Milano insolita e segreta [FOTO], Collezioni private, sculture e simboli misteriosi

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Milano insolita e segreta

Collezioni private, sculture e simboli misteriosi





L’organo di Mozart, il padiglione Reale alla Stazione Centrale o la statua medievale di una ragazza che si rade il pube in pubblico, misteriosi simboli nascosti per la città, pugili scolpiti sul tetto del Duomo, una biblioteca quattrocentesca i cui affreschi sono ancora visibili, una chiesa progettata da Leonardo da Vinci.

E quanti milanesi sanno che in cima al Duomo è possibile scorgere alcune piccole sculture che ritraggono personaggi famosi degli anni '20 come i pugili Primo Carnera ed Erminio Spalla, ma anche un volto del Duce ritoccato con i ricci?

Sono solo alcuni dei luoghi più inaspettati e curiosi illustrati dalla guida "Milano insolita e segreta" di Massimo Polidoro (disponibile anche in francese, inglese e spagnolo, edita da Jonglez ), che racconta, tra le altre cose, anche come è possibile visitare gli atelier di artisti e designer solitamente chiusi al pubblico o, ancora, scoprire alcune collezioni private eccezionali.

Lontano dalle folle e dai cliché abituali, Milano è una città che possiede uno dei più importanti patrimoni culturali della penisola. Tuttavia, rivela i suoi tesori nascosti solo ai più curiosi o ai viaggiatori che abbandonano i sentieri più battuti. Ecco alcuni dei luoghi raccontati da questa guida.








Edited by Milea - 21/10/2016, 16:44
 
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Un angolo di Barcellona a Milano




Una straordinaria costruzione ad angolo che ricorda un incrocio tra gli ornamenti Liberty di Coppedè e il modernismo catalano alla Gaudì, dando vita a un originale spicchio di Barcellona in pieno centro di Milano: si tratta di Palazzo Berri-Meregalli, capolavoro dell’architetto Giulio Ulisse Arata, edificato tra il 1911 e il 1914. L’edificio s’impone come un monumento, quasi un museo di stili all'aria aperta.

L’ecclettismo di Arata, infatti, lo portò a mescolare elementi tratti dal romanico (le pietre, i mattoni a vista, gli archi, le logge), dal gotico, dal Rinascimento e in parte anche dal tardo stile Liberty, riconoscibile nei putti in cemento, nei gargoyles, negli affreschi, negli inserti a mosaico e nei ferri battuti “a riccio” opera di Angelo Mazzucotelli. Chiedendo il permesso al custode, è possibile oltrepassare la cancellata in ferro battuto, che ricorda la grata di un castello medievale, e ammirare lo spettacolare androne fatto di marmi, bugnati, archi in cotto, soffitti a cassettoni e mosaici multicolori realizzati da Angiolo D’Andrea: si direbbe quasi una cattedrale bizantina. In fondo all’ingresso, infine, è conservata una preziosa scultura di Adolfo Wildt: una testa di donna con un velo e un paio di ali, chiamata infatti la “Vittoria alata”.













































Edited by Milea - 4/7/2021, 12:35
 
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Il tetto dell'Armani Hotel


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L’hotel milanese a cinque stelle di Giorgio Armani occupa un intero isolato, tra Via Manzoni e Via dei Giardini. Elegantissimo, si sviluppa su otto piani, sopra tre piani di negozi, ristorante e caffè. La cosa più straordinaria dell’albergo è però la sua forma. Lo stilista è riuscito infatti a fare di un edificio un marchio, ben impresso nel tessuto urbano di Milano. La pianta del palazzo, infatti, forma una gigantesca “A”.







Edited by Milea - 4/7/2021, 12:38
 
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“Binario 21”:
la partenza dei deportati





Quattro vecchi carri bestiame risalenti alla Seconda Guerra Mondiale. Un binario all’altezza della strada di Via Ferrante Aporti, lungo il lato orientale della Stazione Centrale. È il luogo del “Binario 21”, dal quale partivano da Milano i deportati ebrei, senza conoscere la destinazione del viaggio. Venivano mandati nei campi di raccolta italiani di Fossoli o Bolzano o, più spesso, nei luoghi tristemente noti di Auschwitz, Mauthausen, Bergen-Belsen.

