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view post Posted: 6/1/2024, 21:06 by: Lottovolante     +1IL LAMENTO AI PIEDI DELLA CROCE - Giandomenico Tiepolo - Tiepolo




Giandomenico Tiepolo
Il lamento ai piedi della croce
(The Lamentation at the Foot of the Cross)
1750-1760
Olio su tela
80 × 89.2 cm
Londra, National Gallery


Il corpo senza vita di Cristo, sorretto dalla Vergine Maria, giace ai piedi della Croce. La Vergine guarda verso il cielo con profondo dolore, la fronte aggrottata. Una Santa Maria Maddalena dai capelli chiari si aggrappa al braccio sinistro di Cristo, incapace di contenere il suo dolore. Al centro, San Giovanni Evangelista nasconde il volto nel suo drappeggio rosso, mentre altre figure in lutto lo circondano; sullo sfondo appare la città di Gerusalemme.





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Questo episodio non è descritto nella Bibbia, ma esiste una lunga tradizione di illustrazioni. Invece di concentrarsi esclusivamente sul lamento sul corpo di Cristo, Giandomenico Tiepolo ha incluso altri elementi del racconto della Passione; qui vediamo i due ladroni che furono crocifissi accanto a Cristo, così come le scale appoggiate alla Croce, elementi che di solito compaiono nelle immagini della Crocifissione e della Deposizione. A destra c'è il "buon ladrone", che ha riconosciuto Cristo come figlio di Dio ed è stato salvato; il "cattivo ladrone", che è stato dannato, dà le spalle all'osservatore. I loro corpi non sono inchiodati, ma legati all'indietro sulla barra della croce: questo potrebbe essere più vicino alla realtà. I due uomini col turbante sulla destra potrebbero essere Giuseppe d'Arimatea e Nicodemo, che unsero e seppellirono il corpo di Cristo (Gv 19,39). Se così fosse, ciò indicherebbe l'evento successivo della Passione: la sepoltura.





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Le croci sono poste ben al di sopra della folla, contro il cielo blu e beige; sono simboli potenti e commoventi, ma la loro collocazione crea anche profondità e i loro contorni danno un sottile movimento contro lo sfondo. Sia nei corpi crocifissi che nelle figure principali in primo piano, Domenico si concentra sul linguaggio del corpo piuttosto che sulle espressioni del viso - la Vergine è l'eccezione - come modo per provocare sentimenti di pietà e tristezza nello spettatore.





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Giandomenico fu molto influenzato da Rembrandt. Joseph Smith, console britannico a Venezia e appassionato collezionista d'arte, possedeva il Compianto sul Cristo morto di Rembrandt. Giandomenico potrebbe averlo visto negli anni Trenta del XVII secolo, quando dipinse quest'opera, oppure conosceva un'incisione successiva. Il suo quadro ha un grande debito nei confronti di Rembrandt, la cui influenza è visibile negli uomini barbuti, un tipo di viso che sappiamo essere stato studiato da Rembrandt e incluso in numerosi dipinti religiosi.






Giandomenico Tiepolo
Il lamento ai piedi della croce
(The Lamentation at the Foot of the Cross)
1755 - 1760 circa
Olio su tela
64.2 x 42.5 cm.
Londra, National Gallery


Nella collezione della National Gallery di Londra è presente un'altra versione del Compianto di Giandomenico, di dimensioni più ridotte e dipinta in formato verticale, che si avvicina ancora di più all'opera di Rembrandt. Domenico dipinse queste due opere in modo diverso: questa ha un aspetto più rifinito, e gli abiti, i volti e la città sullo sfondo sono descritti in modo più dettagliato; queste opere potrebbero far parte di una serie di Domenico che esplora i temi della Passione. (Mar L8v)





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La madre difende la carne sua,
il cuore del corpo suo.
Soffre di più la Madonna ai piedi della croce,
che il Figlio crocefisso.

(Elsa Morante)





view post Posted: 6/1/2024, 18:34 by: Milea     +1RAGAZZO IN COSTUME DA PAGGIO - Giambattista Tiepolo - Tiepolo

Giambattista-Tiepolo-a-young-boy-in-the-costume-of-a-pageP

Giambattista Tiepolo
Ragazzo in costume da paggio, testa e spalle
(Young boy in the costume of a page, head and shoulders)
1745 - 1749 circa
olio su tela - 45,7 x 40,6 cm.
Collezione privata


Questo carismatico studio di un giovane è stato dipinto da Tiepolo a metà o negli ultimi anni del 1740. Erano anni straordinari per l’artista e importanti commissioni riempivano il suo tempo a Venezia e in tutto il Veneto, tra cui i magnifici affreschi dell’Incontro di Cleopatra e Antonio a Palazzo Labia a Venezia completati nel 1744. Ormai artista di grande fama, nel 1750 fu chiamato a Würzburg per dipingere la sua opera più importante, gli affreschi della Kaisersaal della Reggia.


L’eccezionale stato di conservazione dell’opera permette di apprezzare appieno la maestria pittorica del Tiepolo. La pennellata decisa della gorgiera appena abbozzata e la trattazione delle vesti creano un contrasto raffinato con la morbida stesura delle velature nei toni dell’incarnato, creando una sensazione complessiva di delicatezza e sobrietà che ben si addice alle caratteristiche del personaggio. Pur essendo altrettanto abile nell’olio come nell’affresco, Tiepolo era anche un disegnatore molto dotato ed è spesso nelle sue opere su carta che troviamo la genesi delle sue intuizioni. I suoi disegni servivano come studi che il pittore riutilizzava e rimodellava nel corso della sua carriera, spesso adattando una stessa idea a più soluzioni per soddisfare le diverse commissioni e così è per l’opera in esame.


La struttura del busto trova indubbiamente la sua fonte in un disegno di Tiepolo della metà degli anni '40 del XVII secolo, ora conservato all’Ermitage di Leningrado. Sebbene la posa del ragazzo sia diversa e la sua testa sia ora girata verso destra, l’abito e la gorgiera derivano chiaramente dal disegno, così come l’inserimento del medaglione che pende sul petto.




Il disegno dell’Ermitage funge anche da studio preparatorio per uno degli angoli del soffitto affrescato nel 1745 nella chiesa degli Scalzi a Venezia, raffigurante il Miracolo della Casa di Loreto, distrutto nel 1915, ma i cui angoli sono ora conservati all’Accademia di Venezia.


Mentre la posa del ragazzo si ricollega al disegno dell’Ermitage, i suoi lineamenti delicati, i capelli ondulati e la modellazione del volto si ritrovano nuovamente nel paggio che porta la corona nel già citato affresco dell’Incontro di Cleopatra e Antonio, anch’esso databile agli anni ‘40 del XVII secolo e nell’affresco con l’Investitura del vescovo Herold a duca di Franconia a Wurzburg.(M.@rt)





view post Posted: 6/1/2024, 14:24 by: Milea     +1IL COMBATTIMENTO NELLA PIAZZETTA DELL'ALBERA - Faustino Joli - ARTISTICA

Joli-combattimenti-barricata-San-Barnaba-bresciaP

Faustino Joli
Episodio delle Dieci Giornate di Brescia
La barricata a San Barnaba, 31 marzo 1849
a destra: “Contrada dello Sguazzo/ Brescia il giorno 31 MARZO 1849”
olio su tela - 33 x 46 cm.
Collezione privata


L’esistenza di un’ulteriore raffigurazione dell’Episodio di Santa Barnaba (già nella collezione del conte Filippo Salvadego) suggerirebbe la realizzazione di derivazioni o singole repliche della serie, testimonianza indiretta della sua fortuna. L’opera, pur non firmata, è assegnabile con certezza al catalogo di Faustino Joli; rispetto alla versione conservata nelle raccolte dei Civici Musei di Brescia, il punto di vista prospettico risulta leggermente arretrato verso nord, permettendo al pittore di rappresentare nella sua interezza la facciata della chiesa dell’ex Convento agostiniano di San Barnaba, soppresso nel 1797, e di riprendere una porzione più ampia della piazzetta antistante (oggi Piazzetta Arturo Benedetti Michelangeli), chiusa a meridione dal fabbricato in stile neoclassico delle Scuole Elementari cittadine, realizzato tra il 1834 e il 1838 dall’architetto Luigi Donegani, oggi sede del Conservatorio di Musica “Luca Marenzio”. Anche le numerose “macchiette” degli insorti che si affollano in primo piano, così come quelle delle truppe austriache in fuga precipitosa sullo sfondo, risultano sapientemente variate rispetto a quelle presenti nella versione del Museo del Risorgimento.



