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view post Posted: 1/12/2023, 19:32 by: RockCafè     +1Perché il gufo si nasconde (leggenda giapponese) - Favole, miti e leggende

Perché il gufo si nasconde

(leggenda giapponese)


Molto, ma molto tempo fa il gufo faceva il tintore. Tutti gli uccelli andavano da lui per farsi tingere le penne e il gufo gliele tingeva nei colori più belli, a seconda di come li desideravano.



Tutti erano soddisfatti di lui, all’infuori del corvo, che disprezzava l’arte del gufo tintore e si vantava sempre per le proprie candide penne. Ma un giorno si stancò di tanta bianchezza e volò dal gufo dicendogli: “Tingi anche le mie penne, però le voglio di un colore speciale, nessun altro al mondo le deve avere.”

Il gufo ci pensò un bel po’ prima di decidere il colore da dare alle penne del corvo. Alla fine scelse il nero: “Ora le tue penne sono di un colore unico al mondo”.

Quando il corvo si accorse che in realtà le sue penne erano completamente nere, come se fosse passato attraverso un camino, montò su tutte le furie. Ma che cosa poteva fare ormai? Più nulla! Infatti da quel giorno, tutti i corvi andarono vestiti di nero. Ma non hanno mai perdonato il gufo per l’affronto.

Così ogni volta che lo vedono, tentano di dargli una lezione: gli si avventano addosso e se potessero lo farebbero a pezzi. Ecco il motivo per cui il gufo resta nascosto durante l’intera giornata e vola all’aperto in cerca di preda soltanto di notte, quando tutti i corvi dormono.




Albrecht Durer (1471 - 1528)
Il piccolo gufo (The Little Owl)
1506 circa
acquerello su carta acquerello brunastra, con bianco opaco intensificato,
pennello e penna in inchiostro nero marrone e grigio
19,2 x 14 cm.
Albertina Museum, Vienna



view post Posted: 1/12/2023, 11:51 by: *Vanilla*     +1La luna (mito dalla regione Baltica) - Favole, miti e leggende

La Luna

(mito dalla regione Baltica)



La Luna, un tempo, oltre alla testa tonda e luminosa, aveva anche un corpo agile. Correva per il cielo, discendeva sulla terra scivolando sui fili lucenti dei raggi che si sprigionavano dagli astri.

Una notte, la birichina, cadde in una trappola preparata da un cacciatore. Cercò di liberarsi dalla morsa di un congegno che a lei parve diabolico, invocò aiuto, pianse, ma non ottenne nulla. All’alba, il cacciatore la trovò svenuta.

“Oh guarda, che strana bestia! Ha le carni bianche e splendenti. Deve avere delle virtù commestibili, così delicata e liscia com’è!” si disse il cacciatore. Poi, con un coltello, tagliò all’inesplicabile animale la testa, che gettò a terra. Successivamente, col corpo si preparò una pietanza che pensava dovesse riuscire ghiottissima. Quando mise in bocca il primo pezzo di carne, fece una smorfia di disgusto. Non aveva mai assaggiato nulla di più nauseante. Scagliò con rabbia lontano da sé la pentola che conteneva la bizzarra vivanda, poi prese la grossa testa della luna e la lanciò in alto con tutta la sua forza.“Vattene tra le nuvole, o palla insipida!”

La Luna, diventata una palla, da allora rotola per il cielo; ma, non avendo più gambe nè braccia, non può discendere sulla terra, lasciandosi scivolare, come prima, sui fili lucenti degli astri.




