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view post Posted: 31/3/2024, 20:58 by: Lottovolante     +1APRÈS LE BAIN - William-Adolphe Bouguereau - Bouguereau




William-Adolphe Bouguereau
Dopo il bagno
(Après le bain)
Firmato W-BOUGUEREAU- e datato 1875
Olio su tela
178 x 88.5 cm
Collezione privata


Non era insolito per William-Adolphe Bouguereau presentare una varietà di opere al Salon di Parigi, cogliendo l'opportunità di raggiungere e, si spera, di interessare il più ampio pubblico possibile. Nel 1875, Bouguereau presentò tre opere, tra cui il mitico Flore et Zéphyre, e l'opera attuale, "Après la Bain", allora intitolata "La Baigneuse". Ciascun dipinto rappresentava un punto di forza particolare nell'ambito dell'arte di Bouguereau e "Après le bain" è senza dubbio uno dei nudi più belli dell'artista.


Dopo essere stato venduto dal potente mercante di Bouguereau, Goupil, "Après le bain" entrò rapidamente nella collezione del re olandese Guglielmo III, che lo acquistò per il palazzo reale di Loo. L'anno successivo, nel maggio del 1876, il re invitò Bouguereau e altri grandi artisti come il compositore Franz Liszt e gli artisti Jean-Léon Gérôme e Alexandre Cabanel a raggiungerlo a palazzo e Bouguereau descrive l'esperienza in una lettera alla moglie Nelly:


"Gérôme e Cabanel stanno affrettando la nostra partenza e io intendo approfittarne, perché per quanto piacevole e grazioso sia stato il nostro soggiorno qui, ora che abbiamo reso i nostri omaggi e sono stati accettati, sono impaziente di tornare alla mia famiglia e al mio studio...Il Re è affascinante, gentile quanto basta, con un affetto speciale per i francesi e soprattutto per gli artisti. Siamo dodici ospiti qui...Il nostro tempo è particolarmente mal diviso. Fino a mezzogiorno siamo completamente liberi, poi ci sediamo a pranzo con il Re. Questo dura piuttosto a lungo, perché venerdì siamo stati lì fino alle tre. Passeggiata con il Re e conversazione fino alle diciassette. Abito da sera e cena dalle diciannove alle ventidue, con musica strumentale e vocale nel teatrino di Sua Maestà. Alle dieci si torna nei saloni e alle ventitre e trenta o a mezzanotte tutti sono a letto. Ieri il Re mi ha regalato una sua fotografia autografata. Credo che sia l'unico autografo che potrò portare alla mia cara Zézette, alla quale sono molto grato per avermi fatto da segretario generale. Cabanel è stato nominato Comandante. In seguito Bouguereau chiese al re il permesso di prendere in prestito 'Après le bain' e di inserirlo nell'esposizione dell'Exposition Universelle di Parigi del 1878. Con sua grande sorpresa, il re rifiutò la richiesta, affermando che si trattava del suo quadro preferito e che era scoraggiato dai rischi connessi al suo trasporto." (come citato in Bartoli e Ross, William Bouguereau: His Life and His Works, New York, 2014, p. 241)


Molti dei nudi di Bouguereau si rifanno spesso a motivi classici o a narrazioni mitologiche, mentre "Après Le Bain" si limita a presentare, seppur splendidamente, una figura che fa il bagno. Il soggetto permette all'artista di dimostrare la sua straordinaria abilità di disegnatore: l'arco e la pienezza delle sue forme sono chiaramente ispirati ai maestri rinascimentali che l'artista aveva ammirato durante il suo soggiorno in Italia. Il contrapposto sottilmente esagerato della modella crea un bellissimo contorno, come si vede nella linea sinuosa che parte dagli occhi e scende direttamente verso la punta del piede. In un paesaggio costiero, è chiaro che l'artista considerava questo quadro come un tour-de-force e probabilmente contribuì alla sua elezione all'Académie des Beaux Arts quell'anno, dopo dodici tentativi precedenti. uno degli Ordini di Sua Maestà; "per quanto mi riguarda, non è stato detto nulla, quindi potrei anche tornare a casa come Chevalier; ma capirete che non posso farci nulla".(Mar L8v)



view post Posted: 30/3/2024, 13:47 by: Milea     +1La recherche de l’absolu (La ricerca dell'assoluto) - Magritte

“Tutta la vita dell’anima umana è un movimento nella penombra.
Viviamo, nell’imbrunire della coscienza,
mai certi di cosa siamo o di cosa supponiamo di essere”.
(Fernando Pessoa)


magritte_la_recherche_de_labsolu_1960P

René Magritte (1898-1967)
La recherche de l’absolu
1960
Firmato 'Magritte' (in basso a sinistra)
gouache su carta - 23,9 x 29,2cm.
Collezione privata


“La recherche de l’absolu”, squisita gouache autunnale del 1960, mostra uno dei motivi preferiti e più iconici dell’artista belga: la fronda dell’albero. Ma mentre nelle sue precedenti esplorazioni di questo tema la foglia era verde e si ergeva imponente, assurda, magica e magnifica nel suo contesto paesaggistico, qui è privata del “fogliame”, i rami o le venature descrivono la forma di una foglia e sono l’unica traccia rimasta del suo precedente aspetto verdeggiante.
Tuttavia, l’enfatica piattezza della foglia è stata mantenuta in questa immagine, consentendo di mantenere il gioco concettuale di Magritte. Allo stesso tempo, apparendo spoglia e lasciando così filtrare il bagliore rosa del cielo attraverso la sua trama di rami, “La recherche de l’absolu” raggiunge un profondo senso di lirismo visivo che si aggiunge all’adeguatezza del suo titolo, a sua volta tratto da un celebre romanzo omonimo di Honoré de Balzac, pubblicato nel 1834, in cui la tesi di fondo è che dietro la quieta apparenza del vivere quotidiano si celano sentimenti, passioni e conflitti profondi. Secondo il maestro del surrealismo “tutto ciò che vediamo nasconde un’altra cosa; noi abbiamo sempre voglia di vedere ciò che è nascosto da ciò che vediamo”. In questo dipinto l’artista stimola l’osservatore a riflettere sulla realtà, ad andare al di là delle apparenze, per cercare questi significati nascosti. L’opera è stata presentata in diverse mostre, tra cui due rassegne internazionali dedicate all’arte di Magritte.


“La recherche de l’absolu” è una rivisitazione a guazzo di un tema che Magritte aveva esplorato per la prima volta nel 1940 in tre dipinti (uno dei quali è oggi di proprietà del Ministère de la Communauté Française de Belgique, a Bruxelles); i tre oli, di cui rimase particolarmente soddisfatto, raffigurano un grande albero nudo contro un paesaggio generico dominato da un vasto cielo.



René Magritte (1898-1967)
La recherche de l’absolu
1940




Scrisse di questo gruppo di opere, due orizzontali e una verticale, a Claude Spaak il 5 gennaio 1941: “Tra le tele recenti, ci sono tre versioni di ’La recherche de l’absolu’, che è un albero senza foglie, ma con rami che forniscono la forma di una foglia. Una versione si svolge la sera con il sole al tramonto, un’altra al mattino con una sfera bianca all’orizzonte e la terza mostra questa grande foglia che si erge contro un cielo stellato. Queste ricerche mi hanno permesso di produrre tre immagini molto pure, di cui sareste molto contento, credo”. Due versioni del dipinto vennero subito vendute e la terza, quella in notturno, rimase nelle mani di Magritte che oltre una decina di anni più tardi la ritoccò in alcuni punti.



René Magritte
La recherche de l’absolu
1940
olio su tela - 50 x 65,5 cm.
Collezione privata


Nel quadro ambientato in una serena notte stellata domina un albero foglia, un grande albero spoglio che assume la forma di una foglia ed i cui rami sembrano le nervature della stessa foglia. Magritte arriva pertanto a racchiudere in un’unica forma, sia un albero che una foglia giungendo così ad una sintesi sorprendente che li pone in una inestricabile relazione percettiva. La suggestione del dipinto si completa con il realistico profilo di alcune montagne e, appunto, con un cielo stellato. È tipico del Magritte maturo, ormai consapevole e padrone dei propri mezzi, confonderci e sorprenderci inserendo in un contesto estremamente realistico e verosimile ai nostri occhi, un elemento spiazzante e paradossale quale l’albero foglia.