“La barricata a San Barnaba, 31 marzo 1849” rappresenta uno dei più noti episodi dell’insurrezione, quando i cittadini bresciani, guidati militarmente da Tito Speri, insorsero contro la guarnigione austriaca e contro le soverchianti truppe imperiali di rinforzo accorse dal territorio, al comando del tenente feldmaresciallo Julius Jacob von Haynau.
In quel fatidico giorno, sfondata dopo numerosi, vani tentativi, la forte barricata di Porta Torrelunga (odierna Piazza Arnaldo), le truppe guidate dal generale di brigata Johann Nugent, accorse da Mantova cinque giorni prima, si scagliarono contro la barricata improvvisata dagli insorti all’incrocio della contrada di San Barnaba (odierno tratto orientale di corso Magenta) e della contrada dello Sguazzo (odierna via Crispi) per proteggere la barricata più interna in contrada Bruttanome (odierno tratto occidentale di Corso Magenta).


La fiera resistenza opposta dai bresciani portò alla momentanea rotta degli Imperiali, i quali avrebbero presto, ahimè, fatalmente ripreso il sopravvento, riconquistando l’eroica città insorta, condannata a uno spietato saccheggio. Nel dipinto, di altissima qualità pittorica, l’autore fissa la veduta urbana con la precisione dell’esperto pittore prospettico, restituendo ad un tempo la concitazione della scena cruenta con l’efficacia cronachistica di una coinvolgente, plausibile testimonianza diretta. (M.@rt)




view post Posted: 6/1/2024, 13:58 by: Milea     +1IL COMBATTIMENTO NELLA PIAZZETTA DELL'ALBERA - Faustino Joli - ARTISTICA



Faustino Joli
Episodio delle Dieci Giornate di Brescia
Il popolo radunato in Piazza Vecchia il 23 marzo
1849
olio su tela - 32,5 x 40,5 cm.
Museo del Risorgimento Leonessa d’Italia, Brescia





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Faustino Joli
Episodio delle Dieci Giornate di Brescia
Combattimento a San Barnaba (31 marzo 1849)
1849
olio su tela - 40,5 x 31,5 cm.
Museo del Risorgimento Leonessa d’Italia, Brescia


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Faustino Joli
Saccheggi a Porta Torrelunga (31 marzo 1849)
1849
olio su tela - 32 x 41 cm.
Museo del Risorgimento Leonessa d’Italia, Brescia


La piccola tela raffigura l’odierna piazza Arnaldo da Brescia, all’epoca Porta Torrelunga, durante i saccheggi che seguirono l’ingresso delle truppe austriache la notte del 31 marzo. Sullo sfondo delle fortificazioni murate, sulle quali si stagliano schierate le truppe austriache, si aprono le quinte delle case dalle quali si levano, sinistre nell’oscurità notturna, lunghe lingue di fuoco.


Al centro numerose scene di violenza e sopraffazione: soldati che minacciano ferocemente un gruppo di donne e bambini, che sembrano volersi disperatamente lanciare verso gli edifici che bruciano; cittadini che fuggono, mentre uno cade, colpito dal fuoco austriaco.


Sulla sinistra, invece, un gruppo di nemici beve e festeggia, seduto tra i poveri resti di un’abitazione: coperte e materassi, casse e botti di vino. Altri soldati entrano ed escono dai portoncini circostanti, carichi di oggetti e suppellettili. Al centro, drammaticamente isolato, il corpo riverso di un uomo; sulla destra ve ne sono altri, distesi tra stoviglie e oggetti abbandonati. Il dipinto tratteggiato con colpi sicuri e precisi di pennello, traduce con tragica fedeltà le parole delle cronache, restituendo con vivace crudezza la drammatica conclusione dell’eroico tentativo insurrezionale. (M.@rt)





Edited by Milea - 6/1/2024, 14:53
view post Posted: 4/1/2024, 22:55 by: Milea     +1COMPIANTO SUL CRISTO MORTO - Giambattista Tiepolo - Tiepolo



Giambattista Tiepolo (Venezia 1696 - Madrid 1770)
Compianto sul Cristo morto
1767 - 1770
olio su tela - 59 x 40,5 cm.
Collezione privata, in deposito al Kunsthaus Museo, Zurigo


Tra le numerose tele di piccolo formato e di soggetto religioso prodotte da Giambattista Tiepolo spicca per l’eccezionale qualità pittorica questa splendida deposizione dalla Croce, il più drammatico dei tre brani raffigurati da Tiepolo durante il suo soggiorno madrileno di otto anni alla fine della sua vita. Lavorando al suo più ambizioso programma di decorazione commissionato dalla famiglia Pisani per la loro villa sul Brenta, Tiepolo fu costretto a rispondere all'imperiosa convocazione a Madrid di Carlo III di Spagna. Lasciò l'Italia, con i figli Giandomenico e Lorenzo, nel marzo 1762 per decorare i soffitti del Palacio Real.

Desideroso di rimanere in Spagna, Tiepolo cercò la commissione più grandiosa allora disponibile presso la Corona spagnola: le sette pale d’altare per la chiesa francescana di San Pascual ad Aranjuez; avrebbe terminato la commissione poco prima della fine della sua vita, nel 1770.Tuttavia, è nelle piccole opere raffiguranti scene della Passione di Cristo (tutte misurano circa 55 x 40 cm) che Tiepolo eccelle in questi ultimi anni. La loro tenerezza e il loro pathos dimostrano che erano destinate a una contemplazione intima, in netto contrasto con la funzione formale dei suoi grandi affreschi. Oltre alle quattro composizioni sul tema della Fuga in Egitto, si sa che Tiepolo ha dipinto solo altri due quadretti relativi alla Passione: il presente quadro e la “Deposizione di Cristo nella tomba”.



Giambattista Tiepolo
Deposizione di Cristo nella tomba
1770
olio su tela - 57 x 43,7 cm.
Museu Nacional de Arte Antiga, Lisbona


Di questi piccole opere il “Compianto sul Cristo morto” è probabilmente la composizione più riuscita: nel tepore della prima sera, ai piedi delle tre croci vuote, la Vergine Maria alza le braccia in segno di agonia sul corpo di Cristo steso a terra davanti a lei, con la testa appoggiata sulla sua coscia. I discepoli sono tutti usciti, tranne San Giovanni Evangelista che, disperato, si copre il volto con il mantello. Intorno al suo corpo si è posata una schiera di angeli, le cui grandi ali sembrano muoversi nella brezza serale. In primo piano, parallelamente al corpo di Cristo, si trovano la corona di spine, l’iscrizione e la lancia.

La chiesa di San Francisco el Grande traccia la silhouette di Madrid, ricordando allo spettatore l’atemporalità della scena. Le nuvole sullo sfondo riprendono il contorno del gruppo sacro; il loro grigio chiaro funge da passaggio tra il cielo azzurro e le ali più scure degli angeli. I colori forti sono distribuiti con cura: il blu acceso del mantello della Vergine è bilanciato dal rosso intenso della veste di San Giovanni, ed entrambi sono completati dal panneggio giallo dell’angelo alla sinistra della Vergine. Le pennellate vibranti e fluide sembrano far fluttuare la composizione sulla tela, ricordando lo stile personalissimo che l’artista ha sviluppato nei suoi disegni con la china.

