Cesare Pavese, Biografia e critica della sua 'opera letteraria

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view post Posted on 5/10/2013, 13:27     +6   +1   -1
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Cesare Pavese nacque il 9 settembre 1908 a Santo Stefano Belbo, un piccolo paese nelle Langhe, in provincia di Cuneo; qui il padre Eugenio, cancelliere presso il Palazzo di Giustizia di Torino, ha un piccolo podere, il cascinale di San Sebastiano, che per tutta la sua infanzia sarà per Pavese la sede, mitizzata poi nel ricordo, delle sue vacanze estive. La madre, Consolina Mesturini, era figlia di commercianti benestanti di Ticineto: la primogenita Maria era nata nel 1902.

Cesare-Pavese

Malgrado l'agiatezza economica, l'infanzia di Pavese non fu felice: una sorellina e altri due fratelli, nati prima di lui, erano morti prematuramente. La madre, fragile di salute, dovette affidare il bambino subito dopo la nascita a una balia. Suo padre morì il 2 gennaio 1914 di un cancro al cervello, quando Cesare aveva solamente cinque anni. La madre di carattere autoritario, dovette così allevare da sola i due figli impartendo loro un'educazione molto rigorosa, contribuendo indirettamente ad accentuare il carattere introverso di Cesare.

Nell'autunno dello stesso anno in cui morì il padre, la sorella si ammalò di tifo e la famiglia fu costretta a rimanere a Santo Stefano Belbo dove Cesare frequentò la prima elementare; le altre quattro classi del ciclo le finì a Torino.

Nel 1916 Consolina, non riuscendo più a sostenere la gestione dei mezzadri e soprattutto le spese, prese la decisione di vendere la cascina di San Sebastiano e di andare a vivere con i figli in una piccola villa che aveva comprato in collina a Reaglie, frazione del Comune di Torino.

Pavese si iscrisse al liceo D'Azeglio nell'ottobre del 1923 e scoprì l'opera di Alfieri. Passò gli anni di liceo tra i primi amori adolescenziali e le amicizie con un gruppo di compagni, tra i quali Tullio Pinelli, amico al quale Pavese farà leggere per primo il dattiloscritto di Paesi tuoi e invierà una lettera di addio prima del suicidio.

Nel 1926, conseguita la maturità liceale si iscrisse intanto alla Facoltà di lettere dell'Università di Torino e continuò a scrivere e a studiare con grande fervore l'inglese, appassionandosi alla lettura di Walt Whitman. Nel 1930 presentò la sua tesi di laurea "Sulla interpretazione della poesia di Walt Whitman" con 108/110.



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Nel 1931 gli muore la madre; Pavese continua a vivere nella stessa casa con la famiglia della sorella Maria, sempre estraniato in se stesso, riluttante ad ogni confidente abbandono. Per guadagnare iniziò l'attività di traduttore in modo sistematico alternandola all'insegnamento della lingua inglese, nelle scuole serali.

Iniziò a lavorare saltuariamente in vari istituti medi statali, ma poiché non era iscritto al partito fascista, dovette ripiegare sugli istituti privati. Per un compenso di 1000 lire tradusse Moby Dick di Herman Melville e Riso nero di Anderson. Risale a questo stesso anno la prima poesia di Lavorare stanca.

Nel 1932, per poter insegnare nelle scuole pubbliche si arrese, malvolentieri, alle insistenze della sorella e di suo marito e si iscrisse al partito nazionale fascista, cosa che rimprovererà più tardi alla sorella Maria in una lettera del 29 luglio 1935 scritta dal carcere di Regina Coeli: "A seguire i vostri consigli, e l'avvenire e la carriera e la pace ecc., ho fatto una prima cosa contro la mia coscienza".


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Continuava intanto l'attività di traduttore, che terminò solamente nel 1947. Nel 1933 tradusse Il 42º parallelo di John Dos Passos e Ritratto dell'artista da giovane di James Joyce. Ebbe inizio in questo periodo un tormentato rapporto sentimentale con Tina Pizzardo, la "donna dalla voce rauca" alla quale dedicherà i versi di Incontro nella raccolta Lavorare stanca.