In quell’opera, il caldo rosa crepuscolare della gouache del 1960 è assente, sostituito da un cielo blu fresco e nitido; delle altre due versioni del 1940, una mostra la foglia dell’albero protesa verso un cielo stellato e un’altra sostituisce il sole con una sfera appoggiata all’orizzonte, accentuando il contrasto con la piattezza introdotta dalla superficie piana della foglia. Osservando la veduta serale del 1940, la composizione è chiaramente simile: in entrambe le immagini, c’è una fascia di montagne lontane sovrastate da un sole rossastro. La scarnificazione della versione del 1940 può riflettere l’atmosfera dell’epoca, dipinta quindi dopo l'invasione e l’occupazione nazista del Belgio, paese natale di Magritte, avvenuta nel maggio dello stesso anno.



René Magritte
La géante
1935
firmato 'magritte' (in alto a destra); firmato, intitolato e datato ‘LA GEANTE MAGRITTE 1935’ (sul retro)
olio su tela - 73 x 60cm.
Collezione privata


Guardando “La recherche de l’absolu”, Magritte sembra essere stato ancora influenzato dal tono o dalle ansie dell’epoca, come si evince dall’immagine cruda e fredda della foglia d’albero spoglia. È un netto contrasto con la lussureggiante opulenza del primo albero-foglia, “La géante”, dipinto solo cinque anni prima.

All’inizio della Seconda guerra mondiale, Magritte si era preoccupato di come dipingere e di cosa dipingere; in seguito avrebbe iniziato a creare una serie di opere spesso piene di luce e di gioia, fino ad arrivare ai suoi quadri pseudo-impressionisti; questa risposta al conflitto fu considerata inappropriata da alcuni, che ritenevano che i tempi bui richiedessero un’espressione artistica cupa, eppure dimostrò un’incredibile forza di volontà, poiché Magritte usò i suoi quadri per invocare la pace e la pace.

Quando nel 1960 riprese il tema de “La recherche de l’absolu” nella gouache in esame, la tensione della Seconda guerra mondiale è ormai lontana; di conseguenza, la rivisitazione del tema ha un calore romantico che mancava nella sua più fredda incarnazione precedente. In effetti, la sensazione di romanticismo è alla base di questo quadro: ricorda alcuni dei tramonti e delle albe contemplative catturate con tanta poesia dal pittore tedesco Caspar David Friedrich. In effetti, il contrasto tra i rami, o le venature, di questa foglia d’albero contro il cielo rosa ricorda la sua opera del 1833 “Mattino di Pasqua” (Ostermorgen), oggi conservata al Musée Thyssen-Bornemisza di Madrid. Richiamando deliberatamente il linguaggio visivo di Friedrich, Magritte ha raffigurato il suo ampio paesaggio con un orizzonte basso, che conduce a una distanza meditativa, con la singola foglia d’albero in primo piano che funge da ancoraggio alla composizione, in analogia non per gli alberi del Mattino di Pasqua, ma piuttosto per le figure, spesso solitarie, che il maestro tedesco utilizzava nei primi piani dei suoi quadri. (M.@rt)




view post Posted: 15/2/2024, 20:56 by: Lottovolante     +1SOUVENIR - William-Adolphe Bouguereau - Bouguereau




William-Adolphe Bouguereau
Souvenir
Firmato W-BOUGUEREAU- e datato 1894
Olio su tela
71.1 x 50.8 cm
Collezione privata


Dato il vasto paesaggio sullo sfondo e il mare al di là, "Souvenir" fu probabilmente dipinto a La Rochelle, dove William-Adolphe Bouguereau trascorse l'estate del 1894. Il modello compare in diverse tele del periodo, tra cui Baccante, un dipinto "fantastico" in cui Bouguereau amplifica il senso di antichità attraverso l'inserimento di oggetti di scena e la scelta dell'ambientazione, e in Le Secret (1894, Collezione privata). Bouguereau invita a una correlazione tra una visione idealizzata dell'antichità e il contadino italiano contemporaneo - un motivo popolare in un mondo sempre più urbanizzato che romanticizzava l'implicita semplicità e onestà della vita rurale.


I contadini di Bouguereau indossavano spesso sciarpe colorate o altri copricapi; si vedano "Moissonneuse", (1868, Collezione privata) o "Glaneuse", (1894, Collezione privata) e l'artista copriva anche le teste delle donne nelle sue composizioni religiose con un umile panno bianco o grigio. Sia "Souvenir" che "Le Secret", con la testa della modella serenamente drappeggiata in un panno bianco, potrebbero essere in relazione con la presentazione al Salon di Bouguereau del 1894, "L'innocence" (1894, Collezione privata), sebbene non condividano le evidenti sfumature religiose o la narrazione materna.



William-Adolphe Bouguereau
Mietitrice
(Moissonneuse)
Firmato W-BOUGUEREAU- e datato 1868
Olio su tela
106.5 x 85 cm
Collezione privata




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William-Adolphe Bouguereau
Spigolatrice
(Glaneuse)
Firmato W-BOUGUEREAU- e datato 1894
Olio su tela
108 x 50 cm
Collezione privata




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William-Adolphe Bouguereau
L'innocenza
(L'innocence)
1894, Firmato W- BOUGUEREAU
Olio su tela
100 x 52.5 cm
Collezione privata




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William-Adolphe Bouguereau
La perla
(Le perle)
Firmato W-BOUGUEREAU- e datato 1894
Olio su tela
141 x 75.6 cm
Collezione privata


Un periodico inglese contemporaneo ha osservato che: "Nel 1894 i contributi di [Bouguereau] al Salon furono due: 'L'innocence' e 'La perle'. I suoi temi, come si vedrà, spaziano in un ampio campo; e non è eccessivo dire che sia che li tragga dalle Scritture, dalla mitologia classica o dalla vita moderna, il suo trattamento è ugualmente felice. In tutti i casi il suo cromatismo è armonioso, il suo modellato delicato e altamente rifinito, e la sua abilità nel disegno è al di sopra di ogni critica". Certamente, l'impareggiabile forza tecnica di Bouguereau è visibile nell'espressione delicata dell'attuale modella, nel suo braccio e nelle sue mani scorciate e nei dettagli del paesaggio che la circonda. (Mar L8v)





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view post Posted: 31/12/2023, 16:02 by: Milea     +1LIBRERIA - Giuseppe Maria Crespi - ARTISTICA



Giuseppe Maria Crespi, detto Spagnolo
(Bologna, 1665 - 1747)
Libreria (Sportelli di libreria con testi musicali)
1720 - 1725 circa
olio su legno - 165 x 153 (senza mobile)
(sportello sinistro 165,5 x 78 cm; sportello destro 165,5 x 75,5 cm.)
Museo Internazionale e Biblioteca della Musica, Bologna


Dipingere immagini impossibili da distinguere dalla realtà è stata una sfida per artisti di tutte le epoche. La capacità di ingannare lo spettatore facendo sembrare reale il dipinto attraverso le leggi dell’ottica e della prospettiva è un gioco visivo di cui si conoscono i primi esempi dalle descrizioni nei testi letterari greci. Da allora, il trompe-l'œil è stato ampiamente presente nelle arti, particolarmente fiorente in periodi come il Rinascimento e il Barocco, dopodiché declinò seguendo il Romanticismo, ma non scomparve mai del tutto dal repertorio artistico.


Il trompe-l'œil di Giuseppe Maria Crespi non è un quadro, ma il pittore bolognese ha realizzato il dipinto sulle ante di una libreria appartenuta a Padre Giambattista Martini (1706-1784), rispettato e temuto critico di rilevanza europea, grande compositore e insegnante di musica, ma anche erudito enciclopedico e appassionato collezionista, che fu in contatto con i grandi musicisti e studiosi europei, e che ha lasciato un copioso epistolario e una “immensa collezione di libri stampati che gli costò oltre mille zecchini”.


Il tema della scansia aperta con oggetti è un classico della natura morta e risale alle tarsie lignee della seconda età del Quattrocento. Superbo capolavoro della natura morta italiana del Settecento, le finte librerie, piene di polverosi libri musicali e spartiti, velocemente consultati e riposti senza troppa cura, si inseriscono in modo illusionistico fra veri scaffali di biblioteca. Come sempre nella natura morta realistica si avverte un senso di malinconia, legato al tempo che trascorre inesorabilmente: i libri e gli spartiti di Giuseppe Maria Crespi si avvicinano “spiritualmente” agli strumenti musicali di Baschenis o, più indirettamente ai frutti caravaggeschi.