La struttura compositiva della scena richiama il Compianto sul Cristo morto di Rembrandt, che faceva parte della collezione personale di Joseph Smith, il console britannico a Venezia, che lo possedeva certamente dal 1738 e nella cui dimora Tiepolo e il figlio Giandomenico ebbero modo di ammirare. Sebbene non ne sia rimasto alcuno, è probabile che abbiano realizzato dei disegni che lo riprendono. Giandomenico produsse una serie di varianti dipinte e una versione disegnata della composizione di Rembrandt; due di queste si trovano alla National Gallery.

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Giandomenico Tiepolo (1727 - 1804)
The Lamentation at the Foot of the Cross
1755 - 60 circa
olio su tela - 64,2 x 42,5 cm.
National Gallery, Londra (non in vista)





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Giandomenico Tiepolo (1727 - 1804)
The Lamentation at the Foot of the Cross
1750 - 60
olio su tela - 80 x 89.2 cm
National Gallery, Londra






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Da quest’opera (venduta a Giorgio II nel 1762, per coincidenza l’anno in cui Giambattista partì per la Spagna) sembrano derivare in particolare la dislocazione inusuale delle tre croci e dello sfondo di una città in lontananza. Giambattista Tiepolo però dà al soggetto una propria interpretazione: sebbene le croci siano nella stessa posizione nella tela rembrandtiana, i corpi dei due ladroni vi sono ancora appesi, mentre in quella di Tiepolo le croci svettano vuote contro il cielo, enfatizzando la solenne disperazione dei personaggi, raccolti intorno al corpo di Cristo.

Del tutto diverso rispetto al modello rembrandtiano risulta il gruppo in primo piano, con la Vergine, San Giovanni e numerosi angeli in compianto sul corpo di Cristo, ormai irrigidito dalla morte. Inoltre mentre Rembrandt sullo sfondo dipinge una veduta immaginaria di Gerusalemme, Giambattista raffigura il paesaggio urbano di Madrid.

Sorprendente per gli standard abituali di Tiepolo appare la qualità cromatica di quest’opera, dove domina una sorta di monocromia bruno-dorata, vivificata dalla presenza dei pochi tocchi di azzurro e di rosso chiarissimi dei manti di Maria e di Giovanni. La tela è stata recentemente concessa in deposito da un collezionista privato al museo di Zurigo. (M.@rt)


view post Posted: 4/1/2024, 20:56 by: Lottovolante     +1Anna e il cieco Tobit (Anna and the Blind Tobit) - Rembrandt




REMBRANDT Harmenszoon van Rijn
Anna e il cieco Tobit
(Anna and the Blind Tobit)
1630 circa
Olio su tavola di quercia
63.8 × 47.7 cm
Londra, National Gallery


Già da giovane, Rembrandt era interessato alla rappresentazione della vecchiaia e delle persone anziane; li dipingeva come se ogni linea incisa, ogni osso storto, ogni piccolo segno marrone su ogni mano fossero importanti, distintivi della longevità, dell'esperienza e della saggezza del loro proprietario. In questo dipinto, una luce fredda e grigia si insinua attraverso una finestra aperta in una stanza di per sé molto antica: niente vetri alla finestra, una pesante persiana di legno, un camino acceso. Le ombre sono profonde; c'è solo un barlume di luce su un vaso di terracotta rovesciato su un lato e sulla schiena e sul fianco di un vecchio seduto accanto alla finestra. È avvolto in una lunga veste con un collo di pelliccia, il collo arruffato di una vecchia camicia che gli copre la guancia rugosa e la barba grigia. La testa è fasciata da un copricapo bianco con un berretto nero in cima. È immobile: ha le mani giunte sul grembo e la testa abbassata come se stesse pensando. È Tobit; una storia apocrifa ci dice che era un uomo buono e santo, ma che Dio lo rese cieco per mettere alla prova la sua fede.


Anna, la moglie di Tobit, è più vicina all'osservatore ma è girata di spalle. Abbassa lo sguardo sulle sue mani, impegnate ad avvolgere la lana su un telaio, un'occupazione che richiede grande pazienza. Le fiamme del fuoco e le sue dita sono le uniche cose che si muovono. È come se l'intera stanza stesse aspettando; l'edera aggrappata alla finestra suggerisce resistenza, pazienza, "tenere duro".


Gli anziani coniugi stanno aspettando il figlio Tobia, che è partito per un lungo viaggio con il loro cane per trovare il denaro necessario ai genitori per alleviare così la loro povertà; egli vive molte avventure, trova moglie e incontra l'arcangelo Raffaele, che lo aiuta a combattere un enorme pesce. Alla fine torna a casa con il denaro, la moglie e le interiora del pesce, che si rivelano una cura per la cecità di Tobit, come promesso dall'Arcangelo.


Il racconto era popolare all'epoca di Rembrandt; La fede di Tobia era onorata e l'arcangelo Raffaele era venerato come protettore dei viaggiatori e come guaritore. Dopo il ritorno di un figlio dopo un viaggio lungo e pericoloso, un quadro di Tobit e della sua famiglia poteva essere commissionato come ringraziamento, come potrebbe essere stato il dipinto di Rembrandt, anche se piuttosto che il ritorno di una persona amata, la delicata rappresentazione di Tobit e Anna celebra la vecchiaia, la fede e la pazienza. (Mar L8v)

view post Posted: 4/1/2024, 14:46 by: Milea     +1Compianto sul Cristo morto - Rembrandt



Rembrandt Harmenszoon van Rijn (1606 - 1669)
Compianto sul Cristo morto (The Lamentation over the Dead Christ)
1635
olio su carta e parti di tela, montati su rovere - 31,9 x 26,7 cm
National Gallery, Londra


Il corpo di Gesù è stato appena deposto dalla croce: la sua famiglia e i discepoli lo piangono. Maria, sul cui grembo è appoggiato il capo del figlio, è affranta dal dolore; la Maddalena ne abbraccia i piedi martoriati: il momento è noto come il “Compianto”. Alle loro spalle si scorgono dei soldati a cavallo e sullo sfondo le torri di una città, una veduta immaginaria di Gerusalemme.

Rembrandt ha lavorato a lungo su questo piccolo quadro monocromo: iniziò con uno schizzo a olio su carta, poi ne strappò una sezione e montò il resto su tela. Continuò il disegno sulla tela in basso a destra, prima che qualcun altro ampliasse il quadro aggiungendo strisce nella parte superiore ed inferiore.


L’opera è molto probabilmente uno studio per un’incisione che Rembrandt non eseguì mai. Uno degli indizi che attesta questa ipotesi è la posizione dei due uomini che furono crocifissi accanto a Cristo, il cosiddetto Buon Ladrone e il Cattivo Ladrone. Qui il Cattivo ladrone appare alla destra di Cristo, posizione che tradizionalmente era riservata al Buon ladrone. Nella realizzazione di un’incisione, tuttavia, l’intera composizione sarebbe stata invertita. (M.@rt)




Edited by Milea - 4/1/2024, 21:52
view post Posted: 3/1/2024, 18:29 by: Milea     +1DANAE E GIOVE - Giambattista Tiepolo - Tiepolo

Danae_e_Giove_Tiepolo_P

Giambattista Tiepolo (1696 - 1770)
Danae e Giove (Danae and Jupiter)
1736 circa
olio su tela - 41x 53 cm.
Universitet Konsthistoriska Institutionen, Stoccolma


Questa Danae è una delle numerose opere di pittori veneziani contemporanei che vennero acquistate a Venezia dal conte Carl Gustav Tessin, ministro del re di Svezia, giunto tra le lagune nel 1736 con la vana speranza di convincere Tiepolo a trasferirsi temporaneamente a Stoccolma, per decorare il nuovo Palazzo Reale. La favola mitologica (desunta presumibilmente da Giambattista dal “De genealogia deorum gentilium” di Giovanni Boccaccio) narra la vicenda di Danae, figlia di Acrisio, re di Argo, cui un oracolo aveva predetto che sarebbe stato ucciso dal nipote. Per questa ragione il re aveva fatto rinchiudere l’unica figlia in una stanza sotterranea, vigilata dalla vecchia nutrice, ma Giove riesce ugualmente a possederla, tramutandosi in una pioggia d’oro. Dall’unione nascerà Perseo che, dopo varie vicissitudini, ucciderà accidentalmente Acrisio durante una gara di giavellotto.