Nel 1933 iniziò a lavorare, insieme a Carlo Levi, Massimo Mila, Leone Ginzburg e altri, alla casa editrice Einaudi. Nel 1934, grazie alla raccomandazione di Ginzburg, riuscì ad inviare ad Alberto Carocci, direttore della rivista Solaria, le poesie di Lavorare stanca che vennero lette da Elio Vittorini con parere positivo tanto che Carocci ne decise la pubblicazione.



Nel 1935 venne arrestato poiché coinvolto in attività antifasciste: riceveva al proprio indirizzo lettere politicamente compromettenti, indirizzate ad una militante del partito comunista clandestino, con la quale aveva avviato una relazione. Condannato a tre anni di confino a Brancaleone, vi resta fino al marzo 1936. Pavese, in realtà, era innocente, poiché le missive trovate erano rivolte a Tina Pizzardo, la "donna dalla voce rauca" della quale era innamorato. Tina era però politicamente impegnata e continuava ad avere contatti epistolari con il precedente fidanzato; le lettere pervenivano a casa di Pavese che, per accontentarla e senza valutare le conseguenze, le aveva permesso di utilizzare il suo indirizzo.



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Il 4 agosto 1935 Pavese giunse quindi in Calabria, e qui scrisse ad Augusto Monti:
"Qui i paesani mi hanno accolto umanamente, spiegandomi che, del resto, si tratta di una loro tradizione e che fanno così con tutti. Il giorno lo passo "dando volta", leggicchio, ristudio per la terza volta il greco, fumo la pipa, faccio venir notte; ogni volta indignandomi che, con tante invenzioni solenni, il genio italico non abbia ancora escogitato una droga che propini il letargo a volontà, nel mio caso per tre anni. Per tre anni! Studiare è una parola; non si può niente che valga in questa incertezza di vita, se non assaporare in tutte le sue qualità e quantità più luride la noia, il tedio, la seccaggine, la sgonfia, lo spleen e il mal di pancia. Esercito il più squallido dei passatempi. Acchiappo le mosche, traduco dal greco, mi astengo dal guardare il mare, giro i campi, fumo, tengo lo zibaldone, rileggo la corrispondenza dalla patria, serbo un'inutile castità.

Nell'ottobre di quell'anno iniziò a tenere quello che definì lo "zibaldone", un diario che diventerà in seguito Il mestiere di vivere ( pubblicato postumo) le sue inquietudini che cominciano ad accentuarsi. Avendo presentato domanda di grazia, ottenne il condono di due anni.

Nel 1936, durante il suo confino, venne pubblicata la prima edizione della raccolta poetica Lavorare stanca (nell’edizione di Solaria) che, malgrado la forma fortemente innovativa, passò quasi inosservata.

Al ritorno dal confino, trovò che le sue poesie erano state ignorate e inoltre che la donna amata si era sposata: ne ricavò una delusione così cocente da fargli sfiorare il suicidio; questa esperienza sentimentale “traccerà nella sua esistenza un solco di incolmabile dolore, di disperata frustazione”. (L.Mondo).
Per guadagnarsi da vivere riprese il lavoro di traduttore e nel 1937 accettò di collaborare, con un lavoro stabile e per lo stipendio di mille lire al mese, con la Einaudi per le collane "Narratori stranieri tradotti".



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Dal 3 giugno al 16 agosto scrisse Paesi tuoi che verrà pubblicato nel 1941 e sarà la prima opera di narrativa dello scrittore data alle stampe.
Nel 1943, dopo l'8 settembre, Torino venne occupata dai tedeschi e anche la casa editrice venne occupata da un commissario della Repubblica sociale italiana. Pavese, a differenza di molti suoi amici che si preparavano alla lotta clandestina, si rifugiò a Serralunga di Crea, un piccolo paese del Monferrato, dove la sorella Maria era sfollata: solitudine, esame di coscienza, dissidio tra desiderio e incapacità di legarsi agli altri (cfr. La casa in collina).