La sua posizione, allo stesso livello della strada, lo rendeva invisibile a chi transitava per la stazione, saliva o scendeva dagli altri treni: nessuno si doveva accorgere di quello che stava accadendo.

I cittadini ebrei, uomini, donne e bambini, provenienti spesso direttamente dal carcere di San Vittore, venivano stipati nei carri, i quali venivano poi chiusi, sigillati e issati con un montavagoni al livello degli altri binari, quindi agganciati alla locomotiva. Iniziava così il drammatico viaggio, che durava molti giorni. Da qui partirono di sicuro almeno 20 treni, ognuno dei quali trasportava centinaia di persone. Si tratta con ogni probabilità dell’unico luogo, tra i molti in Europa da cui partirono i treni dei deportati, a essere rimasto intatto. Oggi è la sede del Memoriale della Shoah di Milano, non solo un museo ma anche luogo di confronto, studi, ricerca.


 
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Il pozzo del martirio di San Calimero








Sul fondo dell’antica chiesa di San Calimero (edificata nel V secolo dove forse sorgeva un tempio al dio Apollo, e rimodernata nel 1882), si aprono ai lati dell’altare maggiore due cancelletti che conducono alla cripta cinquecentesca. Interamente affrescata dai Fiammenghini, due fratelli pittori della Milano rinascimentale, la cripta conserva un altare-tomba che custodisce i resti di Calimero, quarto vescovo di Milano di cui si sa poco o nulla. Quando nel VIII secolo, per volere del vescovo Tomaso, la cripta che conservava le ossa venne aperta, fu trovata allagata, fatto non particolarmente anomalo vista la quantità di canali che attraversano il sottosuolo di Milano. Fu forse lo stesso Tomaso a far costruire il pozzo ancora presente (e funzionante) nella cripta per fare defluire l’acqua.

Una lapide sul muro dietro il pozzo ricorda questi episodi, ma non descrive Calimero come un martire. Fu più tardi che nacque la leggenda secondo cui Calimero sarebbe stato martirizzato dai pagani, da lui perseguitati, e poi gettato in fondo a un pozzo come segno di spregio per il battesimo che lui stesso imponeva a ogni romano o pagano che incontrasse. Più o meno allo stesso periodo risale la credenza che le acque del pozzo fossero miracolose. Per questo, il 31 luglio, giorno della festa di San Calimero, si era soliti far bere l’acqua del pozzo agli ammalati per aiutarli a guarire. Inoltre, in periodi di siccità, durante la messa, il sacerdote era solito raccogliere acqua dal pozzo per versarla poi sul sagrato come in un rituale propiziatorio.







 
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Il "cavallo di Leonardo"



E' un enorme cavallo di bronzo alto 7,20 m., lungo 8 e pesante 15 tonnellate. Ideato da Leonardo Da Vinci, la sua realizzazione ha richiesto 500 anni esatti. La storia comincia nel 1482, quando Ludovico il Moro incarica Leonardo di costruire “la più grande statua equestre del mondo” per rendere omaggio al padre, Francesco Sforza.

Leonardo si dedica al progetto, studia i cavalli dal vivo e realizza i disegni preparatori. Inizialmente vuole che il cavallo sia impennato nell’atto di abbattersi sul nemico; poi, le dimensioni spropositate e la complessità della realizzazione inducono il maestro a cambiare idea. Il cavallo sarà scolpito mentre è al passo e per il 1491 Leonardo ha completato un modello di creta alto sette metri. Tutto è pronto per la colata di metallo, ma le 100 tonnellate di bronzo necessarie non ci sono più: usate per realizzare cannoni con cui difendersi dall’invasione dei francesi di Luigi XII. Quando alla fine le truppe invadono Milano, i soldati prendono di mira il cavallo usandolo come tiro a segno e lo distruggono.

Nel 1506 Leonardo, di ritorno a Milano, accetta di realizzare una nuova statua equestre per la tomba monumentale di Giacomo Trivulzio, che aveva comandato le truppe francesi all’ingresso di Milano, ma nemmeno questa vedrà mai la luce. Dopo mezzo millennio, nel 1977, Charles Dent, un ex pilota americano appassionato d’arte, si entusiasma quando viene a conoscenza della storia e decide di coronare il sogno di Leonardo.