Evaristo Baschenis (1617/ 1677)
Natura morta con strumenti musicali
1660 - 1670
olio su tela - 75 x 108 cm.
Accademia Carrara, Bergamo




Giuseppe Maria Crespi dipinge i tomi con grande accuratezza e interpreta con straordinaria sensibilità un sostanziale monocromo, giocato sui toni bruni delle rilegature, delle vecchie pergamene e delle assi di legno anticipando, in un certo senso, le nature morte novecentesche di un altro grande pittore bolognese, Giorgio Morandi. Collocata inizialmente nel convento di San Francesco, la libreria nel 1801 fu trasferita nell’ex convento di San Giacomo, oggi Conservatorio di musica (Conservatorio Martini). (M.@rt)




view post Posted: 30/12/2023, 19:42 by: Milea     +1LA STORIA DELLA PARRUCCA - CAFFE' LETTERARIO

La storia della parrucca




Nicolas de Largillière (Parigi, 1656 - 1746)
Ritratto di un uomo in abito viola (Portrait of a Man in a Purple Robe)
1700 circa
olio su tela - 79,5 x 62,5 cm.
Museumslandschaft Hessen , Kassel (Germania)


Anticamente la parrucca era un accessorio indossato fin dall’antico Egitto da uomini e donne, non necessariamente per compensare la perdita dei capelli, ma principalmente come segno di status. In Europa, l’origine di questa usanza, intorno a fine Seicento, fu dovuta alla sifilide: William Clowes, medico del XVII° secolo, scriveva di una “moltitudine infinita” di pazienti sifilitici che a quel tempo intasavano gli ospedali di Londra. I segni della malattia includevano, oltre a ferite aperte, eruzioni cutanee, cecità e demenza, anche la perdita di capelli a chiazze, problema piuttosto imbarazzante, poiché una testa calva danneggiava la reputazione di una persona.


Ma oltre alla moda e all’eccezione dei malati di sifilide, la più importante ragione era legata ai pidocchi. Nel Seicento e nel Settecento, soprattutto in Francia, i capelli veri erano generalmente molto sporchi e pieni di questi insettini, poiché si credeva che lavarsi il corpo e i capelli favorisse il passaggio delle numerose malattie attraverso la dilatazione dei pori della pelle e del cuoio capelluto causata dall’acqua calda. Per questo, i bagni erano rarissimi anche presso la nobiltà, e dunque la parrucca aveva lo scopo di nascondere i vari problemi che i capelli presentavano, assieme alla loro tintura con pomate che ne coprissero il vero colore e l’untuosità.



Hyacinthe Rigaud
Ritratto di Luigi XIV con gli abiti dell’Incoronazione
1701
olio su tela - 277 × 194 cm.
Museo del Louvre, Parigi


La moda iniziò durante la Guerra dei Trent’anni (1618 - 1648) che determinò un netto cambiamento del vestire maschile. A partire dagli anni Trenta del Seicento infatti, tutti gli uomini predilessero abiti in stile militaresco, portando con pose spavalde cinturoni, lunghe spade e pesanti stivali in cuoio. Trionfò la mascolinità bellicosa, e si voleva a tutti i costi esibire un rude aspetto guerresco, oltre che nel vestito, anche nell’abbondante peluria, emblema evidente di virilità.


Oggetto di leggi, divieti, pene, ma anche di uno sconfinato interesse, nel Settecento si diffuse ampiamente l’uso della parrucca maschile. Fu infatti in questo periodo che questa moda ebbe la sua massima espressione, nata in Francia nella seconda metà del Seicento, sotto il Re Sole, Luigi XIV (1638 - 1715), che avendo perduto tutti i capelli a causa di una febbre violentissima, che lo colpì in giovane età, iniziò in età adulta a portare una parrucca del colore dei suoi veri capelli (nero corvino) e a imporre tale usanza presso tutti i suoi cortigiani, sia uomini che donne. La consuetudine di portare la parrucca non era una novità tra i reali; infatti già suo padre, Luigi XIII (1601-1643), aveva iniziato a indossarla per nascondere la calvizie che lo aveva colpito intorno ai trentacinque anni.



Philippe de Champaigne
Luigi XIII
1635
olio su tela - 108 x 86 cm.
Museo del Prado, Madrid




Anche la regina Elisabetta I d’Inghilterra (1533-1603), avendo perso la sua capigliatura fulva a causa di una misteriosa febbre, usava portarne una rossa e ricciuta, che aveva però un aspetto innaturale, poiché la fronte appariva quanto mai ampia, come rasata, essendo l’attaccatura dei capelli molto alta.



Johannes Corvus
Queen Elizabeth I (Ritratto di Darnley)
1575 circa
olio su tavola - 113 x 78,7 cm.
National Portrait Gallery, Londra




Nel Seicento la Francia, grazie alla stabilità politica e alle sue numerose colonie apportatrici di ricchezze dal Nuovo Mondo, era vista come il Paese più fiorente di tutta l’Europa, oggetto di ammirazione da parte di tutte le altre nazioni, centro del buon gusto europeo. Fu così che, per emulare la moda francese, l’utilizzo della parrucca si propagò presto in tutto il continente europeo e progressivamente nel resto dell’Occidente, soprattutto nel XVIII° secolo. Inizialmente, la parrucca aveva semplicemente il compito di sostituire la “capigliatura” andata perduta, ma nel Settecento iniziò ad essere considerata dai sovrani qualcosa di più: un “accessorio” raffinato, un completamento dell’abbigliamento con cui manifestare tutto lo sfarzo e la propria vanità, anche se si avevano ancora i capelli.



Nicolas_de_Largillierre (1656–1746)
Ritratto di due consiglieri di Parigi in carica nel 1702
Hugues Desnotz, a destra, e uno sconosciuto, presumibilmente Boutet, a sinistra
(frammento del ritratto collettivo del Bureau de la Ville)
(Portrait de deux échevins de Paris)
1704
olio su tela - 119,5 x 152 cm.
Musée Carnavalet, Histoire de Paris, Parigi




Le parrucche più utilizzate erano inizialmente coperte di cipria bianca, capace di conferire un aspetto luminoso ed angelico, ma nel Settecento iniziarono ad apparire anche parrucche colorate di rosa, di viola, di grigio e di marrone.



Pier Leone Ghezzi (1674 -1755)
Autoritratto con parrucca
1747
olio su tela - 67 × 49 cm.
Accademia Nazionale di San Luca


L’uso della parrucca appare a Venezia per la prima volta nel 1688, portata dal conte Scipione Vinciguerra da Collalto e fu subito polemica. Nello stesso anno, il Consiglio dei Dieci emanò un decreto con cui se ne proibiva l’uso a qualsiasi magistrato nell’esercizio delle sue funzioni e con la toga. Ma i dipinti dei pittori veneziani documentano quanto in realtà il decreto fu disatteso e persino nello stesso Consiglio dei Dieci sono ritratti da Gabriel Bella dei magistrati in parrucca.



Gabriel Bella (Venezia, 1720 - 1799)
La Sala del Consiglio dei Dieci
Palazzo Ducale, Venezia


Non tutti adottarono questa acconciatura, ma anzi si registrarono atteggiamenti di forte dissenso, come quello del nobiluomo Erizzo che diseredò per questo motivo il figlio, o quello del nobiluomo Correr che fondò un’associazione contro l’uso della parrucca, di duecentocinquanta membri, che poco alla volta si assottigliò fino a che rimase lui solo. Le parrucche, oggetto molto comodo perché evitavano lunghe sedute dal parrucchiere, erano composte di capelli veri (meglio se biondi) di contadini toscani o parmensi, perché ritenuti più robusti, cuciti su una sottile tela sorretta da leggeri fili di ferro. Entrata nelle case reali fu da qui abbracciata da quasi tutta la popolazione che, dati i costi, se la poteva permettere; la gente più modesta doveva accontentarsi di peli di pecora e capra, crine di cavallo o coda di bue. La Repubblica di Venezia emise un forte dazio sull’importazione dei capelli, lucrando su una usanza che si stava diffondendo nonostante i divieti: non riuscendo a proibirla si pensò di tassarla.



Pier Leone Ghezzi
Autoritratto con parrucca (dettaglio)


Mentre in Francia i capelli veri sotto la parrucca venivano completamente rasati, a Venezia si rasava solamente metà testa, appiattendo i restanti capelli “con pastrocci (pasticci) vari, ma di così perfetta invenzione di speziale (il farmacista dell’epoca), che basta lavarseli con acqua bollente e sapone o liscia (lisciva) e tornano come prima”, secondo quanto si legge su un documento settecentesco.

Le parrucche erano di diversa lunghezza e inizialmente anche di diverso colore, tra i quali prevaleva il bianco ottenuto cospargendola di cipria, che veniva soffiata da un servitore in un apposito stanzino e polverizzata con un piccolo mantice, mentre il volto e il corpo erano protetti con un accappatoio e un cono copriva la faccia.



Philibert Louis Debucourt (1755-1832)
La toilette del Procuratore
(La Toilette d’un Clerc Procureur)
incisione su carta
Trinity College Library, Dublino



Anche le acconciature erano molte e, nel 1769, il parrucchiere Bartelemi, autore di una specie di prontuario dell’acconciatura, ne elencava ben quarantacinque tipi diversi. Nella seconda metà del secolo alla parrucca più lunga si affiancò, per poi prevalere, quella corta, aderente alla testa con due o quattro boccoli piatti ai lati e una coda raccolta da un nastro.