E’ un tema trattato molte volte dai grandi artisti veneziani cinquecenteschi, in particolare da Tiziano; qui Tiepolo ne dà un’interpretazione più umoristica che sensuale, inserendo gustosi elementi comici, come il furioso battibecco tra l’aquila simbolo di Giove e il cagnolino della principessa, e il particolare di Cupido che solleva il lembo della veste della giovane, che a sua volta sfodera un’espressione profondamente annoiata, ben diversa da quella delle analoghe figure tizianesche di due secoli prima.



Ruolo di primaria importanza ha nel piccolo dipinto la regia luministica, che tende a esibire in tutta la sua giunonica bellezza il nudo femminile; il tocco pittorico è facile e sicuro, raggiungendo una sintesi forma-colore di altissima qualità. (M.@rt)








view post Posted: 3/1/2024, 17:33 by: Milea     +1LA FUGA IN EGITTO SU UNA BARCA - Giambattista Tiepolo - Tiepolo

Tiepolo_fuga_in_egitto_con_la_barcaP

Giambattista Tiepolo (1696 - 1770)
La fuga in Egitto su una barca
1767 - 1770
olio su tela - 57 x 44 cm.
Museu Nacional de Arte Antiga, Lisbona


Tiepolo si trasferì a Madrid nel 1762; durante gli ultimi anni di vita nella capitale spagnola, l’artista realizzò almeno quattro dipinti del tutto simili per dimensioni che, per quanto successivamente dispersi in diverse collezioni, si può ragionevolmente supporre che costituissero in origine un nucleo unitario, di cui forse si sono perduti alcuni elementi. Il tema comune di queste opere era dedicato alle vicende occorse alla Sacra Famiglia quando, per sfuggire al massacro degli Innocenti ordinato da Erode, vengono invitati dall’apparizione di un angelo a cercare scampo in Egitto. I quattro dipinti giunti fino a noi hanno una sequenza narrativa logica, che ha, come fonte letteraria, i Vangeli apocrifi di Tommaso e dello Pseudo-Matteo.



Giambattista Tiepolo
La fuga in Egitto
1767 - 1770 circa
olio su tela - 55,5 x 41,5 cm.
Galleria di Stato di Stoccarda




Nel primo, conservato alle Staatsgalerie di Stoccarda, la Sacra Famiglia, esausta, è giunta in un arido paesaggio montano, fermi davanti al fiume in piena che non riescono a guadare; non si vede alcun ponte per raggiungere la riva opposta. Questa immagine di disperazione è anche un riferimento alla malinconia del pittore stesso. In Spagna Tiepolo era amareggiato dall’intolleranza della Inquisizione, dalla solitudine in un paese lontano e dalla sensazione di avvicinarsi non solo alla fine della propria vita, ma anche alla conclusione di un’intera epoca: il pittore neoclassico Anton Raphael Mengs, un pittore contemporaneo che lavorava a Madrid in quel periodo, era più ammirato dello stesso Tiepolo.





Nel secondo quadro, qui proposto, l’intervento degli angeli permette loro di superare il fiume grazie a una barca che gli angeli stessi conducono sull’altra sponda. Nel terzo, conservato al Met, appaiono gli stessi angeli che si inchinano riverenti davanti a Maria. E’ uno dei suoi dipinti più raffinati: combina un’innovativa composizione asimmetrica, che sfrutta lo spazio vuoto, e una tavolozza fredda animata dai contorni tremolanti del paesaggio, della parete rocciosa, dell’angelo prostrato e della Sacra Famiglia. La Vergine è monumentale mentre avvolge protettivamente il figlio, sovrastando di gran lunga le modeste dimensioni dell’opera. La famiglia è appena scesa dalla barca che li ha traghettati attraverso il fiume Nilo, anche se questa topografia immaginaria sembra più ispirata alle Alpi che all’Egitto.




Giambattista Tiepolo
La fuga in Egitto
1767 - 1770
olio su tela - 60 × 41,3 cm.
Metropolitan Museum of Art, New York




Il quarto dipinto che fa parte della collezione Torre e Tasso a Bellagio, reca invece l’immagine del riposo della Sacra Famiglia durante il periglioso viaggio. Comune sono anche le qualità stilistiche delle splendide opere, contraddistinti dal segno grafico un po’ tremolante che peraltro descrive con cura le figure, dalla qualità luminosissima dei colori lievi, quasi pastello, e dall’ambientazione delle scene all’interno di paesaggi di amplissimo respiro, per lo più caratterizzati da incombenti roccioni, del tutto inusuali nella produzione dell’artista veneziano. (M.@rt)



Giambattista Tiepolo
Riposo durante la fuga in Egitto
1767 - 1770
olio su tela - 60 x 45 cm.
Collezione Torre e Tasso, Bellagio




view post Posted: 1/1/2024, 14:56 by: Milea     +1Anthony van Dyck - I tre figli maggiori di Carlo I - van Dyck

Van_Dyck_I_tre_figli_maggiori_di_CarloI_P

Anthony van Dyck (1599-1641)
I tre figli maggiori di Carlo I
1635
olio su tela - 154 x 151 cm.
Torino, Galleria Sabauda


Il dipinto rappresenta i figli dei sovrani inglesi Carlo I d’Inghilterra e Enrichetta Maria di Francia. Capolavoro assoluto, la tela fu dipinta quale regalo della regina Enrichetta Maria a sua sorella Maria Cristina di Francia, sposa di Vittorio Amedeo I, duca di Savoia, per offrire loro un intenso ritratto dei tre nipoti. Sulla sinistra è effigiato Carlo, principe di Galles, all’età di cinque anni; il primogenito rivolge lo sguardo allo spettatore accarezzando la testa del suo cane, un bellissimo setter spaniel.


Con la restaurazione degli Stuart nel 1660 regnerà come Carlo II, fino al 1685. Il dipinto di Torino, considerato uno dei più incantevoli ritratti di bambini di van Dyck, è particolarmente delicato negli accostamenti cromatici, giocati su tonalità tenui e bilanciate, ed è eccezionalmente raffinato nella resa dei tessuti e degli incarnati.


In una lettera il conte Cisa, ministro del duca di Savoia a Londra, racconta che il re si era infuriato con il pittore per aver vestito i figli troppo da bambini. Lo stesso anno, forse per placare le ire del sovrano, il maestro fiammingo dipinse un nuovo ritratto dei bambini ora conservato nel Castello di Windsor, in cui Carlo indossa un abbigliamento più da adulto. Questa seconda versione, rimasta in Inghilterra, sarà largamente copiata: ne esistono versioni a Dresda, al Louvre, al Metropolitan e in svariate “country houses” isolane.

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Anthony van Dyck
The Three Eldest Children of Charles I
(Nov 1635 - Mar 1636)
olio su tela - 138.8 x 151.7 cm.
Queen’s Gallery, Windsor Castle









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Al centro della scena la bambina di quattro anni è Maria, futura sposa dello Stadhouder d’Olanda, Guglielmo d’Orange, padre di quel Guglielmo d’Orange che sposerà un’altra Maria, figlia di Giacomo II, che regnerà sulle isole britanniche, congiuntamente alla consorte, come Guglielmo III.


Seguendo una consuetudine molto radicata nelle grandi famiglie, fino a due/tre anni i maschietti venivano vestiti come le femmine: un atto scaramantico contro la morte prematura dell’erede. L’effigiato è infatti, Giacomo, duca di York, di appena due anni; stringe tra le mani una mela, probabile simbolo di fecondità. Futuro re come Giacomo II, alla morte del fratello maggiore, regnerà per soli quattro anni: nel 1688 Guglielmo d’Orange, con l’appoggio del Parlamento e il favore degli anglicani, lo sconfiggerà, costringendolo all’esilio.