Impiega 15 anni a raccogliere il denaro necessario per l’impresa, circa 2,5 milioni di dollari, e muore prima che sia finita. Nel 1999 finalmente il cavallo di bronzo vede la luce grazie alla scultrice Nina Akamu. Donato alla città di Milano, come voleva Leonardo e com’era nelle intenzioni di Dent, viene sistemato all’ingresso dell’ippodromo, considerato il luogo più adatto (nonostante non manchino le polemiche). Non è certamente “il cavallo di Leonardo” ma è senz’altro simile ai disegni da lui realizzati e, dunque, al di là del valore artistico, va visto come un omaggio al grande genio del Rinascimento.
















Edited by Milea - 4/7/2021, 12:42
 
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Il museo del manifesto cinematografico





Nel 2013 è stato inaugurato un museo interamente dedicato a tutto ciò che è cinema “su carta”: manifesti, locandine, foto di scena, foto buste, soggettoni, affiches pubblicitarie, per un totale di oltre 150.000 pezzi esposti. Ospitato in uno stabile industriale d’epoca interamente ristrutturato, nella storica Via Gluck resa celebre da Adriano Celentano, il museo permette al visitatore di immergersi in un mondo fatto di immagini colorate, a volte anche più suggestive dei film che rappresentano. Il viaggio inizia già dalla strada dove un grandioso murales, realizzato dal writer FabioAcme107, riprende i più famosi manifesti cinematografici della storia. All’interno vi è un grande spazio diviso in due sezioni: una sala convegni e una dedicata alle mostre temporanee.

La prima, che comprende anche una biblioteca ricca di centinaia di testi e monografie sul cinema e aperta agli studiosi, ha le pareti interamente ricoperte di manifesti, dal più antico (I misteri di Parigi del 1924) fino ai più recenti blockbuster. La seconda sala, ancora più suggestiva, ospita le mostre dedicate ai grandi temi: Liz Taylor, Dracula e i vampiri, Star Wars… Mostre che prevedono l’esposizione non solo di manifesti legati al tema, ma anche di oggetti di scena, modellini, ricostruzioni, memorabilia e cimeli provenienti spesso da collezioni private e finora mai presentati al pubblico. Completa il percorso un bookshop e una speciale caffetteria, il “Caffè degli ignoranti”, dedicata proprio ad Adriano Celentano, con le locandine dei suoi film, i manifesti, i dischi originali, i video delle sue partecipazioni televisive e i testi delle sue canzoni più famose, scritti sui tavolini e sui muri.







 
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Una cripta che divenne mausoleo
ai caduti delle Cinque Giornate







Arrivando da Via Sforza o dal cortile dell’Università Statale, s’incontra una porticina aperta su una scala che scende nel sottosuolo. Ci si viene così a trovare sotto la Chiesa dell’Annunciata, edificata nel 1637, dove ha sede la cripta. La struttura, a campate poggianti su pilastri, è scandita da volte a botte ribassate e da ampie volte a crociera. Sotto la cripta si trovava il sepolcreto dell’Ospedale Maggiore e si calcola che tra il 1473, quando l’ospedale iniziò la sua attività assistenziale, e il 1695, quando non furono più autorizzate le sepolture entro le mura, trovarono sepoltura qui circa 500mila milanesi. Tuttavia, in tempi più recenti le camere sepolcrali furono ripristinate.

Nel 1848, infatti, durante le Cinque Giornate di Milano, con la città assediata dalle truppe austriache, era impossibile raggiungere i cimiteri. Trovarono così posto qui i 141 caduti durante i combattimenti. I loro nomi sono ancora oggi visibili sulle pareti, insieme ad alcune iscrizioni commemorative dettate da Andrea Verga e alle ultime tracce di alcuni affreschi realizzati da Paolo Antonio de Maestri, detto il Volpino, risalenti al 1638 (le tracce maggiori si trovano nella parete di fondo verso il cortile). La Cripta divenne un luogo di celebrazione dei patrioti milanesi e nel 1860 fu trasformato in mausoleo cittadino.

Quando però nel 1895 i resti dei caduti vennero trasferiti nel Monumento alle Cinque Giornate, nella piazza omonima, la cripta fu abbandonata. La visita alla Cripta (oggi restaurata), resa possibile dai volontari del Touring Club Italiano, comprende un lapidario, composto da epigrafi e da frammenti di monumenti funebri, tra cui la statua di una bambina. E’ in via di allestimento anche un museo di antichi strumenti chirurgici.