Maurice-Quentin de La Tour (1704 - 1788)
Autoritratto con volant in pizzo
1750 circa
pastello su carta - 64,5 x 53,5 cm.
Musée de Picardie, Amiens


La conseguenza dell’uso di un tale oggetto influenzò la produzione della cipria, le cui manifatture vennero allontanate dal centro storico di Venezia dal Magistrato alla Sanità perché troppo inquinanti, ma anche sulle infinite truffe con le quali individui di pochi scrupoli sostituirono la cipria fatta di farina di riso, utilizzata anche per scopi sanitari, con polvere di gesso, amido mescolato con polvere profumata, farina di grano, legno tarlato, osso bruciato o addirittura calcina. Il principe Francesco I di Modena, invece, si faceva spruzzare polvere d’oro in testa.



Nicolas de Largillière (1656-1746)
Autoritratto
1711
olio su tela - 65 x 81 cm.
Reggia di Versailles (Musée National du Château)


Durante tutto il Settecento fino alla Rivoluzione francese, la moda della parrucca continuò a contagiare gli uomini e successivamente le donne e i bambini. Chi poteva permettersi il parrucchiere personale era esigentissimo: Vittorio Alfieri stesso raccontava di aver lanciato un candeliere contro il domestico che gli aveva inavvertitamente tirato una ciocca di capelli. Meno problematiche le parrucche femminili, che si accostarono a questo accessorio con un certo ritardo: fino alla fine del secolo, furono corte, piatte sulla testa e assolutamente bianche, come testimoniano i numerosi dipinti.



Élisabeth Vigée Le Brun
Marie Antoinette in Court Dress
1778
olio su tela - 273 x 193,5 cm.
Kunsthistorisches Museum, Vienna




La moda cambiò drasticamente quando Leonard, il parrucchiere personale di Maria Antonietta d’Austria, moglie di Luigi XVI di Borbone e re di Francia, acconciò la regina con capelli rialzati artificiosamente più di mezzo metro sul capo, frammischiandoli con nastri di velo. Questa acconciatura, detta pouf o tuppè, fu di moda dal 1770 per circa dieci anni. Le donne europee impazzirono per la nuova foggia: Carolina Maria d’Austria, regina di Napoli, chiese ed ottenne che Leonard venisse di persona, nella convinzione che i parrucchieri della città non possedessero la sua abilità.

Il tuppè era una vera e propria parrucca, fatta solo in parte coi propri capelli; aveva un’armatura ondeggiante, nascosta dai capelli, di filo metallico ed era imbottito da un cuscinetto di crine di cavallo coperto con capelli veri e finti, pettinati in modo da formare una sorta di piramide. L’acconciatura, su cui venivano inseriti numerosi oggetti, era poi fissata con lunghi spilloni.



Joseph Boze (1745 - 1826)
Maria Giuseppina Luisa di Savoia (1753–1810) contessa di Provenza in abito bianco
1786
olio su tela - 191,5 x 134 cm.
Hartwell House, Buckinghamshire



Tutto ciò era scomodo e malsano, sia perché portato su capelli non lavati, ma tenuti in piega da oli e pomate profumati, sia perché attirava inevitabilmente ogni tipo di parassita. Tuttavia l’aspetto più sconcertante erano le incredibili decorazioni che vi venivano appoggiate sopra. La fantasia non aveva limiti: palme, pappagalli, ghirlande d’amore, scale a chiocciola di pietre preziose, navi con le vele al vento spiegate (à la belle poule). Nomi e nomignoli francesi distinguevano i diversi modelli: à la monte du ciel, di altezza vertiginosa, alla cancelliera, alla flora, piena di fiori, al vezzo di perle (ovviamente circondata da giri di perle) à la Turque, à le Figaro, à piramide. Famosi erano i "pouf au sentiment", letteralmente “sgabello dei sentimenti” in cui nella parrucca, considerata come una sorta di altarino, si metteva in mostra ciò che si amava: così chi si sentiva vicino alla natura poneva sulla testa fiori, piante frutta e animaletti imbalsamati, chi pensava alla famiglia sfoggiava i ritratti del marito e dei figli, chi era legato alla patria esponeva orgogliosamente coccarde tricolori.



Coiffure à la Belle-Poule


L’acconciatura era studiata per stupire, sfruttando persino la cronaca del giorno e la manifestazione dei propri sentimenti pur di attrarre teatralmente l’attenzione. Per fare un esempio, quando i fratelli Montgolfier nel 1783 alzarono per la prima volta su Parigi il primo pallone aerostatico, si inventò la “parrucca alla mongolfiera”. Nel frattempo l’altezza di queste strabilianti acconciature aumentò sempre di più, fino a raggiungere il metro, al punto che si diceva che una signora alla moda non riuscisse ad entrare in carrozza se non in ginocchio.



Antoine-François Callet (1741 - 1823)
Maria Teresa Luisa di Savoia (Torino, 1749 - Parigi, 1792), principessa di Lamballe
1776 circa
olio su tela - 214 x 158 cm.
Reggia di Versailles (Musée National du Château)




I parrucchieri ovviamente beneficiarono della moda del tuppè; solitamente uomini, frequentavano anche le abitazioni ed erano ammessi nella stanza più intima della signora, il boudoir. Venivano quindi a conoscenza di tutti i segreti e i pettegolezzi, e non di rado facevano da tramite a tresche amorose. Oltre ai parrucchieri c’erano anche le pettinatrici, dette a Venezia “conzateste”, seppur di minore importanza dei loro colleghi maschi.



Maria Giovanna Battista Clementi (Clementina)
Ritratto di Michele Antonio Saluzzo
(a quattro anni a figura intera con il suo cane)
1734
olio su tela - 86,5 x 51 cm.
Collezione privata


Con la Rivoluzione francese, la parrucca scomparve, almeno in Francia: era uno dei simboli dell’odiata aristocrazia, e uscire coi capelli incipriati era decisamente rischioso, poiché si poteva finire sulla ghigliottina. Nel resto d’Europa rimase ancora per qualche tempo, per trasferirsi poi sulla testa dei valletti. Solo i reazionari più accaniti continuarono a portarla, guadagnandosi il soprannome di “codino”. (M.@rt)


view post Posted: 28/12/2023, 14:31 by: Milea     +1MADONNA DEL CARDELLINO - Giambattista Tiepolo - Tiepolo


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Giambattista Tiepolo (1696 - 1770)
Madonna del Cardellino (Madonna of the Goldfinch)
1767-1770
olio su tela - 62 x 49,5 cm.
National Gallery of Art, Washington DC (non in vista)



La tela del Tiepolo, che ha ispirato anche il disegno del francobollo natalizio tradizionale di Bradbury Thompson del 1982, è stato un intrigante rompicapo per gli storici dell’arte, poiché nella collezione della National Gallery ne esistono due versioni.

Le differenze tra i due quadri, che a prima vista sembrano minime, sono in realtà piuttosto significative. Il dipinto utilizzato per il francobollo è stato donato alla collezione della National Gallery nel 1943 da Samuel H. Kress: nell’immagine Maria culla Gesù con entrambe le mani, mentre lui tiene il suo mantello in una mano e un cardellino, che simboleggia il suo mortale destino, nell’altra.

Sebbene il dipinto sia raffigurato sul francobollo con la scritta “Tiepolo: National Gallery of Art”, la sua attribuzione al maestro veneziano è stata messa in dubbio da alcuni, che lo ritengono realizzato da un assistente o da figlio del pittore.

L’altra versione del dipinto, entrata a far parte della collezione della National Gallery nel 1997, è sempre stata accettata come opera dello stesso Tiepolo. In questa raffigurazione Maria sembra inclinare un po’ di più la testa verso il basso e il suo mantello è chiuso da una striscia di tessuto sul petto.

In quella che è considerata la versione “primaria” dell’opera, Maria, la cui espressione è del tutto simile in entrambe le versioni, sostiene il Figlio con il solo braccio sinistro.


Differente è invece la rappresentazione di Gesù: una delicata catena avvolge la zampa dell’uccellino e Gesù ne tiene l’estremità nell’altra mano, vicino al petto, anziché aggrapparsi al manto della madre. Sullo sfondo una tenda marrone dorata copre la maggior parte dello spazio dietro la coppia, tranne una striscia di muro grigio pietra alla sinistra dell’osservatore.

Scrivendo per la National Gallery, Diane De Grazia, scrittrice e storica dell’arte, sostiene che la versione del dipinto originariamente presente nel Museo (quella raffigurata sul francobollo) è forse una realizzazione posteriore, dipinta da Tiepolo per un cliente che voleva una composizione simile alla versione primaria.