Nel 1946 scriverà: Certo avere una donna che ti aspetta, che dormirà con te, è come il tepore di qualcosa che dovrai dire, e ti scalda e t’accompagna (8 febbraio). Ogni sera, finito l’ufficio, finita l’osteria, andate le compagnie – torna le feroce gioia, il refrigerio d’essere solo. E’ l’unico bene quotidiano (25 aprile). (da Il mestiere di vivere)


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Ritornato a Torino dopo la liberazione, venne subito a sapere che tanti amici erano morti: Giaime Pintor era stato dilaniato da una mina sul fronte dell'avanzata americana; Luigi Capriolo era stato impiccato a Torino dai fascisti e Gaspare Pajetta, un suo ex allievo di soli diciotto anni, era morto combattendo nella Val d'Ossola. Colpito indubbiamente da un certo rimorso, che ben espresse nei versi del poemetto La terra e la morte e in tante pagine dei suoi romanzi, egli cercò di isolarsi dagli amici rimasti e poco dopo decise di iscriversi al Partito comunista iniziando a collaborare al quotidiano l'Unità, dove conobbe Italo Calvino, che lo seguì alla Einaudi e ne divenne da quel momento uno dei più stimati collaboratori.

Scriverà nel suo diario, il 1º gennaio del 1946, come consuntivo dell'anno trascorso:
Anche questa è finita. Le colline, Torino, Roma. Bruciato quattro donne, stampato un libro, scritte poesie belle, scoperta una nuova forma che sintetizza molti filoni (il dialogo di Circe). Sei felice? Sì, sei felice. Hai la forza, hai il genio, hai da fare. Sei solo. Hai due volte sfiorato il suicidio quest'anno. Tutti ti ammirano, ti complimentano, ti ballano intorno. Ebbene? Non hai mai combattuto, ricordalo. Non combatterai mai. Conti qualcosa per qualcuno?




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Nel 1947 “Il compagno” vince il premio Strega: Pavese appare come un autore “impegnato”. Tra il settembre del 1947 e il febbraio del 1948, scrisse La casa in collina che uscì l'anno successivo insieme a Il carcere nel volume Prima che il gallo canti il cui titolo, ripreso dalla risposta di Cristo a Pietro, si riferisce, con tono palesemente autobiografico ai suoi tradimenti politici. Seguirà, tra il giugno e l'ottobre del 1948 Il diavolo sulle colline, La bella estate nel 1949 e nel 1950 La luna e i falò.

Il 16 agosto aveva scritto sul diario: Questo il consuntivo dell'anno non finito, che non finirò . La mia parte pubblica l’ho fatta – ciò che potevo. Ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti; al 18 agosto aveva chiuso il diario scrivendo: Tutto questo fa schifo . Non parole. Un gesto. Non scriverò più; da una lettera a Piero Calamandrei del 21 agosto: Quella “serena contemplazione del ricordo” che lei rivela nei miei libretti non è stata se non a prezzo di tali rinunzie della mia vita che oggi ne sono tramortito.


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Il 17 agosto si suicidò in una camera d’albergo a Torino. Venne trovato disteso sul letto dopo aver ingerito più di dieci bustine di sonnifero. Sulla prima pagina dei Dialoghi con Leucò che si trovava sul tavolino aveva scritto: «Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi». All'interno del libro era inserito un foglietto con tre frasi vergate da lui: una citazione dal libro, ”L'uomo mortale, Leucò, non ha che questo d'immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia” , una dal proprio diario, “Ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti”, e “Ho cercato me stesso” . Qualche giorno dopo si svolsero i funerali civili, senza commemorazioni religiose poiché suicida e ate



Addio-Pavese





Edited by Milea - 15/7/2021, 10:23
 
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Oltre l’ermetismo


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Per certi aspetti l’attività e la figura di Pavese possono essere accostate a quelle di Vittorini: anch’egli contribuì con le sue traduzioni a creare verso gli anni ’30, il mito della letteratura americana; anche lui, lavorando nell’editoria, svolse un’opera di organizzazione di cultura meno vistosa di quella di Vittorini, ma non meno importante; anche lui con le poesie di Lavorare stanca, sembrò indicare vie diverse da quelle battute in quegli anni; anche lui con la militanza nel PCI cercò uno sbocco, sul piano dell’azione concreta, ai problemi culturali. Ma sul piano artistico vero e proprio la sua importanza è assai più notevole di quella di Vittorini: l’interesse di critica e di pubblico per la sua opera, sempre vivo, dimostra che il Pavese scrittore e il “testimone” più suggestive di quegli anni.

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In un periodo di pieno culto ermetico quando, come egli stesso scrisse, la prosa italiana era un colloquio estenuato con se stessa e la poesia un sofferto silenzio, Pavese imbocca una strada perfettamente antitetica: quella della poesia-racconto che si distenda in ampi ritmi narrative, adotti toni del parlato, faccia posto ad un mondo brulicante e vivo - le osterie, la campagna, le vie della città, la squallida periferia - contenga una certa component di polemica politica e definitivamente rompa col rarefatto solipsismo di tanta poesia contemporanea.