 
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Il giardino nascosto
dell'hotel Sheraton Diana Majestic





Se nel centro di Milano è facile trovare qualche bel cortile dietro un portone, meno visibili invece sono i giardini dei palazzi, soffocati da costruzioni o protetti da impenetrabili cancelli che poco spazio concedono allo sguardo. Nella zona di Porta Venezia, poco lontano da quel grande parco pubblico che sono i Giardini Montanelli, se ne nasconde uno davvero segreto.



L’ingresso è quello dell’Hotel Diana, al numero 42 del trafficato Viale Piave da dove, oltrepassata la reception, si può accedere liberamente al dehors dell’hotel. Dalla grande vetrata semicircolare sulla quale dà il bar dell’albergo già si intuisce la meraviglia del folto giardino al centro del quale si erge una statua di Diana nel mezzo di un piccolo specchio d’acqua.

La statua della dea protettrice delle fonti e dei boschi ornava l’ingresso della prima piscina pubblica di Milano, aperta nel 1842 in una zona verdissima, subito fuori dai Bastioni di Porta Orientale (attuale Piazza Oberdan). Quasi per gioco, i Bagni di Diana (così fu battezzata la piscina in onore della dea) non erano accessibili alle donne, ma soltanto agli uomini, che avevano a disposizione un’enorme piscina, trampolini, cabine e una balconata da dove osservare i bagnanti. Le acque provenivano dalla Roggia Gerenzana, che scorreva poco distante e derivava dal vicino Naviglio della Martesana. La vasca fu coperta definitivamente nel 1908, quando al suo posto l’architetto A. Manfredini progettò, secondo la moda francese in voga al momento, un luogo di svago e intrattenimento che ebbe subito grande successo.

Il nuovo Kursaal Diana comprendeva un ristorante, una sala da ballo, un moderno hotel dotato di luce elettrica, camere con bagno, telefono ai piani e ascensore doppio, per il trasporto separato di ospiti e bagagli. Vi si aggiunse uno sferisterio per il gioco della pelota, poi convertito in una nuovissima pista di pattinaggio. A questo gioioso centro di divertimento s’ispirarono anche i decori liberty dell’edificio: fiori di papavero capaci di provocare l’oblio dei sensi. Il Kursaal, cui Mussolini diede in seguito il nome italiano di Diana Maestoso, divenne famoso per l’attentato del 1921 che devastò il grande teatro che ora chiude il giardino su un lato, seminascosto dalle fronde generose di uno spettacolare e profumato glicine.








Edited by Milea - 4/7/2021, 13:06
 
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Un gatto di lamiera che osserva i passanti




Il viavai di passanti è sempre intenso, in questo tratto di Corso Monforte, a due passi dagli uffici della Provincia e dalla Prefettura. Eppure, nessuno sembra mai accorgersi del piccolo testimone che osserva tutti incuriosito e silenzioso. Nascosto nella finestra del seminterrato, accanto all’uscio del civico 43, un gatto in lamiera, dai lunghi baffi e la coda arrotolata sull’inferriata, sta infatti in paziente attesa. Il palazzo che lo ospita, in stile Liberty, risale ai primi del Novecento e presenta sulla facciata un pittoresco pot-pourri di mattoni e archi ciechi. Inoltre, alzando gli occhi al terzo piano, è possibile scorgere sei figure femminili ispirate a modelli medievali, dipinte ai lati delle finestre. Forse, come le altre decorazioni, anche il gatto in lamiera fu un dettaglio aggiunto per arricchire la casa.







Edited by Milea - 4/7/2021, 13:10
 
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La corte allungata di Corso San Gottardo:
il borgo dei Furmaggiatt






Lungo la strada che da Porta Ticinese si allunga verso Pavia, una fila di case popolari nasconde uno delle poche testimonianze rimaste della Milano di ieri. Varcando la soglia della casa che si trova in Corso San Gottardo 18, si accede a una lunga e caratteristica sequenza di corti allungate che, attraversando l’intero isolato, si aprono sul Naviglio Pavese, sbucando dal portone di Via Ascanio Sforza 15.