Edited by Milea - 28/12/2023, 15:30
view post Posted: 27/12/2023, 22:20 by: Milea     +1MADONNA DEL CARDELLINO - Giambattista Tiepolo - Tiepolo


Tiepolo-madonna_of_the_goldfinchP

Giambattista Tiepolo (1696 - 1770)
Madonna del Cardellino (Madonna of the Goldfinch)
1767-1770
olio su tela - 63,1 x 50,3 cm.
National Gallery of Art, Washington DC (non in vista)


In questo dipinto, di formato verticale, Tiepolo raffigura frontalmente la Madonna con in braccio il piccolo Gesù nudo; un velo bianco le nasconde i capelli e mette in ombra la parte destra del viso, mentre un manto azzurro è drappeggiato sulla sua veste di un colore rosa tenue, che diventa più scuro sulle spalle.


Maria appare triste e assorta tanto da chinare il capo, lo sguardo perso nel vuoto; gli occhi scuri si intravedono sotto le sopracciglia arcuate. Conosce il destino che attende il figlio, memore delle parole profetiche pronunciate da Simeone, uomo giusto e timorato di Dio, durante la presentazione al tempio del piccolo Gesù: “Una spada ti trafiggerà l’anima (Lc 2.35)”.


Tra le braccia incrociate, La Vergine sostiene un paffuto Gesù, con i capelli rosso rame, corti e ondulati, che incorniciano un viso rotondo dalle guance rosee; gli occhi color nocciola fissano seri l’osservatore. Nella mano sinistra tiene un uccello, legato ad un sottilissimo filo, quasi invisibile, mentre con la mano destra afferra l’estremità del velo della Madre.


In epoca medievale, giocare con un uccellino legato alla zampa era un passatempo diffuso tra i bambini, ma assume un significato particolare quando si tratta di un cardellino o di un pettirosso. Nell’arte, il cardellino, per il piumaggio rosso sulla testa, divenne metafora della Passione: si riteneva infatti che vivesse tra le piante di cardo (allusione alla corona di spine), e che la macchia rossa sul suo capino fosse il segno lasciato dal sangue versato da Gesù sulla Croce, quando secondo la leggenda, l’uccellino impietosito cercò di togliere una spina dalla fronte di Cristo.


La presenza del cardellino rappresenta dunque un richiamo diretto alla Passione di Cristo e giustifica l’atteggiamento pensieroso della Madonna. Lo sfondo grigio cemento è arricchito solamente dalla presenza di un morbido drappeggio sulla destra, che tuttavia nulla toglie all’intimità della scena. (M.@rt)






Edited by Milea - 28/12/2023, 13:07
view post Posted: 30/11/2023, 17:12 by: Milea     +1La leggenda di Colapesce - Favole, miti e leggende

La leggenda di Colapesce

(leggenda siciliana)




Renato Guttuso
Mito di Colapesce
1985
quarantatrè pannelli a olio
Teatro Vittorio Emanuele, Messina


C’era una volta, tanto tempo fa, un ragazzo di nome Nicola, detto Cola, figlio più piccolo di una numerosa famiglia di pescatori, che viveva a Messina, in una capanna vicino alla spiaggia. Sveglio, agile e vigoroso, sin dalla prima infanzia aveva dimostrato di essere molto legato al mare. La sua gioia più grande era quella di tuffarsi tra le onde, e nuotare per ore e ore sott’acqua. Non si sa come egli potesse rimanere tutto quel tempo immerso senza sentire il bisogno di venire a galla e respirare e, quando finalmente risaliva alla superficie e tornava a casa, raccontava ai genitori e ai fratelli tutte le meraviglie che aveva visto negli abissi marini. Laggiù in mezzo a rovine di antichissime città inghiottite dai flutti, egli diceva di aver visto fantastiche foreste di corallo rosso, rosa e bianco, fiori di magnifici colori, grotte schiarite da bagliori fosforescenti, pesci di ogni sorta, forma e dimensione, e giganteschi mostri marini che lottavano fra loro in modo terribile.

Tutti lo credevano matto, a cominciare dalla sua stessa famiglia, per queste storie incredibili; la madre era disperata, non sapeva più che fare con questo figlio scansafatiche, che non solo non provvedeva a lavorare, ma si permetteva di ributtare in mare i pesci che il padre ed i fratelli avevano appena pescato... e tutto questo perché lui amava le creature del mare e non sopportava che qualcuno le uccidesse. Disperando di ridurlo al dovere, lo maledisse, dicendogli: “Possa tu diventar pesce!”. La maledizione ebbe effetto: subito le sue carni si coprirono di squame e le mani e i piedi divennero simili a zampe d’anatra. Gli abitanti del paese, che seguivano con curiosità le imprese del giovane, lo soprannominarono Colapesce, perché per loro era mezzo uomo e mezzo pesce; alcuni marinai giuravano di aver visto le branchie sotto le sue orecchie.

La genti lu chiamava Colapisci
pirchì stava ‘nto mari comu ‘npisci
dunni vinìa non lu sapìa nissunu
fors’ era figghiu di lu Diu Nittunu


Un giorno il ragazzo raccontò di aver trovato una nave naufragata che conteneva un immenso tesoro; in breve tempo Cola riuscì a recuperare tutto l’oro, l’argento, le gemme e gli oggetti preziosi che erano sulla nave, permettendo così ai suoi cari di vivere agiatamente. Le storie meravigliose da lui raccontate fecero in breve tempo il giro dell’isola: la sua fama di ottimo nuotatore e audace esploratore degli abissi marini, si diffuse in tutta la Sicilia. Di lui si raccontavano imprese mirabolanti su come avesse salvato intere navi ed equipaggi dalle tempeste e di come sapesse giungere a nuoto sino alla Campania e alla Puglia.


La fama di Nicola arrivò alle orecchie di Ruggero d’Altavilla, duca di Puglia e Calabria e primo sovrano del neonato Regno di Sicilia, che incuriosito da questo strano personaggio, volle conoscerlo per constatarne le capacità strabilianti, che fino ad allora sembravano frutto dell’immaginazione dei marinai dello Stretto di Messina. Così il re, circondato dalla sua corte di cavalieri e principesse decise di recarsi in Sicilia per interrogarlo sulle sue esperienze e sulle creature degli abissi. Salito su una barca, si fece trasportare nel mezzo dello stretto, dove sostava la nave ammiraglia presso la quale i due si incontrarono.

Dalla sua galea, Ruggero e sua sorella Boemonda, videro un uomo aggrappato al fianco di un giocoso delfino; fu fatto salire a bordo per scrutarne lo strano aspetto. Pelle scura, con a tratti riflessi iridati tipici delle squame, occhi sporgenti, guance cascanti, labbra enormi e testa che ricordava vagamente una triglia; i capelli lunghi e ingarbugliati sembravano una matassa di alghe.



Il fisico era asciutto e ben proporzionato e appena iniziò a parlare con voce melodiosa, come modulata dai flutti dell’acqua, raccontò di come sapesse nuotare a grandi profondità, giocando con le murene tra le formazioni di spugne e coralli e cavalcando i delfini; descrisse le strane creature che aveva visto negli abissi: tonni, pesci spada, balene, e il temibile calamaro gigante che giaceva nei fondali dello Stretto e i cui tentacoli, quando la sua testa toccava Messina, arrivano fino in Calabria.

Raccontò anche di aver intravisto le sirene una volta, udendo i loro soavi canti e di quella volta che, spingendosi più sul fondo marino, aveva scoperto navi sommerse e grandi praterie di alghe, che si muovevano come i prati della Sicilia agitati dal vento e di quando era sopravvissuto per miracolo all’attacco di una grossa piovra. I pescatori, giunti tutti intorno con le loro barche per ascoltarlo, narrarono di quella volta in cui Cola aveva affrontato Scilla, uno dei due mostri di mare che vivevano nello stretto, e di come lo avesse costretto a fuggire in una grotta marina.

Il re volle mettere alla prova le capacità di Colapesce: prese la coppa da cui aveva finito di bere e la scagliò al di là del parapetto dell’imbarcazione, chiedendo a Cola di riportargliela. Il giovane baldanzoso si immerse e non riemerse per molte ore, tanto che si temette per la sua vita, fino a quando, mentre il sole era al suo culmine, si vide la coppa brillare in superficie, sorretta dalla mano di Cola che riemergeva trionfante.