Édouard Manet
Chiaro di luna sul porto di Boulogne
(Le Clair de lune sur le port de Boulogne)
1869
olio su tavola - 81,5 x 101 cm.
Musée d’Orsay, Parigi





Edited by Milea - 1/12/2023, 11:59
view post Posted: 30/11/2023, 17:12 by: Milea     +1La leggenda di Colapesce - Favole, miti e leggende

La leggenda di Colapesce

(leggenda siciliana)




Renato Guttuso
Mito di Colapesce
1985
quarantatrè pannelli a olio
Teatro Vittorio Emanuele, Messina


C’era una volta, tanto tempo fa, un ragazzo di nome Nicola, detto Cola, figlio più piccolo di una numerosa famiglia di pescatori, che viveva a Messina, in una capanna vicino alla spiaggia. Sveglio, agile e vigoroso, sin dalla prima infanzia aveva dimostrato di essere molto legato al mare. La sua gioia più grande era quella di tuffarsi tra le onde, e nuotare per ore e ore sott’acqua. Non si sa come egli potesse rimanere tutto quel tempo immerso senza sentire il bisogno di venire a galla e respirare e, quando finalmente risaliva alla superficie e tornava a casa, raccontava ai genitori e ai fratelli tutte le meraviglie che aveva visto negli abissi marini. Laggiù in mezzo a rovine di antichissime città inghiottite dai flutti, egli diceva di aver visto fantastiche foreste di corallo rosso, rosa e bianco, fiori di magnifici colori, grotte schiarite da bagliori fosforescenti, pesci di ogni sorta, forma e dimensione, e giganteschi mostri marini che lottavano fra loro in modo terribile.

Tutti lo credevano matto, a cominciare dalla sua stessa famiglia, per queste storie incredibili; la madre era disperata, non sapeva più che fare con questo figlio scansafatiche, che non solo non provvedeva a lavorare, ma si permetteva di ributtare in mare i pesci che il padre ed i fratelli avevano appena pescato... e tutto questo perché lui amava le creature del mare e non sopportava che qualcuno le uccidesse. Disperando di ridurlo al dovere, lo maledisse, dicendogli: “Possa tu diventar pesce!”. La maledizione ebbe effetto: subito le sue carni si coprirono di squame e le mani e i piedi divennero simili a zampe d’anatra. Gli abitanti del paese, che seguivano con curiosità le imprese del giovane, lo soprannominarono Colapesce, perché per loro era mezzo uomo e mezzo pesce; alcuni marinai giuravano di aver visto le branchie sotto le sue orecchie.

La genti lu chiamava Colapisci
pirchì stava ‘nto mari comu ‘npisci
dunni vinìa non lu sapìa nissunu
fors’ era figghiu di lu Diu Nittunu


Un giorno il ragazzo raccontò di aver trovato una nave naufragata che conteneva un immenso tesoro; in breve tempo Cola riuscì a recuperare tutto l’oro, l’argento, le gemme e gli oggetti preziosi che erano sulla nave, permettendo così ai suoi cari di vivere agiatamente. Le storie meravigliose da lui raccontate fecero in breve tempo il giro dell’isola: la sua fama di ottimo nuotatore e audace esploratore degli abissi marini, si diffuse in tutta la Sicilia. Di lui si raccontavano imprese mirabolanti su come avesse salvato intere navi ed equipaggi dalle tempeste e di come sapesse giungere a nuoto sino alla Campania e alla Puglia.


La fama di Nicola arrivò alle orecchie di Ruggero d’Altavilla, duca di Puglia e Calabria e primo sovrano del neonato Regno di Sicilia, che incuriosito da questo strano personaggio, volle conoscerlo per constatarne le capacità strabilianti, che fino ad allora sembravano frutto dell’immaginazione dei marinai dello Stretto di Messina. Così il re, circondato dalla sua corte di cavalieri e principesse decise di recarsi in Sicilia per interrogarlo sulle sue esperienze e sulle creature degli abissi. Salito su una barca, si fece trasportare nel mezzo dello stretto, dove sostava la nave ammiraglia presso la quale i due si incontrarono.