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Ma queste solide realtà che sembrano dare una concretezza realistica e nuova alla poesia di Pavese ( la luce beffarda/ dei lampioni sul gran scalpiccio…; La collina di terra e di foglie…; Si va alla vendemmia/ e si mangia e sic anta: si va a spannocchiare / e si balla e si beve…) sono però fa prendere con molta cautela.

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C’è nella raccolta una notevole disparità di risultati dovuta all’accanito lavoro di ricerca, di sondaggio delle proprie possibilità cui Pavese si sottoponeva, ma una conclusione ci sembra legittima e cioè: nelle liriche più riuscite Pavese va oltre il dato naturalistico che sembra pur così evidente e la collina e la campagna e le strade della periferia sono assunte strumentalmente come spunti, come punti di partenza per un discorso che ritorna all’io che man mano che Pavese procede nella composizione, “ riafferma sempre più le sue ragioni” (L.Mondo). lo stesso autore dichiarò fra l’altro che quelle liriche esprimevano l’avventura dell’adolescente che, orgoglioso della sua campagna, immagina consimile la città. E così sono già sufficientemente presenti nella raccolta due temi di fondo che domineranno tutta la posteriore produzione di Pavese, cioè quello della solitudine e quello del mito. (Milea)


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Edited by Milea - 15/7/2021, 10:26
 
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La solitudine e il mito




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Una situazione, una “figura” sono ricorrenti e tipiche nell’opera di Pavese: quella dell’espatriato, di colui che si è allontanato, sradicato dal proprio mondo, è andato in giro, magari ha fatto fortuna, ma prima o poi, nel ritorno ai propri luoghi e nel rimpatrio, tenta ancora l’aggancio col passato infantile: dal protagonista della prima lirica (I mari del sud) della raccolta poetica a quello dell’ultimo romanzo: Anguilla de La luna e i falò. Condizione questa che, d’altra parte era sul piano biografico proprio quella di Pavese, sradicato dalle Langhe.

Alla condizione di solitudine, alla impossibilità di avviare un colloquio con gli altri - derivante proprio da questa condizione di estraniato- si possono opporre come unica difesa il “paese” ( un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti, dichiara Anguilla), il ricordo e i legami - in una dimensione che è nel contempo sentimentale e biologica - col mondo primigenio e autentico dei luoghi e dei tempi dell’infanzia. Tutto è nell’infanzia, anche il fascino che sarà a venire… così a ciascuno i luoghi dell’infanzia ritornano alla memoria; in essa accadono cose che li han fatti unici e li trascelgono sul resto del mondo con questo suggello mitico.

Su questa idea del mito Pavese lavorò molto nell’intento di chiarificare quella che consapevolmente riteneva una componente di fondo della sua arte; la meditazione sul Vico, gli studi di etnologia, i suoi legami con l’irrazionalismo decadente convergono nell’elaborazione di questa sua idea-base secondo la quale in noi, in un aurorale contatto col mondo, si creano miti, simboli, che assurgono a significazione delle cose, irrazionale ma definitive e determinante per il futuro: una sorta di memoria del sangue.
Il mito cioè è un fatto avvenuto una volta per tutte che perciò si riempie di significati e sempre se ne andrà riempiendo in grazia appunto della sua fissità, non più realistica… Esso avviene sempre alle origini, come nell’infanzia: è fuori del tempo…



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Il problema, certo, è assai complesso, ma dalle riportate citazioni si può trarre già una conclusione: quanto lontano sia Pavese, partendo da premesse del genere, da ogni finalità di realistica rappresentazione. Il compito dell’artista è quindi nella escavazione di questo fondo mitico primigenio e irrazionale, nel recupero dei suoi momenti esemplari, nel dare forma, parola a tutto ciò (l’arte moderna è, in quanto vale, un ritorno all’infanzia. Suo motivo perenne è la scoperta delle cose, scoperta che può avvenire, nella sua forma più pura, soltanto nel ricordo dell’infanzia).
Ed è significativo che, in piena battaglia per il neorealismo, Pavese sottolineasse questa dimensione evocative e lirica dell’arte, questa fondamentale importanza della parola che per lui è ben altro che strumento di mimetica registrazione, come per lui l’arte è ben altro che naturalistica rappresentazione dei fatti.