Interrogato dal re egli raccontò di aver visto moltissime specie di pesci, cetacei e ricci giganti, nuotando dove l’acqua era diventata molto scura e di essere riuscito a scorgere la coppa grazie alla luce intensa di un grande fuoco che ardeva in una caverna sottomarina, illuminando il fondale. Dubitando che un fuoco potesse ardere dentro l’acqua, il re chiese maggiori spiegazioni a Cola, il quale gli spiegò che era il fuoco dell’Etna ad albergare lì in fondo, lo stesso fuoco che di tanto in tanto saliva sulla cima del vulcano causando danni e vittime.

Allora preso dalla curiosità il re si tolse la corona e la gettò tra i flutti, chiedendo ancora a Cola di recuperarla, e ancora una volta il giovane si tuffò. Passarono moltissime ore; il sole tramontò e poi sorse di nuovo, ma di Cola non vi era traccia. Non si ebbero sue notizie per due giorni finché, all’alba del terzo giorno i presenti non videro una testa bruna affiorare dalle acque: era Cola, che stringeva tra le mani la corona, i cui diamanti brillavano alla luce del sole nascente. Il pescatore era stremato e raccontò di come la corona, finita in un vortice, fosse diventata invisibile ai suoi occhi, costringendolo a fare tutto il giro dell’isola per ritrovarla, nuotando più a fondo che mai ed incontrando creature marine di ogni sorta, inclusa la piovra che tempo prima aveva tentato di ucciderlo.


Ma il suo racconto fu persino più stupefacente; mentre ancora ansimava, descrisse il prodigioso fuoco sotterraneo, una fiamma ardente simile a quella che scaturisce dall’Etna, oltre il quale, in una prateria sottomarina, si stagliavano tre pilastri alti come montagne. Alzando gli occhi Colapesce si accorse che essi sostenevano la Sicilia intera: la colonna più a nord era nera come l’ossidiana, la seconda, verso sud era di granito ma si stava sbriciolando su un lato, la terza, a occidente era intaccata alla base e cigolava, forse corrosa dal fuoco sottomarino. Questa terza colonna si trovava nei pressi di quel grande fuoco, tra Messina e Catania, dove persino le creature marine non passavano, per paura di rimanere uccise; se un giorno la lava fosse colata fin là il pilastro si sarebbe sbriciolato e la Sicilia sarebbe sprofondata in mare. Nel luogo dove doveva esserci una quarta colonna si apriva la bocca di un pozzo profondo, dal quale Colapesce aveva recuperato la corona.

Il re dubitava ancora e volle che Cola scendesse di nuovo per portargli un segno di quel fuoco, ma Colapesce era stremato e tentennava sapendo della difficoltà di tale impresa, ma il re, presa la mano di Boemonda, che gli stava a fianco, le sfilò l’anello che aveva al dito e lo fece cadere oltre il bordo della nave. Il povero Colapesce, benché esausto, decise di tentare l’impresa. Portò con sé una ferula (una sorta di bastone) ed un pugno di lenticchie che, se fossero tornate a galla senza di lui, sarebbero state segno che era rimasto negli abissi. Tuffatosi, non si ebbero sue notizie per giorni e giorni; tutti andarono via e anche il re fece issare le vele per raggiungere Messina, assalito dal rimorso di aver mandato il giovane verso morte sicura. All’improvviso vicino alla barca spuntò dapprima il pugno di lenticchie, che galleggiavano su un’onda, poi si vide un bagliore sull’acqua, ed emerse la ferula, che bruciava come una torcia ardente. Colapesce era rimasto sott’acqua, per sorreggere la colonna consumata onde evitare che l’isola sprofondasse e quindi ancora oggi si troverebbe negli abissi a sopportare il peso dell’intera isola di Sicilia.

Su passati tanti anni
Colapisci è sempri ddà
Maestà! Maestà!
Colapisci è sempri ddà




La gente di Messina, quando la terra è scossa dai terremoti, dice che Colapesce è ancora là, sul fondo del mare, a sorreggere la Sicilia e a fare la guardia perché l’isola non sprofondi, vivendo felice con i suoi amici delfini e godendosi il canto delle sirene.

Questa leggenda del mare, probabilmente una delle più belle mai raccontate, non è solamente una storia d’eroismo, ma anche una leggenda d’amore. I tre doni lanciati in mare dal re rappresentano la ricchezza (la coppa d’oro), il potere (la corona) e l’amore (l’anello), che alla fine costò l’impresa, e probabilmente la vita, a Colapesce. Sebbene la tradizione popolare attribuisca a svariati regnanti la figura del re (si parla soprattutto di Federico II e di Carlo V), le fonti storiche che raccontano la leggenda di Colapesce sono precedenti ad entrambi i re, e sono riconducibili al 1140, anno in cui pare che effettivamente Ruggero II abbia visitato Messina.


view post Posted: 8/11/2023, 22:48 by: Lottovolante     +1LA MADONNA DEL GATTO - Federico Barocci - ARTISTICA




Federico Barocci
La Madonna del Gatto
(Madonna of the Cat)
1575 circa
Olio su tela
112.7 × 92.7 cm
Londra, National Gallery


Questo è l'unico dipinto da cavalletto di Barocci presente in una collezione pubblica britannica. Raffigura la sacra famiglia nell'affascinante ambientazione domestica di una camera da letto in un palazzo rinascimentale. È dipinto con i caratteristici colori pastello, con una messa a fuoco morbida e con la dolcezza della concezione e della visione interiore tipica dell'opera di Barocci.





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La Vergine Maria è seduta accanto alla culla da cui ha da poco sollevato il suo bambino, con le gambe incrociate alla caviglia che rivelano le dita dei piedi nude in sandali aperti. Nel suo cestino da lavoro c'è un piccolo libro con una rilegatura in pelle dorata e un pezzo di stoffa bianca steso sul suo cuscino da ricamo. Il Cristo bambino si volta dal seno della madre per osservare il cugino Giovanni Battista, che stringe un cardellino sopra la testa del gatto di casa. San Giuseppe si sporge in avanti per osservare il gioco, sorridendo benevolmente. Con un braccio che sostiene il figlio e uno che cinge il giovane Battista, la Vergine guarda Cristo e indica il gatto, che è sulle zampe pronto a balzare. Le quattro figure sono disposte in una sottile diagonale che sale dal gatto e le loro membra creano un complesso gioco di movimenti in avanti e indietro nello spazio. Il calore dell'incontro nasconde il messaggio devozionale più serio del quadro: l'anticipazione del futuro sacrificio di Cristo.





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Barocci dipinse il quadro per Antonio Brancaleoni, conte di Piobbico, un villaggio a circa venti miglia a ovest di Urbino. Brancaleoni commissionò al pittore urbinate un Riposo al ritorno dall'Egitto (Musei Vaticani, Città del Vaticano) per la chiesa parrocchiale di Piobbico all'incirca nello stesso periodo, ma la scala più piccola, la forma quadrata e il soggetto domestico de "La Madonna del Gatto" suggeriscono che fosse destinato alla casa di Brancaleoni. Date le allusioni alla domesticità femminile, potrebbe essere stata destinata agli appartamenti della contessa, la cui decorazione fu terminata nel 1574 (la decorazione degli appartamenti del conte fu completata solo nel 1585). Sappiamo che La "Madonna del Gatto" passò per via femminile alla famiglia, essendo stata ereditata dalla figlia della contessa, Isabella, il che suggerisce ancora una volta che il dipinto fosse associato alle donne Brancaleoni.


Il gatto è un motivo relativamente insolito nelle rappresentazioni della sacra famiglia. In questo caso è pronto a balzare sul cardellino, simbolo tradizionale della Passione di Cristo. Secondo la leggenda, il cardellino acquisì la sua testa rossa da una goccia di sangue caduta mentre estraeva una spina dalla fronte di Cristo sulla via del Calvario prima della sua crocifissione. La didascalia dell'incisione di Cornelis Cort del 1577 spiega che questo è il momento in cui il Bambino Gesù prende coscienza della cacciata dell'umanità dal paradiso, comprendendo così il suo futuro ruolo di redentore. Lo stemma dei Brancaleoni è costituito da un leone rampante sormontato da una croce reclinata, e compare in tutta la decorazione del loro palazzo. Il gatto e la croce di Giovanni Battista nell'immagine potrebbero essere un gioco di parole sull'araldica della famiglia.





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Indicativi dell'approccio meticoloso di Barocci, per "La Madonna del Gatto" sopravvivono non meno di trentacinque disegni preparatori, tra cui un cartone a grandezza naturale (collezione privata, Francia). Questi esplorano il rapporto tra le figure, la complessa posa della Vergine, il panneggio e le belle espressioni di tenerezza. Barocci realizzò anche un disegno del quadro finito (ora al British Museum di Londra) per poterlo incidere.



Gesù Cristo è il fine di ogni cosa e il centro verso cui tutto volge.
Chi lo conosce, conosce la ragione di tutte le cose...