È uno dei pochi esempi superstiti di quelle casére che occupavano questa zona e di cui si può trovare un esempio, purtroppo non più passante, anche al civico 14. Il cortile è percorso dalle tipiche linghere: i lunghi ballatoi di accesso agli alloggi, in fondo ai quali si trovava l’unico servizio igienico del piano. Sovraffollamento e dotazione minima di servizi erano però compensate dalla vivace socialità della corte, utile anche quando lo sbocco sulla via retrostante poteva garantire una via di fuga ai nostrani malviventi.

Le case del corso formavano il pittoresco Borgo dei Furmaggiatt. Quando nel 1819 fu completato il Naviglio Pavese, infatti, cominciarono a giungere qui, a bordo delle chiatte, i formaggi prodotti dalla campagna a sud di Milano. Resa particolarmente fertile con l’introduzione delle marcite a opera dei Cistercensi di Chiaravalle, la Bassa milanese aveva visto intensificarsi l’allevamento bovino e la conseguente produzione casearia che nutriva il mercato di Milano. Le forme di formaggio erano scaricate nelle case affacciate sul naviglio: le casére appunto, impregnate dell’odore acre dei latticini.

A mano a mano che arrivavano le nuove forme, le precedenti slittavano in avanti giungendo, alla fine di una stagionatura di tre mesi, alla rivendita affacciata su corso San Gottardo. La vendita dei prodotti era assicurata dall’intensa frequentazione di questa strada di collegamento tra città e campagna, percorsa anche dal Gamba de Legn, una locomotiva a vapore così detta forse per l’incedere ondeggiante che pareva far zoppicare la vettura. Per evitare che il formaggio fermentasse, provocando problemi di digestione, le forme venivano grattate in superficie, ricavando scaglie di crosta ancora morbida con cui le Dame di San Vincenzo insaporivano la zuppa per i poveri del quartiere.



 
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Una statua del Duomo
modello per la statua della Libertà?













Tra le statue del Duomo, sul balcone
sopra l’ingresso centrale della cattedrale,
si trova La Legge Nuova,
eseguita nel 1810 da C. Pacetti.

Secondo la leggenda,
la figura femminile con il braccio alzato,
la torcia in mano e quella corona di punte
intorno al capo
sarebbe stata presa a modello
per la Statua della Libertà
realizzata da Bartholdi nel 1885 per New York.

Se sia vero o meno,
nessuno lo può affermare con certezza,
ma di misteri il Duomo ne ha tanti,
come quel polpaccio lucente
di uno dei flagellatori del Cristo,
raffigurato sul portale.














Edited by Milea - 4/7/2021, 13:19
 
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Case molto originali:
il Liberty milanese






Palazzo Castiglioni


Passano spesso inosservati, vuoi perché nascosti all’interno di palazzi o perché occorre alzare il naso per vederli; tuttavia, i ferri battuti realizzati nei primi decenni del '900 da Alessandro Mazzucotelli sono una delle più belle testimonianze del Liberty milanese. Un giro tra i capolavori regalati alla città da questo grande artista, ricercato dai più grandi architetti per la sua creatività e abilità nel dare al ferro l’aspetto flessuoso e “fiorito” che rappresentava il carattere dominante dello stile Liberty, non può che partire in pieno centro da Casa Ferrario.














Casa Ferrario


Su questo edificio, che ospita al piano terra uno dei più noti negozi di alta gastronomia, Peck, i complessi motivi floreali delle ringhiere si prolungano verso l’alto unendo i vari balconcini. Sulla facciata dell’imponente Palazzo Castiglioni (Corso Venezia 47, in milanese Ca’ di Ciapp per via delle floride cariatidi una volta scolpite sul portone), primo vero esempio di Liberty a Milano, i ferri contorti di Mazzucotelli s’integrano perfettamente con i fori circolari scavati nella pietra grezza per le finestrelle del piano terra.










All’interno, si possono ammirare dello stesso artista la “lampada di libellule” nell’atrio e la balaustra dello scalone a due rampe. Di Mazzucotelli sono inoltre i terrazzi in ferro battuto di Palazzo Galimberti (via Malpighi 3), con le brillanti ceramiche colorate che ne ricoprono la facciata, e quelli di Casa Guazzoni (via Malpighi 12); così come il cancello e le grosse foglie intrecciate dei balconi su Casa Campanini (via Bellini 11), nonché le decorazioni naturalistiche di Casa Moneta (via Ausonio 3). In quest’ultima, oltre a foglie, fiori e animali dalla silhouette abbozzata, grazie a un sapiente uso della forma, spiccano le farfalle sul cancello dell’ingresso, tra gli esempi più riusciti della decorazione Art Nouveau.

