’altro a mente più lucida, quando la partecipazione emotiva si affievolisce, è probabile che si sia sentito a disagio di aver messo in piazza, per così dire, fatti tanto personali, lui che non ha mai gradito di sentirsi esposto". In ogni caso i tre racconti rappresentano una sorta d’iter formativo che conduce Calvino al romanzo, considerando che "Pavese [Cesare] ha detto no, i racconti non si vendono, bisogna che fai un romanzo".



Italo Calvino, nel 1983, nella sua casa a Campo Marzio, Roma.


Il filo conduttore del romanzo è una pistola che Manuela Ormea, studiosa di Calvino, definisce «oggetto persino banale nella narrazione di un conflitto distruttivo» ma che "aveva la sua storia in mezzo alle storie dei partigiani e dei custi (cespugli) che avrebbero coperto coperto l’entroterra e reso invisibili i partigiani". L’arma sottratta da Pin, un bambino orfano di circa dieci anni a un marinaio tedesco, causa la detenzione del ragazzo e lo pone dinanzi a un mondo malfamato, violento, ambiguo e dunque non facilmente decifrabile senza una figura adulta di riferimento. La trova sul finire nel partigiano Cugino, l’unico che gli è vicino e dunque degno di conoscere il sentiero dei nidi di ragno, non un percorso reale ma frutto della fantasia ingenua di un bambino. Il contraltare sta nell’ambiguità del Cugino che dopo aver ucciso la Nera, sorella di Pin e spia dei tedeschi, s’incammina col piccolo "nella notte, in mezzo alle lucciole, tenendosi per mano". Entrambi testimoni sul sentiero di un’epoca nuova, senza rabbia né armi. (C.R)
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