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Da quanto si è detto si possono dunque enucleare due filoni di fondo da tener presenti come indicazioni-guida per la comprensione dell’opera di Pavese:
1. La vita fatalmente ci stacca da mondo dell’infanzia, dai luoghi e dai miti in essa verificatesi ed ecco l’esperienza della solitudine, di un epidermico rapporto con gli uomini che non tocca le ragioni profonde del nostro essere, ecco la consapevolezza dell’estraneamento, del peso di vivere, dell’inaridirsi: come di un albero trapiantato in un terreno non adatto.

Ma la solitudine di Pavese, pur se di chiara matrice decadente, ha un timbro tragico che nei testi esemplari della suddetta stagione letteraria mancava: non è sentita come blasone di nobiltà, come compiaciuta e aristocratica diversità dagli altri, ma come tragica incapacità di vivere -val la pena esser solo, per essere sempre più solo? - come bruciante problema che va posto e risolto: tuto il problema della vita è questo: rompere la propria solitudine, come comunicare con gli altri annota ne Il mestiere di vivere.

Tutta la vita di Pavese è contrassegnata da questo supremo impegno, da questa ricerca di comunicazione- l’esperienza sentimentale perennemente vagheggiata e risoltosi sempre in frustrazione, la militanza politica volontaristicamente perseguita – che non trova però la sua realizzazione e approda anzi alla tragica confessione del fallimento.

2. L’arte trarrà alimento ovviamente da questa condizione dell’uomo e metterà in luce l’elemento per così dire negativo, cioè la banalità e la non autenticità del vivere cittadino, ma soprattutto mirerà -e sarà questo il suo elemento “positivo”- al recupero dei miti dell’infanzia, alla espressione del loro potenziale simbolico. Il che vuol dire: scavo nella propria interiorità, alla scoperta delle radici del proprio essere, del proprio destino che, per le teorie del mito, si è determinato nell’infanzia. Da ciò nasce quella contrapposizione (città-campagna, Torino-Langhe) tipica di tanti libri di Pavese e il dialettico rapporto tra i due termini. (Milea)



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Edited by Milea - 15/7/2021, 10:29
 
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Alcuni testi esemplari





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Le due componenti schematicamente indicate, si intrecciano con un vario prevalere ora dell’una ora dell’altra, in tutta l’opera di Pavese. Particolarmente dominante la prima ne La casa in collina.

Nel romanzo - che descrive l’incapacità del protagonista, un inquieto intellettuale in perenne colloquio con se stesso, a partecipare alla vita degli altri che alla caduta del fascismo hanno scelto la lotta partigiana – coesistono la lucida diagnosi dei limiti della solitudine dell’intellettuale sentita come colpa e come vergogna e la ferma, dolorosa volontà di superarla.

Ma la volontà di superamento non è superamento: e il significato del libro è proprio in questo dilemma non risolto.

Ritorna, a pensarci bene, un tema che già Serra aveva affrontato nel suo Esame di coscienza: e le ultime pagine del romanzo sembrano indicare il prevalere del momento civile come unica strada che possa portare allo sbocco della dolorosa situazione.

Nei racconti cittadini compresi ne La bella estate (Il diavolo sulle colline, Tra donne sole, La bella estate) e ne La spiaggia, da un lato il mito del ritorno all’infanzia, al mare, alle colline come àncora di salvezza contro quella inesorabile caduta che è la città e dall’altro la descrizione dell’asfissiante vita cittadina priva di autenticità si intrecciano con risultati altamente suggestive.

Pavese si serve qui di un dialogato sapientissimo, divagante, ricco di accenni e di allusioni non per descrivere naturalisticamente dei caratteri ma per far sentire una condizione di intima solitudine pur in mezzo allo sfarfallante cicaleccio mondano, per illuminare ora un segreto rapporto con l’esterno, ora l’arcano fascino della collina piemontese avvolta nelle tenebre notturne. Ma è nell’ultimo romanzo -La luna e i falò- che il tema del ritorno (collegato, ovviamente, agli altri) dà i suoi esiti più alti.