Le pieghe del tappeto, dovute probabilmente ai continui spostamenti dei piccoli modelli, tradiscono la loro impazienza alle lunghe pose dinanzi al pittore. La rosa, fiore sacro a Venere e attributo delle tre Grazie, probabilmente allude alla bellezza dei fanciulli. Straordinaria appare la capacità del pittore nella resa delle fisionomie e degli abbigliamenti preziosi, della raffinatezza dei pizzi e dei riflessi cangianti delle stoffe, che lo connota come il più importante ritrattista del Seicento presso le corti e le famiglie aristocratiche europee.





Anthony van Dyck dipinse varie volte i figli del re: il primo quadro giunto a noi è del 1632, anno dell’arrivo del pittore a Londra, e raffigura i sovrani con Carlo e Maria, ancora molto piccoli.

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Anthony van Dyck
Carlo I e Henrietta Maria con il principe Carlo e la principessa Mary
(The Greate Peece)
1632
olio su tela - 303.8 x 256.5 cm.
Royal Collection Trust



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Un dipinto del 1637 immortala i tre principini, a cui si sono aggiunti nel frattempo Elisabetta e Anna, in un arrangiamento molto simile a quello dell’opera torinese, alla quale si avvicina per l’alta qualità.



Anthony van Dyck
Portrait of Charles II (1630-1685) as Prince of Wales
1641
olio su tela - 56.3 cm x 107.5 cm.
Collezione privata


Esistono anche ritratti singoli del primogenito e di Maria, datati 1641, anno del matrimonio di quest’ultima, di appena nove anni, con il quattordicenne Guglielmo d’Orange. Nel ritratto a figura intera, la principessa, il giorno dopo la cerimonia, di rito anglicano, indossa un abito rosa decorato con ricami e nastri d’argento, con l’anello nuziale e la collana ricevuta come regalo di nozze.



Anthony van Dyck
Ritratto della principessa Mary (1631-1660)
1641
olio su tela -158.2 x 108.6 cm.
Collezione privata



Il matrimonio ebbe luogo il 2 maggio del 1641 nella Cappella Reale del Palazzo di Whitehall, a Londra, ma non fu consumato subito a causa della giovane età della sposa. Nel 1642 Maria seguì il marito nelle Province Unite accompagnata dalla madre, Enrichetta Maria. Nel ritratto dei due sposi (Marriage portrait) il principe indossa un abito di velluto rosso e Maria il tradizionale abito da sposa color argento.



Anthony van Dyck
Ritratto di Guglielmo II di Nassau-Orange e la principessa Maria
(Marriage portrait)
William II, Prince of Orange, and his Bride, Mary Stuart
1641
olio su tela - 180 x 132.2 cm.
Rijksmuseum, Amsterdam






Di tutte queste tele si contano, come consuetudine, numerose copie, mentre tre dei figli di Carlo I saranno dipinti da Peter Lely, nel 1646, nella tenuta del duca di Northumberland, loro tutore mentre il padre è prigioniero dei parlamentari. (M.@rt)







view post Posted: 1/1/2024, 13:41 by: Milea     +1IL COMBATTIMENTO NELLA PIAZZETTA DELL'ALBERA - Faustino Joli - ARTISTICA

«Lieta del fato
Brescia raccolsemi,
Brescia la forte,
Brescia la ferrea,
Brescia leonessa d’Italia
beverata nel sangue nemico.»
Giosuè Carducci, Alla Vittoria
(Odi Barbare, Libro V, 1877)


Joli-Piazzetta-dell-AlberaP

Faustino Joli (Brescia 1814 - 1876)
Episodio delle Dieci Giornate di Brescia
Il combattimento nella Piazzetta dell’Albera il 31 marzo
sul muro della casa a sinistra: “31 MARZO / 1849”
1849 circa
olio su tela - 32,5 x 41 cm.
Museo del Risorgimento Leonessa d’Italia, Brescia


L’opera fa parte di una celebre serie di quattro tele conservate nelle raccolte dei Civici Musei d’Arte e Storia di Brescia, che immortalano alcuni dei momenti salienti delle eroiche, sfortunate “Dieci Giornate” dell’insurrezione anti austriaca di Brescia, protrattasi dal 23 marzo al primo aprile del 1849: Il popolo radunato in Piazza il 23 marzo, Il combattimento nella Piazzetta dell’Albera il 31 marzo, Incendi e saccheggi a Porta Torrelunga il 31 marzo e La Barricata a San Barnaba in 31 marzo.


Il 31 marzo del 1849 avvenne l’ultima delle disperate e gloriose giornate insurrezionali di Brescia, la “Leonessa d’Italia”: l’ultima città, insieme a Venezia, che capitolerà stremata in agosto, a resistere alla ormai inevitabile e violenta restaurazione del governo austriaco. In questo dipinto, realizzato insieme ad altri quattro dall’artista bresciano in memoria degli avvenimenti e quasi contemporaneamente al loro accadimento, la pennellata rapida e precisa del pittore di genere, paesaggista e autore di vedute urbane, si presta perfettamente all’attenta, commossa testimonianza dell’estrema, eroica resistenza dei bresciani alla soverchiante forza militare nemica, in parte respinta, grazie ad un ingegnoso complesso di barricate, favorite dall’impianto medievale di vicoli e piazze.


In questo dipinto infatti, Joli rappresenta un momento della strenua resistenza dei patrioti alle truppe austriache, che scendevano dal castello attraverso via San Urbano, nei pressi dell’attuale piazzetta Tito Speri. La prospettiva della scena, ben costruita, indirizza lo sguardo dell’osservatore nel vicolo a sinistra, in fondo al quale si intravedono i soldati, in parte caduti e ammassati sul terreno, e in parte in avanzamento.


Sulla destra, invece, protetti dalla lunga muraglia di una casa, sono schierati i bresciani. Alcuni armati si preparano allo scontro, risoluti di fronte alle incitazioni dei compagni, altri trasportano i feriti al riparo, mentre altri ancora, caduti sotto il diretto fuoco nemico, giacciono abbandonati. L’occhio attento del pittore riprende con cura e precisione la ricca varietà di situazioni ed emozioni che permeavano quegli incredibili momenti: il coraggio, il dolore, la pietà fraterna degli insorti, pronti (come narrano le cronache) a lanciarsi in eroico soccorso dei compagni. (M.@rt)






Edited by Milea - 6/1/2024, 14:37
view post Posted: 1/1/2024, 13:33 by: Lottovolante     +1Anthony van Dyck - I cinque figli maggiori di Carlo I - van Dyck




Anthony van Dyck
I cinque figli maggiori di Carlo I
(The Five Eldest Children of Charles I)
1637
Olio su tela
163.2 x 198.8 cm

Persone raffigurate

Carlo II d'Inghilterra
Maria Henrietta, principessa reale
Giacomo II d'Inghilterra
Principessa Anna d'Inghilterra
Principessa Elisabetta d'Inghilterra
Carlo I d'Inghilterra

Windsor Castle, Queen's Gallery


Il magistrale dipinto di van Dyck riconosce sia la giovinezza che lo status dei suoi soggetti reali, rompendo con la precedente tradizione di presentare i bambini reali come adulti in miniatura. Il quadro fu commissionato da Carlo I, ma lasciò la Royal Collection due volte, durante il Commonwealth e sotto Giacomo II, prima di essere riacquistato da Giorgio III nel 1765 e appeso (entro il 1774) negli Appartamenti del Re a Buckingham House. La sintesi raggiunta da van Dyck nel ritratto è stata descritta dall'artista ottocentesco Sir David Wilkie: "La semplicità dell'inesperienza li mostra nel contrasto più accattivante con la potenza del loro rango e della loro posizione, e come gli infanti di Velasquez, uniscono tutta la pudica maestosità della corte, con la perfetta mancanza di arte dell'infanzia".





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L'ammirazione di Giorgio III per i primi Stuart e per l'estetica della corte di Carlo I si riflette in questo acquisto ed egli appende molti dei suoi migliori Anthony van Dyck a Buckingham House. Tuttavia, gli atteggiamenti settecenteschi nei confronti dell'infanzia, considerata sempre più come una fase distinta e innocente della vita, si riflettono in molti dei ritratti dei figli di Giorgio III.