(Blaise Pascal)



(Mar L8v)






view post Posted: 3/11/2023, 22:06 by: Lottovolante     +1MADONNA DELL'UMILTÀ - Lippo di Dalmasio - ARTISTICA


Lippo%20di%20Dalmasio1

Lippo di Dalmasio
Madonna dell'umiltà
(The Madonna of Humility)
1390 circa
Tempera all'uovo su tela
110 × 88.2 cm
Londra, National Gallery


Lippo di Dalmasio ha apposto la sua firma, "Lippus Dalmasij pinxit" ("Lippo di Dalmasio ha dipinto questo"), sul bordo inferiore del quadro tra le piante e le erbe di un prato rigoglioso. Tra trifogli, felci e denti di leone è seduta la Vergine Maria con il Bambino in grembo. Madre e figlio si guardano negli occhi e Cristo, con un gesto infantile, tira il sottile velo bianco della Vergine. Due gruppi di angeli si librano in alto a vegliare su questa tenera scena di amore materno.





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Le figure si stagliano su un disco dorato che rappresenta il sole. È realizzato in foglia d'oro che l'artista ha inciso con la punta di un compasso, creando linee sottili per i raggi del sole. Anche le stelle dorate che circondano la testa della Vergine e la decorazione dettagliata della sua veste, compreso il motivo a raggiera sulla spalla, sono realizzate in foglia d'oro, applicata con cura su un materiale appiccicoso chiamato bolo. Questi elementi dell'immagine avrebbero dovuto risplendere nell'ambiente originale della chiesa illuminata da candele.





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Le analisi scientifiche hanno rivelato che il mantello della Vergine è dipinto con un pigmento chiamato azzurrite. Quando è fresca, l'azzurrite è di un blu brillante e avrebbe contrastato fortemente con il sole dorato. È anche soggetta a scurirsi nel tempo e ora appare quasi nera. Ai piedi della Vergine c'è una luna crescente; un tempo era luminosa, poiché Lippo sovrapponeva una foglia d'argento alla pittura bianca per creare un pallido bagliore. L'argento, tuttavia, si è scurito nel tempo.





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Nonostante il loro effetto abbagliante, l'inserimento di stelle e pianeti non è puramente decorativo. Questi elementi cosmici compaiono in molte immagini della Vergine in questo periodo con lo scopo di richiamare alla mente la cosiddetta Donna dell'Apocalisse, che nel Nuovo Testamento appare "vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle" (Apocalisse 12:1). Lippo ha seguito una tradizione della pittura italiana settentrionale raffigurando la Vergine come Donna dell'Apocalisse, seduta a terra in una posa che è stata definita "Madonna dell'Umiltà". Il termine si riferisce all'umiltà della Vergine e alla sua accettazione del ruolo di Madre di Dio.


Si tratta dell'unico dipinto bolognese del XIV secolo presente alla National Gallery; la pittura bolognese di questo periodo è rara nelle collezioni britanniche. Il soggetto è ricorrente nell'opera di Lippo, che dipinse diverse immagini della Madonna dell'Umiltà come Donna dell'Apocalisse, sia in affresco che, come in questo caso, su tela. L'uso della tela anziché del legno è insolito in questo periodo e ha portato a un dibattito sulla funzione dell'immagine; spesso venivano dipinte su tela per creare stendardi, utilizzati nelle processioni religiose. I documenti rivelano tuttavia che Lippo dipinse due pale d'altare su tela per la chiesa di San Petronio a Bologna, dove viveva quando realizzò questo dipinto.






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Nel cielo apparve poi un segno grandioso:
una donna vestita di sole, con la luna sotto
i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle.

(Apocalisse 12:1)




(Mar L8v)





Edited by Lottovolante - 4/11/2023, 13:57
view post Posted: 31/10/2023, 21:33 by: Milea     +1Telemaco Signorini - Tra gli ulivi a Settignano - I Macchiaioli

Signorini-tra-gli-ulivi-a-settignanoP

Telemaco Signorini (Firenze, 1835 - 1901)
Tra gli ulivi a Settignano
1885
olio su tela - 35 x 63 cm.
Collezione privata


A Settignano, un piccolo e grazioso paese di campagna nei pressi di Firenze, Telemaco Signorini eseguì molti dipinti: angolature di strade o vedute rurali che condensano sulla tela l’emozione del pittore di fronte alla bellezza ancora intatta di quei luoghi, posti al limitare di una città che la modernizzazione andava allora profondamente mutando. Divenuta capitale del Regno d’Italia per la cui formazione i giovani come Signorini si erano battuti con entusiasmo, essa stava perdendo in quegli anni il proprio assetto antico e caratteristico per conformarsi alle esigenze del nuovo ruolo assunto e l’artista ne documentava alcuni luoghi destinati a scomparire (come il “Mercato Vecchio”) o i numerosi scorci dei vicoli circostanti l’antico ghetto ebraico, sempre di quel decennio, attraverso una pittura descrittiva e minuta, frammentata in pennellate rapide, quasi nell’ansia di fermare l’attimo di una realtà che si percepiva ormai incerta, alla quale corrispondeva la crisi generali dei valori del pensiero positivo, valori già ritenuti assoluti, che Signorini aveva posto a fondamento della propria ricerca di artista oltre che di uomo, traducendoli in una riflessione sul significato della forma pittorica.

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Telemaco Signorini
Mercato Vecchio a Firenze
1882 -1883
olio su tela - 39 x 65,5 cm.
Collezione privata

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Telemaco Signorini
Il ghetto di Firenze
1882
olio su tela - 95x65 cm.
Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, Roma


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Ne era derivata una esecuzione rigorosa, per contrasti di luce e d’ombra, una metodologia analogica non più sostenibile in un mondo le cui certezze si stavano sgretolando sotto gli occhi di chi ne aveva fatto un tempo la propria bandiera. Lontani ormai gli anni delle polemiche, l’artista fiorentino si era ormai abbandonato al fluttuare labile della pennellata, sfrangiando impressionisticamente la “macchia” secondo il suggerimento dei francesi (del romantico Camille Corot, o di Claude Monet fra i contemporanei, con i quali Signorini ha certamente avuto modo di confrontarsi nei numerosi soggiorni parigini dagli anni settanta in poi), quasi ad assecondare gli impulsi contrastanti di un animo irrequieto.


A tal fine egli aveva prediletto intimistiche suggestioni di paese e località solitari, spesso inquadrati da tagli inconsueti, diagonali o ripidi, che accentuavano il sentimento di instabilità dell’insieme; oppure ricorrendo a variabili luminose, che alteravano la quiete apparente di una giornata di sole. Nella tela “Tra gli ulivi a Settignano” per esempio, il ciglio del viottolo di campagna sbilancia la tela fra il bruno frastagliato della terra in primo piano e il grigioverde delle chiome degli ulivi, che si dissolve nella valle sottostante in una moltitudine di ritocchi, mentre la presenza umana, due piccole figure fra i tronchi contorti delle vecchie piante, decentrata e confusa, quasi si annulla. (M.@rt)




view post Posted: 31/10/2023, 16:46 by: Milea     +1Telemaco Signorini - Processione a Settignano - I Macchiaioli

Telemaco-signorini-processione-a-settignano-P

Telemaco Signorini (Firenze, 1835 - 1901)
Processione a Settignano
1880 circa
Firmato in basso a sinistra: “T.Signorini”
olio su tela - 40 x 27 cm.
Collezione privata (Montecatini Terme)


In una stradina tipica dell’universo suburbano di Firenze, stretta e accompagnata da alti muri eretti a gelosa salvaguardia della proprietà, una processione di uomini, donne e bambini si avvia festosa spargendo fiori al loro passaggio. E’ una giornata di sole e i colori vivaci degli abiti festivi e dei petali dei fiori brillano, enfatizzati dalla pennellata vibrante del pittore, che si compiace nella descrizione del più minuto dettaglio. Settignano è un luogo idilliaco per Signorini, dove la frenesia della sottostante Firenze è un lontano ricordo; vi si arriva attraverso una strada costeggiata da bassi muretti che delimitano poderi, uliveti, campi coltivati e antiche ville con giardini all’italiana. Il quadro appartiene molto probabilmente alla produzione dell’artista fiorentino nei primissimi anni ottanta, quando egli si recava di frequente a dipingere sulle colline di Settignano, dove ancora poteva trovare la quiete contemplativa che la città, divenuta capitale del Regno d’Italia per il breve periodo di sei anni (dal 3 febbraio 1865 al 3 febbraio 1871) aveva perduto.