Casa Guazzoni fu progettata e costruita negli stessi anni di Casa Campanini, tra il 1904-1906, dall’architetto Giovanni Battista Bossi e anche qui il materiale usato è il cemento. Testine femminili, angioletti, decori floreali tipici del repertorio liberty ricoprono le facciate del palazzo, ma a differenza di Casa Campanini qui l’effetto cromatico si riduce ad effetto chiaroscurale. Tutta la decorazione gioca sulle sfumature del grigio del cemento e del ferro battuto che si contorce in modo fine e quasi svenevole nei balconcini, ghiere, colonnine di raccordo e finestre.












Al primo piano della facciata di Casa Galimberti sono raffigurate
delle formose figure femminili mentre negli altri piani vi sono motivi floreali


















Le ceramiche in facciata sono opera della Società Ceramica Lombarda
e le pitture sono state eseguite da Pinzauti per la parte ornamentale
e dal Umberto Brambilla per le figure






Casa Guazzoni































Casa Campanini



















Casa Moneta












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Casa Campanini



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La lampada delle libellule



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Edited by Milea - 5/6/2022, 20:37
 
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Un angolo di Lourdes
in un ospedale






Oltre alla riproduzione della grotta di Lourdes presso la Basilica di Santa Maria, Milano conserva una seconda ricostruzione del luogo sacro, seppure più piccola, all’interno dell’ospedale di neonatologia Mangiagalli. La si raggiunge attraversando tutto il corridoio che dall’ingresso conduce alla chiesetta neoromanica di San Giuseppe. Una volta giunti in chiesa, occorre uscire dalla porticina sulla destra per ritrovarsi in uno spiazzo circondato da edifici ospedalieri e dal bar circolo ricreativo dell’ospedale. In mezzo alla piazza c'è la piccola ricostruzione della grotta, con una statua della Madonna, una seconda di una figura femminile in preghiera (forse una delle veggenti) e tanti ex-voto di mamme riconoscenti per un parto andato a buon fine. Un antico proclama dell’arcivescovo Schuster, inciso su pietra, annuncia che recitando tre Ave Maria si ottengono duecento giorni di indulgenza.









Edited by Milea - 22/10/2016, 11:42
 
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Il cortile dei Promessi Sposi




Affacciandosi nell’androne di Palazzo Luraschi al numero 1 di Corso Buenos Aires si potrà ammirare un suggestivo cortiletto, reso unico da due particolari: le quattro colonne di marmo provenienti dall’antico Lazzaretto e dodici busti scolpiti con i personaggi dei Promessi Sposi. Vi si riconoscono Renzo e Lucia, Don Rodrigo, il Cardinale Borromeo, padre Cristoforo, Agnese e la Monaca di Monza. Il palazzo, progettato dall’ingegner Ferdinando Luraschi, da cui prende il nome, edificato tra il 1881 e il 1887 insieme al capomastro Angelo Galimberti, fu uno dei primi costruiti in zona (lungo quello che allora si chiamava Corso Loreto) dopo l’abbattimento del Lazzaretto.

Recuperando materiale che sarebbe andato distrutto, Luraschi decise di conservare e riutilizzare quattro delle colonne che in origine segnavano il perimetro interno del Lazzaretto (altre 11 colonne originali si possono vedere in Via San Gregorio, 5). La scelta di dedicare dodici busti ai personaggi dei Promessi Sposi ha una storia singolare. Il Regolamento edilizio allora in vigore prevedeva una norma detta “servitù del Resegone”. Tale norma imponeva che gli edifici a nord della città non superassero l’altezza di 2-3 piani, così da lasciare libero il paesaggio (la vista delle Prealpi e del monte Resegone, appunto) visibile dai Bastioni. L’edificio costruito da Luraschi, tra i primi in Italia a contare otto piani, fu anche uno dei primi a Milano a infrangere la regola. Probabilmente, il fatto di avere costruito un palazzo in un luogo di manzoniana memoria come il Lazzaretto, che per di più oscurava la vista di un monte più volte citato dallo scrittore milanese nel suo celebre romanzo, deve avere ispirato Luraschi in questo omaggio ai Promessi Sposi.






 
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