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Il gusto di Giorgio III per van Dyck potrebbe essere stato stimolato da quello del padre, Federico, principe di Galles, che aveva un'alta considerazione per la collezione di Carlo I e aveva acquistato il doppio ritratto di Thomas Killigrew e William, Lord Crofts, di van Dyck nel 1748. Allo stesso modo, l'interesse di Giorgio IV per gli ultimi Stuart e i suoi tentativi di recuperare oggetti associati alla dinastia in esilio potrebbero essere stati ispirati dal padre. (Mar L8v)





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view post Posted: 30/12/2023, 21:34 by: Lottovolante     +1L'ADORAZIONE DEI RE - Vincenzo Foppa - ARTISTICA




Vincenzo Foppa
L'adorazione dei Re
(The Adoration of the Kings)
1500 circa
Olio su tavola di pioppo
238.8 × 210.8 cm
Londra, National Gallery


Al termine del loro lungo viaggio, tre re offrono doni al Bambino Gesù, seduto in grembo alla Vergine Maria. Il loro seguito si snoda attraverso il paesaggio collinare da Gerusalemme, visibile in cima a una collina lontana. Gli abiti sfarzosi dei re, le corone d'oro scintillanti e i doni costosi creano un vivido contrasto con le pareti fatiscenti e il tetto diroccato della stalla che ospita la sacra famiglia.





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Questa è l'"Adorazione dei Re", anche se non è la Palestina del primo secolo quella che vediamo. La stalla è un tempio classico in rovina, forse simbolo della religione pagana che il cristianesimo ha sostituito, mentre le dolci colline e le città sono quelle dell'Europa rinascimentale. Dettagli aneddotici danno vita alla processione. In fondo alla folla, due uomini - uno indossa un berretto di pelliccia, l'altro un cappuccio - hanno un falco al polso. A destra, un giovane paggio su un cavallo grigio ha infilato i piedi nelle staffe perché non riesce a raggiungere le staffe.


Questa pala d'altare è la più grande e imponente dell'eccezionale collezione di dipinti della National Gallery realizzati nella Lombardia del XV e XVI secolo, che comprende opere di Cima da Conegliano, Andrea Solario e Giovanni Antonio Boltraffio. Non sappiamo dove e quando sia stato realizzato, né per conto di chi, ma il disegno e la sontuosa decorazione ricordano opere di Gentile da Fabriano e Jacopo Bellini, allora presenti a Brescia. Molti elementi derivano dalla famosa Adorazione di da Fabriano, realizzata nel 1423 per la cappella Strozzi a Firenze, o forse da una versione precedente da lui dipinta per la cappella del Broletto, a Brescia.





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Ma Vincenzo Foppa era anche chiaramente consapevole degli ultimi sviluppi della pittura olandese. L'intera scena è accuratamente strutturata per concentrare l'attenzione sui doni e su Cristo, con forti verticali formate dal re in piedi e dal cavallo grigio a destra e dalla figura eretta della Vergine a sinistra, prolungata verso l'alto dal pilastro alle sue spalle. Una serie di curve a destra è formata dalla schiena del re inginocchiato, dal re dietro di lui con il mantello rosso e dalla collina che li sovrasta. A queste fa eco la curva del collo del cavallo grigio, bilanciata dalla curva dell'arco al centro.





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La regressione è suggerita dalla diminuzione degli edifici in cima alla collina e dalla strada che procede a zig zag, ma anche dalla graduale dissolvenza dei colori. I blu e i rossi più forti sono utilizzati in primo piano, mentre i verdi e i marroni sono più tenui per il paesaggio, che sfuma infine in lontane colline blu. Architetture in rovina, abiti sontuosi e una costruzione gL'indagine tecnica ci ha detto molto sulla flessibilità delle tecniche di Foppa e sulla varietà dei suoi metodi. Alcune figure sono state disegnate a mano libera, ma per molte teste ha utilizzato anche i cartoni a rilievo. Il quadro è eseguito sia a olio che a tempera all'uovo. Alcune aree dorate - le corone, i collari e i doni - sono costruite in pastiglia ricoperta d'oro brunito.





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L'indagine tecnica ci ha detto molto sulla flessibilità delle tecniche di Foppa e sulla varietà dei suoi metodi. Alcune figure sono state disegnate a mano libera, ma per molte teste ha utilizzato anche i cartoni a rilievo. Il quadro è eseguito sia a olio che a tempera all'uovo. Alcune aree dorate - le corone, i collari e i doni - sono costruite in pastiglia ricoperta d'oro brunito. In origine il dipinto doveva essere ancora più colorato. Il mantello della Vergine sarebbe stato di un blu brillante, ma ha perso lo strato superiore di pigmento ultramarino. Alcuni volti hanno assunto una tonalità grigio-argentea a causa dello sbiadimento del pigmento rosso lacustre. (Mar L8v)





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view post Posted: 30/12/2023, 19:42 by: Milea     +1LA STORIA DELLA PARRUCCA - CAFFE' LETTERARIO

La storia della parrucca




Nicolas de Largillière (Parigi, 1656 - 1746)
Ritratto di un uomo in abito viola (Portrait of a Man in a Purple Robe)
1700 circa
olio su tela - 79,5 x 62,5 cm.
Museumslandschaft Hessen , Kassel (Germania)


Anticamente la parrucca era un accessorio indossato fin dall’antico Egitto da uomini e donne, non necessariamente per compensare la perdita dei capelli, ma principalmente come segno di status. In Europa, l’origine di questa usanza, intorno a fine Seicento, fu dovuta alla sifilide: William Clowes, medico del XVII° secolo, scriveva di una “moltitudine infinita” di pazienti sifilitici che a quel tempo intasavano gli ospedali di Londra. I segni della malattia includevano, oltre a ferite aperte, eruzioni cutanee, cecità e demenza, anche la perdita di capelli a chiazze, problema piuttosto imbarazzante, poiché una testa calva danneggiava la reputazione di una persona.


Ma oltre alla moda e all’eccezione dei malati di sifilide, la più importante ragione era legata ai pidocchi. Nel Seicento e nel Settecento, soprattutto in Francia, i capelli veri erano generalmente molto sporchi e pieni di questi insettini, poiché si credeva che lavarsi il corpo e i capelli favorisse il passaggio delle numerose malattie attraverso la dilatazione dei pori della pelle e del cuoio capelluto causata dall’acqua calda. Per questo, i bagni erano rarissimi anche presso la nobiltà, e dunque la parrucca aveva lo scopo di nascondere i vari problemi che i capelli presentavano, assieme alla loro tintura con pomate che ne coprissero il vero colore e l’untuosità.



Hyacinthe Rigaud
Ritratto di Luigi XIV con gli abiti dell’Incoronazione
1701
olio su tela - 277 × 194 cm.
Museo del Louvre, Parigi


La moda iniziò durante la Guerra dei Trent’anni (1618 - 1648) che determinò un netto cambiamento del vestire maschile. A partire dagli anni Trenta del Seicento infatti, tutti gli uomini predilessero abiti in stile militaresco, portando con pose spavalde cinturoni, lunghe spade e pesanti stivali in cuoio. Trionfò la mascolinità bellicosa, e si voleva a tutti i costi esibire un rude aspetto guerresco, oltre che nel vestito, anche nell’abbondante peluria, emblema evidente di virilità.


Oggetto di leggi, divieti, pene, ma anche di uno sconfinato interesse, nel Settecento si diffuse ampiamente l’uso della parrucca maschile. Fu infatti in questo periodo che questa moda ebbe la sua massima espressione, nata in Francia nella seconda metà del Seicento, sotto il Re Sole, Luigi XIV (1638 - 1715), che avendo perduto tutti i capelli a causa di una febbre violentissima, che lo colpì in giovane età, iniziò in età adulta a portare una parrucca del colore dei suoi veri capelli (nero corvino) e a imporre tale usanza presso tutti i suoi cortigiani, sia uomini che donne. La consuetudine di portare la parrucca non era una novità tra i reali; infatti già suo padre, Luigi XIII (1601-1643), aveva iniziato a indossarla per nascondere la calvizie che lo aveva colpito intorno ai trentacinque anni.