Libri


La luna e i falò


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Il protagonista è un trovatello detto Anguilla, che è cresciuto sulle colline delle Langhe, allevato da una famiglia di contadini che lavorano le terre della Gaminella, podere vicino al Belbo. Ma, dopo aver imparato a sua volta a fare il contadino andando a lavorare alla Morra, altro podere della zona, Anguilla aspira a far fortuna e si imbarca per l’America. La fortuna la trova lavorando in modi diversi, ma la vita là non dev’ essere troppo bella e soprattutto la nostalgia del paese è troppo intense se Anguilla decide tornare. Torna infatti a rivedere le stesse contrade, incontra il vecchio amico Nuto col quale rievoca tutte le tappe e tutte le vicende della propria esistenza.

Ma tante cose e persone sono ormai cambiate a cominciare proprio da Nuto: non va più per i paesi a suonare nelle bande col suo clarino: ora è un uomo maturo che fa il falegname; ed anche le cose che racconta, spesso con ritrosia, hanno un sapore diverso da quello degli anni della gioventù. C’è stata la Guerra di mezzo, la resistenza, i morti. Ed ancora c’è la miseria: più nera, sembra ora ad Anguilla. Il mezzadro Valino che lavora adesso sulla Gaminella, per fatica e miseria diventa crudele coi suoi, folle per la disperazione uccide, incendia, si impicca. Da quel furore si salva solo il giovane sciancato, Cinto, il ragazzo che Anguilla ha preso a frequentare per la nostalgia della sua infanzia, per una sorta di identificazione con lui.

Ed altre esistenze ancora, legate al suo passato, si trascinano tristemente o si sono tragicamente concluse. Le tre ragazze della Mora, le padroncine di una volta tanto ammirate e vagheggiate, han fatto una triste fine: una mal maritata, un’altra morta per aborto e la più giovane - la bambina di allora-uccisa e poi bruciata dai partigiano come spia fascista.


Libri


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Anguilla è, come tutti i personaggi di Pavese, uno che ritorna; ma il pellegrinaggio ai luoghi mitici dell’infanzia - vagheggiati da Pavese come la strada per attingere la pienezza del vivere e la consapevolezza del proprio destino - si risolve nella constatazione di quanto ormai è perduto per sempre: di tutto quanto, della Morra, di quella vita di noialtri che cosa resta)… Scomparse le persone, mutati i luoghi, crudele la realtà presente: al ricordo dei falò che Anguilla si è portato nell’anima nella sua solitudine Americana - i falò rituali ai quali i contadini nelle Langhe ricorrono per “svegliare la terra” - ora si sovrappongono altri falò: quello con cui i partigiani bruciano una delle figlie del sor Matteo, quello del Valino.

Nemmeno la mitica infanzia nei suoi luoghi e nei suoi miti può offrire più l’àncora della salvezza. E qui allora il ricordo, come qualcuno ha notato, non è proustiano abbandono, vagheggiamento elegiaco, ma amarezza e sapore di cenere: Anguilla-Pavese. Oppresso dal passato e dal presente, deve constatare che crescere vuol dire andarsene, invecchiare, vedrà morire, ritrovare la Mora com’era adesso.
E’ la lucida e dolorosa constatazione della irrimediabile legge di morte che è connaturata alle cose dell’uomo: pochi mesi dopo Pavese suggellava col suo tragico gesto questa desolata conclusione.

Quel dissidio - testimoniato dalla sua vita e dalla sua produzione - che con disperato alternarsi di cadute e di riprese aveva cercato di risolvere in vari modi (con l’impegno artistico, col lavoro, con la militanza politica) si concludeva con una sconfitta che assume, vista ora in prospettiva, valore di testimonianza: “nessuno più di lui - ha scritto il Sapegno - nell’orizzonte della nostra cultura così chiusa e proclive alle soluzioni più facili e tranquillanti, ha espresso quella fondamentale riluttanza alla vita, quell’interna lacerazione e preventiva consumazione di tutti gli affetti e gli ideali che la compongono, quella primordiale vocazione di morte, che è alle radici di tanta della nostra civiltà. E il fatto di avere raccolto in sé e bruciato fino in fondo nella sua persona tutte le esperienze e il tormento di una condizione decadente, basta a conferire a quel destino d’uomo un rilievo, una funzione storica che non sappiamo chi altri da noi potrebbe più degnamente impersonare”. (Milea)


Libri





Edited by Milea - 15/7/2021, 10:32
 
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