Telemaco Signorini
Mattina di settembre a Settignano
1891
olio su tela - 58 x 65 cm.
Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti, Firenze


In corso di profonda trasformazione, infatti, Firenze andava mutando in quegli anni la sua fisionomia ottocentesca per adeguarsi al nuovo ruolo nazionale e Signorini era il testimone malinconico di tale cambiamento, che documentava con “verve” giornalistica in scorci e vedute delle antiche vie e dei luoghi amati del centro storico, sulla falsariga dei “parigini” Giuseppe de Nittis e di Giovanni Boldini. Ben consapevole che profonde trasformazioni sociali e urbanistiche stanno sconvolgendo il quieto vivere dell’uomo di fine Ottocento, ancora per lo più intento al lavoro dei campi e in stretto rapporto con la natura, l’artista percepisce Settignano come l’ultima roccaforte di un mondo idilliaco che sta scomparendo. A questo spirito, garbatamente documentario destinato in gran parte a compiacere un pubblico di stranieri, appartiene anche la tela “Processione a Settignano”. Ma il sentimento nostalgico per una vita semplice, lenta e sognante che pervade le immagini di Signorini, a differenza di quelle dei suoi due colleghi, spesso avvolto di una luminosità cenerina in cui la documentazione del “vero” assume quasi il sapore di una denuncia, lascia qui il posto a una felicità istintiva della descrizione, che si compiace nel cogliere l’essenza dell’attimo atmosferico e nel gioco palpitante della luce tra le fronde e sulla varia umanità che popola il quadro, trova effetti di impressionistica leggerezza. (M.@rt)




view post Posted: 31/10/2023, 14:18 by: Milea     +1Michele Tedesco - Una ricreazione alle Cascine di Firenze - I Macchiaioli



Michele Tedesco (Moliterno, 1834 - Napoli 1917)
Una ricreazione alle Cascine di Firenze
1863
olio su tela - 63 x 148 cm.
Siglato e datato in basso a sinistra: M.T. 1863
Galleria d’Arte Moderna, Bologna



Michele Tedesco (1834-1917)
Autoritratto
1903
olio su tela
Collezione privata



Michele Tedesco nasce in Basilicata a Moliterno, in provincia di Potenza e studia sotto la guida di Domenico Morelli all’Istituto d’arte di Napoli; nel 1860 sI arruola nella Guardia Nazionale e combatte al seguito di Garibaldi. Fino al 1874 vive a Firenze, condividendo la ricerca figurativa dei Macchiaioli fin dal suo nascere. Amico di Giuseppe Abbati e di Diego Martelli, presso il quale soggiorna a Castiglioncello nell’estate del 1861, insieme a Telemaco Signorini. Il viaggio è documentato da uno studio composto per risentite macchie di colore e raffigura una sosta degli amici sotto le mura di Volterra.

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Michele Tedesco
Sosta sotto le mura (In Volterra)
1861 circa
olio su tavola -46 x 33 cm.
Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti, Firenze


Nella luce intensa di una giornata estiva i quattro amici si riposano nel triangolo d’ombra proiettato sul terreno dalle mura della città antica; una composizione azzardata nel taglio verticale e nella forte e contrastata scansione cromatica, condotta per macchie compatte di colore, su cui i bianchi hanno un potente risalto corposo. In quadro, un tempo appartenuto a Diego Martelli, raffigura secondo la tradizione la sosta a Volterra di Abbati, Signorini, Tedesco e lo stesso Martelli, durante il primo viaggio a Castiglioncello nell’estate del 1861, per accompagnare Diego nelle terre ereditate dal padre.

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In sintonia con la poetica di Piagentina, l’artista lucano dipinge scene di vita domestica che hanno come protagoniste figure femminili, stilisticamente vicine alla maniera di Odoardo Borrani, colte nell’intimità. Nel 1863 il carattere sentimentale della tela “Una ricreazione alle Cascine di Firenze“ indica la conoscenza dei dipinti vittoriani, forse ammirati a Firenze nelle case dei tanti residenti inglesi, o più probabilmente a lui noti attraverso le illustrazioni di riviste.


La tela raffigura una scena di amabile familiarità fra donne e bambini durante la festa del Grillo, che a Firenze si tiene tutt’ora il giorno dell’Ascensione, nel grande parco lungo l’Arno. La giornata sembra essere giunta al suo termine: le bimbe si acquietano stanche sognando il canto degli insetti prigionieri nelle loro gabbiette di giunco e le due signore in piedi suggeriscono il trascorrere dell’ora. la luce pacata e l’affabilità descrittiva, unite all’atmosfera di dolce sospensione che aleggia nella scena, conferisce al quadro il pathos di un dipinto inglese di epoca vittoriana.

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Julia Hoffmann Tedesco (Wurzburg 1843 - Monaco di Baviera 1936)
L’angelo custode (The guardian angel)
firmato e datato “1912(?)” in basso a sinistra
olio su tela - 58 x 44 cm.
Collezione privata



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Nel 1873 Michele Tedesco sposa la pittrice tedesca Julia Hoffmann, conosciuta qualche tempo addietro in Baviera nel corso di uno dei suoi frequenti viaggi, e lascia definitivamente Firenze, prima per Roma, quindi per Napoli, dove dipinge opere di grande potenza emotiva e stilistica, nelle quali le sue esperienze figurative si fondono alle suggestioni della scuola monacense ispirategli dalla moglie. Nel 1892 ottiene l’incarico di professore di figura all’Istituto d’arte di Napoli, che ricoprirà fino alla morte. La sua produzione negli anni napoletani è cospicua e varia; poche però sono a tutt’oggi le opere note o identificate. (M.@rt)


view post Posted: 28/10/2023, 21:27 by: Lottovolante     +1IMMACOLATA CONCEZIONE - Giambattista Tiepolo - Tiepolo


La dottrina dell’Immacolata Concezione di Maria esprime la
certezza di fede che le promesse di Dio si sono realizzate:
che la sua alleanza non fallisce, ma ha prodotto una radice santa,
da cui è germogliato il Frutto benedetto di tutto l’universo, Gesù, il Salvatore.
L’Immacolata sta a dimostrare che la Grazia è capace di suscitare una risposta,
che la fedeltà di Dio sa generare una fede vera e buona.

(Benedetto XVI)





Giambattista Tiepolo
Immacolata Concezione
(The Immaculate Conception)
1768-1769
Olio su tela
279 x 152 cm
Madrid, Museo del Prado


Dopo aver concluso nel 1766 la realizzazione di due affreschi minori nelle sale di Palazzo Reale, Giambattista Tiepolo prende la decisione di restare a Madrid , chiedendo a Carlo III di poter continuare la propria attività per la corte spagnola. Il re, che certo apprezzava l'opera di Giambattista più del suo consigliere e confessore, padre Joaquìn de Eleta, più rivolto verso lo stile neoclassico di cui era portatore presso la corte il boemo Anton Raphael Mengs, decide nel marzo 1767 di affidargli l'incarico di dipingere sette le pale destinate a decorare gli altari della nuova chiesa reale di Aranjuez, sulle rive del Tago, dedicata a san Pasquale Baylon.





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Giambattista presenta i bozzetti nel mese di settembre e ottiene immediatamente il via per l'esecuzione delle pale, che porta a compimento nel corso di due anni: il 29 agosto del 1769 scrive al segretario del re per avvisarlo di aver concluso il lavoro e di essere disponibile ad apportare ai dipinti eventuali modifiche se questi non avessero incontrato "la completa approvazione reale".





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Tuttavia, per il protrarsi dei lavori di completamento della nuova chiesa, le pale rimasero nello studio del pittore e solo sei di esse vennero poste in opera due mesi dopo la sua morte, nel maggio del 1770; ma già all'inizio del settembre dello stesso anno si prese la decisione di sostituirle con altre, dello stesso soggetto, opera di Anton Raphael Mengs e dei suoi allievi spagnoli, il Bayeu e il Maella.





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Le pale tolte d'opera vennero dapprima trasferite nel vicino convento, e successivamente in parte alienate; alcune hanno anche subito nel tempo tagli e mutilazioni. Spesso sottovalutate dalla critica, queste pale costituiscono la sintesi, di altissima qualità, della produzione tiepolesca nel campo della pittura religiosa, nel quale il pittore veneziano deve essere considerato l'ultimo grande interprete della tradizione occidentale.


In questa pala la Vergine Maria appare sulla palla del Mondo e sulla mezzaluna, calpestando il serpente del peccato originale, incoronata dalla colomba dello Spirito Santo e circondata da angeli e da alcuni simboli mariani. Questi sono il bastone di gigli, la palma, la fontana e lo specchio. Questa scena mostra il modo tradizionale di rappresentare l'Immacolata Concezione della Vergine, concepita senza peccato originale. Il bozzetto di questa tela è conservato presso le Courtauld Institute Galleries di Londra. (Mar L8v)

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