Philippe de Champaigne
Luigi XIII
1635
olio su tela - 108 x 86 cm.
Museo del Prado, Madrid




Anche la regina Elisabetta I d’Inghilterra (1533-1603), avendo perso la sua capigliatura fulva a causa di una misteriosa febbre, usava portarne una rossa e ricciuta, che aveva però un aspetto innaturale, poiché la fronte appariva quanto mai ampia, come rasata, essendo l’attaccatura dei capelli molto alta.



Johannes Corvus
Queen Elizabeth I (Ritratto di Darnley)
1575 circa
olio su tavola - 113 x 78,7 cm.
National Portrait Gallery, Londra




Nel Seicento la Francia, grazie alla stabilità politica e alle sue numerose colonie apportatrici di ricchezze dal Nuovo Mondo, era vista come il Paese più fiorente di tutta l’Europa, oggetto di ammirazione da parte di tutte le altre nazioni, centro del buon gusto europeo. Fu così che, per emulare la moda francese, l’utilizzo della parrucca si propagò presto in tutto il continente europeo e progressivamente nel resto dell’Occidente, soprattutto nel XVIII° secolo. Inizialmente, la parrucca aveva semplicemente il compito di sostituire la “capigliatura” andata perduta, ma nel Settecento iniziò ad essere considerata dai sovrani qualcosa di più: un “accessorio” raffinato, un completamento dell’abbigliamento con cui manifestare tutto lo sfarzo e la propria vanità, anche se si avevano ancora i capelli.



Nicolas_de_Largillierre (1656–1746)
Ritratto di due consiglieri di Parigi in carica nel 1702
Hugues Desnotz, a destra, e uno sconosciuto, presumibilmente Boutet, a sinistra
(frammento del ritratto collettivo del Bureau de la Ville)
(Portrait de deux échevins de Paris)
1704
olio su tela - 119,5 x 152 cm.
Musée Carnavalet, Histoire de Paris, Parigi




Le parrucche più utilizzate erano inizialmente coperte di cipria bianca, capace di conferire un aspetto luminoso ed angelico, ma nel Settecento iniziarono ad apparire anche parrucche colorate di rosa, di viola, di grigio e di marrone.



Pier Leone Ghezzi (1674 -1755)
Autoritratto con parrucca
1747
olio su tela - 67 × 49 cm.
Accademia Nazionale di San Luca


L’uso della parrucca appare a Venezia per la prima volta nel 1688, portata dal conte Scipione Vinciguerra da Collalto e fu subito polemica. Nello stesso anno, il Consiglio dei Dieci emanò un decreto con cui se ne proibiva l’uso a qualsiasi magistrato nell’esercizio delle sue funzioni e con la toga. Ma i dipinti dei pittori veneziani documentano quanto in realtà il decreto fu disatteso e persino nello stesso Consiglio dei Dieci sono ritratti da Gabriel Bella dei magistrati in parrucca.



Gabriel Bella (Venezia, 1720 - 1799)
La Sala del Consiglio dei Dieci
Palazzo Ducale, Venezia


Non tutti adottarono questa acconciatura, ma anzi si registrarono atteggiamenti di forte dissenso, come quello del nobiluomo Erizzo che diseredò per questo motivo il figlio, o quello del nobiluomo Correr che fondò un’associazione contro l’uso della parrucca, di duecentocinquanta membri, che poco alla volta si assottigliò fino a che rimase lui solo. Le parrucche, oggetto molto comodo perché evitavano lunghe sedute dal parrucchiere, erano composte di capelli veri (meglio se biondi) di contadini toscani o parmensi, perché ritenuti più robusti, cuciti su una sottile tela sorretta da leggeri fili di ferro. Entrata nelle case reali fu da qui abbracciata da quasi tutta la popolazione che, dati i costi, se la poteva permettere; la gente più modesta doveva accontentarsi di peli di pecora e capra, crine di cavallo o coda di bue. La Repubblica di Venezia emise un forte dazio sull’importazione dei capelli, lucrando su una usanza che si stava diffondendo nonostante i divieti: non riuscendo a proibirla si pensò di tassarla.



Pier Leone Ghezzi
Autoritratto con parrucca (dettaglio)


Mentre in Francia i capelli veri sotto la parrucca venivano completamente rasati, a Venezia si rasava solamente metà testa, appiattendo i restanti capelli “con pastrocci (pasticci) vari, ma di così perfetta invenzione di speziale (il farmacista dell’epoca), che basta lavarseli con acqua bollente e sapone o liscia (lisciva) e tornano come prima”, secondo quanto si legge su un documento settecentesco.

Le parrucche erano di diversa lunghezza e inizialmente anche di diverso colore, tra i quali prevaleva il bianco ottenuto cospargendola di cipria, che veniva soffiata da un servitore in un apposito stanzino e polverizzata con un piccolo mantice, mentre il volto e il corpo erano protetti con un accappatoio e un cono copriva la faccia.



Philibert Louis Debucourt (1755-1832)
La toilette del Procuratore
(La Toilette d’un Clerc Procureur)
incisione su carta
Trinity College Library, Dublino



Anche le acconciature erano molte e, nel 1769, il parrucchiere Bartelemi, autore di una specie di prontuario dell’acconciatura, ne elencava ben quarantacinque tipi diversi. Nella seconda metà del secolo alla parrucca più lunga si affiancò, per poi prevalere, quella corta, aderente alla testa con due o quattro boccoli piatti ai lati e una coda raccolta da un nastro.



Maurice-Quentin de La Tour (1704 - 1788)
Autoritratto con volant in pizzo
1750 circa
pastello su carta - 64,5 x 53,5 cm.
Musée de Picardie, Amiens


La conseguenza dell’uso di un tale oggetto influenzò la produzione della cipria, le cui manifatture vennero allontanate dal centro storico di Venezia dal Magistrato alla Sanità perché troppo inquinanti, ma anche sulle infinite truffe con le quali individui di pochi scrupoli sostituirono la cipria fatta di farina di riso, utilizzata anche per scopi sanitari, con polvere di gesso, amido mescolato con polvere profumata, farina di grano, legno tarlato, osso bruciato o addirittura calcina. Il principe Francesco I di Modena, invece, si faceva spruzzare polvere d’oro in testa.



Nicolas de Largillière (1656-1746)
Autoritratto
1711
olio su tela - 65 x 81 cm.
Reggia di Versailles (Musée National du Château)


Durante tutto il Settecento fino alla Rivoluzione francese, la moda della parrucca continuò a contagiare gli uomini e successivamente le donne e i bambini. Chi poteva permettersi il parrucchiere personale era esigentissimo: Vittorio Alfieri stesso raccontava di aver lanciato un candeliere contro il domestico che gli aveva inavvertitamente tirato una ciocca di capelli. Meno problematiche le parrucche femminili, che si accostarono a questo accessorio con un certo ritardo: fino alla fine del secolo, furono corte, piatte sulla testa e assolutamente bianche, come testimoniano i numerosi dipinti.



Élisabeth Vigée Le Brun
Marie Antoinette in Court Dress
1778
olio su tela - 273 x 193,5 cm.
Kunsthistorisches Museum, Vienna




La moda cambiò drasticamente quando Leonard, il parrucchiere personale di Maria Antonietta d’Austria, moglie di Luigi XVI di Borbone e re di Francia, acconciò la regina con capelli rialzati artificiosamente più di mezzo metro sul capo, frammischiandoli con nastri di velo. Questa acconciatura, detta pouf o tuppè, fu di moda dal 1770 per circa dieci anni. Le donne europee impazzirono per la nuova foggia: Carolina Maria d’Austria, regina di Napoli, chiese ed ottenne che Leonard venisse di persona, nella convinzione che i parrucchieri della città non possedessero la sua abilità.

Il tuppè era una vera e propria parrucca, fatta solo in parte coi propri capelli; aveva un’armatura ondeggiante, nascosta dai capelli, di filo metallico ed era imbottito da un cuscinetto di crine di cavallo coperto con capelli veri e finti, pettinati in modo da formare una sorta di piramide. L’acconciatura, su cui venivano inseriti numerosi oggetti, era poi fissata con lunghi spilloni.



Joseph Boze (1745 - 1826)
Maria Giuseppina Luisa di Savoia (1753–1810) contessa di Provenza in abito bianco
1786
olio su tela - 191,5 x 134 cm.
Hartwell House, Buckinghamshire



Tutto ciò era scomodo e malsano, sia perché portato su capelli non lavati, ma tenuti in piega da oli e pomate profumati, sia perché attirava inevitabilmente ogni tipo di parassita. Tuttavia l’aspetto più sconcertante erano le incredibili decorazioni che vi venivano appoggiate sopra. La fantasia non aveva limiti: palme, pappagalli, ghirlande d’amore, scale a chiocciola di pietre preziose, navi con le vele al vento spiegate (à la belle poule). Nomi e nomignoli francesi distinguevano i diversi modelli: à la monte du ciel, di altezza vertiginosa, alla cancelliera, alla flora, piena di fiori, al vezzo di perle (ovviamente circondata da giri di perle) à la Turque, à le Figaro, à piramide. Famosi erano i "pouf au sentiment", letteralmente “sgabello dei sentimenti” in cui nella parrucca, considerata come una sorta di altarino, si metteva in mostra ciò che si amava: così chi si sentiva vicino alla natura poneva sulla testa fiori, piante frutta e animaletti imbalsamati, chi pensava alla famiglia sfoggiava i ritratti del marito e dei figli, chi era legato alla patria esponeva orgogliosamente coccarde tricolori.



Coiffure à la Belle-Poule


L’acconciatura era studiata per stupire, sfruttando persino la cronaca del giorno e la manifestazione dei propri sentimenti pur di attrarre teatralmente l’attenzione. Per fare un esempio, quando i fratelli Montgolfier nel 1783 alzarono per la prima volta su Parigi il primo pallone aerostatico, si inventò la “parrucca alla mongolfiera”. Nel frattempo l’altezza di queste strabilianti acconciature aumentò sempre di più, fino a raggiungere il metro, al punto che si diceva che una signora alla moda non riuscisse ad entrare in carrozza se non in ginocchio.



Antoine-François Callet (1741 - 1823)
Maria Teresa Luisa di Savoia (Torino, 1749 - Parigi, 1792), principessa di Lamballe
1776 circa
olio su tela - 214 x 158 cm.
Reggia di Versailles (Musée National du Château)




I parrucchieri ovviamente beneficiarono della moda del tuppè; solitamente uomini, frequentavano anche le abitazioni ed erano ammessi nella stanza più intima della signora, il boudoir. Venivano quindi a conoscenza di tutti i segreti e i pettegolezzi, e non di rado facevano da tramite a tresche amorose. Oltre ai parrucchieri c’erano anche le pettinatrici, dette a Venezia “conzateste”, seppur di minore importanza dei loro colleghi maschi.



Maria Giovanna Battista Clementi (Clementina)
Ritratto di Michele Antonio Saluzzo
(a quattro anni a figura intera con il suo cane)
1734
olio su tela - 86,5 x 51 cm.
Collezione privata


Con la Rivoluzione francese, la parrucca scomparve, almeno in Francia: era uno dei simboli dell’odiata aristocrazia, e uscire coi capelli incipriati era decisamente rischioso, poiché si poteva finire sulla ghigliottina. Nel resto d’Europa rimase ancora per qualche tempo, per trasferirsi poi sulla testa dei valletti. Solo i reazionari più accaniti continuarono a portarla, guadagnandosi il soprannome di “codino”. (M.@rt)


view post Posted: 29/12/2023, 21:31 by: Lottovolante     +1LA MADONNA DEL ROSARIO - Francesco Solimena - ARTISTICA




Francesco Solimena
La Madonna del Rosario
(The Madonna of the Rosary)
1680 circa
Olio su tela
273 x 197,5 cm
Berlino, Gemäldegalerie, Staatliche Museen


La pala d'altare della Madonna del Rosario di Solimena, acquisita nel 1971, è il secondo grande maestro della pittura napoletana alto e tardo barocca ad essere rappresentato nella collezione insieme a Giordano, di cui la Pinacoteca riunita possiede oggi sette opere. Da segnalare anche i due dipinti del contemporaneo di Solimena, un po' più anziano, Paolo De Matteis, e il quadro del suo importante allievo e successore Francesco De Mura. Dall'inizio degli anni Novanta, quando Giordano si recò a Madrid per dieci anni come pittore di corte nel 1692, e soprattutto dalla morte di Giordano nel 1705, Solimena era diventato la personalità artistica assolutamente dominante sulla scena artistica napoletana. "La Madonna del Rosario" è un'opera giovanile dipinta intorno al 1680, quasi due decenni dopo il "San Michele" di Giordano.


A quell'epoca Solimena non aveva ancora sviluppato lo stile freddo e classicista-accademico e la tavolozza di colori scuri e freddi che sarebbero diventati tipici per lui. Lo stile della "Madonna del Rosario" e delle opere affini del 1680 circa è invece caratterizzato da colori brillanti e luminosi, con un'enfasi sul bianco e sul rosso chiaro, da forme fiorite e gonfie, da un modellato sciolto, da una pittura molto impastata e da una pennellata fluida, sintomi stilistici in cui si nota l'influenza di Luca Giordano e Pietro da Cortona, attivi a Roma e a Firenze. "La Madonna del Rosario", ovvero la Madonna con il Bambino che porge il rosario a San Domenico, fondatore dell'ordine domenicano, mentre Santa Caterina da Siena, la più importante santa donna dell'ordine, adora con fervore il Bambino, deve essere stata realizzata come pala d'altare per la cappella del rosario di una chiesa domenicana.


La rappresentazione pittorica della Madonna del Rosario apparve alla fine del XV secolo, ma si diffuse solo nel corso del XVI secolo, soprattutto dopo che papa Gregorio XIII istituì la festa del Rosario (1573) in ricordo della vittoria sui Turchi a Lepanto (1571). Mentre le raffigurazioni in tutta Italia nel XVI secolo e anche nel XVII secolo fuori Roma mostrano la Madonna con una moltitudine di figure adoranti, Solimena si limita ai due santi principali, il fondatore dell'ordine e Santa Caterina da Siena (1347-1380, canonizzata nel 1461). Lo schema compositivo con due soli santi divenne presto predominante nella pittura romana. A Napoli questa tipologia fu introdotta dal pittore Giovanni Lanfranco, che aveva lavorato a Roma dal 1602 al 1633 e si era trasferito a Napoli nel 1634.





Luca Giordano
San Michele
(Saint Michael)
1663
Olio su tela
196.2 x 146.9 cm
Berlino, Gemäldegalerie, Staatliche Museen



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Giovanni Lanfranco
Madonna con il Bambino in trono con i Santi Domenico e Gennaro
(già Sant'Anselmo e Sant'Ugo o San Bruno)
1638
Olio su tavola
300 x 250 cm
Afragola, Chiesa del Rosario


La sua pala d'altare della Madonna in trono con due santi certosini (che si rifà alla sua Madonna del Rosario di Perugia), destinata alla Certosa di San Martino a Napoli e ora ad Afragola, divenne il prototipo a cui si rifece anche Solimena nel suo dipinto berlinese. Le analogie si riscontrano anche per quanto riguarda il grande panneggio rosso, che nel dipinto di Lanfranco è sostenuto da un grande angelo in alto a sinistra. Solimena aveva originariamente dipinto un angelo simile in un luogo simile. Con la mano sinistra tiene un rosario sulla testa di Maria; un altro putto volante stava lavorando sul panneggio più a destra. La radiografia mostra chiaramente entrambe le figure. (Mar L8v)



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