Dalla sua galea, Ruggero e sua sorella Boemonda, videro un uomo aggrappato al fianco di un giocoso delfino; fu fatto salire a bordo per scrutarne lo strano aspetto. Pelle scura, con a tratti riflessi iridati tipici delle squame, occhi sporgenti, guance cascanti, labbra enormi e testa che ricordava vagamente una triglia; i capelli lunghi e ingarbugliati sembravano una matassa di alghe.



Il fisico era asciutto e ben proporzionato e appena iniziò a parlare con voce melodiosa, come modulata dai flutti dell’acqua, raccontò di come sapesse nuotare a grandi profondità, giocando con le murene tra le formazioni di spugne e coralli e cavalcando i delfini; descrisse le strane creature che aveva visto negli abissi: tonni, pesci spada, balene, e il temibile calamaro gigante che giaceva nei fondali dello Stretto e i cui tentacoli, quando la sua testa toccava Messina, arrivano fino in Calabria.

Raccontò anche di aver intravisto le sirene una volta, udendo i loro soavi canti e di quella volta che, spingendosi più sul fondo marino, aveva scoperto navi sommerse e grandi praterie di alghe, che si muovevano come i prati della Sicilia agitati dal vento e di quando era sopravvissuto per miracolo all’attacco di una grossa piovra. I pescatori, giunti tutti intorno con le loro barche per ascoltarlo, narrarono di quella volta in cui Cola aveva affrontato Scilla, uno dei due mostri di mare che vivevano nello stretto, e di come lo avesse costretto a fuggire in una grotta marina.

Il re volle mettere alla prova le capacità di Colapesce: prese la coppa da cui aveva finito di bere e la scagliò al di là del parapetto dell’imbarcazione, chiedendo a Cola di riportargliela. Il giovane baldanzoso si immerse e non riemerse per molte ore, tanto che si temette per la sua vita, fino a quando, mentre il sole era al suo culmine, si vide la coppa brillare in superficie, sorretta dalla mano di Cola che riemergeva trionfante.

Interrogato dal re egli raccontò di aver visto moltissime specie di pesci, cetacei e ricci giganti, nuotando dove l’acqua era diventata molto scura e di essere riuscito a scorgere la coppa grazie alla luce intensa di un grande fuoco che ardeva in una caverna sottomarina, illuminando il fondale. Dubitando che un fuoco potesse ardere dentro l’acqua, il re chiese maggiori spiegazioni a Cola, il quale gli spiegò che era il fuoco dell’Etna ad albergare lì in fondo, lo stesso fuoco che di tanto in tanto saliva sulla cima del vulcano causando danni e vittime.

Allora preso dalla curiosità il re si tolse la corona e la gettò tra i flutti, chiedendo ancora a Cola di recuperarla, e ancora una volta il giovane si tuffò. Passarono moltissime ore; il sole tramontò e poi sorse di nuovo, ma di Cola non vi era traccia. Non si ebbero sue notizie per due giorni finché, all’alba del terzo giorno i presenti non videro una testa bruna affiorare dalle acque: era Cola, che stringeva tra le mani la corona, i cui diamanti brillavano alla luce del sole nascente. Il pescatore era stremato e raccontò di come la corona, finita in un vortice, fosse diventata invisibile ai suoi occhi, costringendolo a fare tutto il giro dell’isola per ritrovarla, nuotando più a fondo che mai ed incontrando creature marine di ogni sorta, inclusa la piovra che tempo prima aveva tentato di ucciderlo.


Ma il suo racconto fu persino più stupefacente; mentre ancora ansimava, descrisse il prodigioso fuoco sotterraneo, una fiamma ardente simile a quella che scaturisce dall’Etna, oltre il quale, in una prateria sottomarina, si stagliavano tre pilastri alti come montagne. Alzando gli occhi Colapesce si accorse che essi sostenevano la Sicilia intera: la colonna più a nord era nera come l’ossidiana, la seconda, verso sud era di granito ma si stava sbriciolando su un lato, la terza, a occidente era intaccata alla base e cigolava, forse corrosa dal fuoco sottomarino. Questa terza colonna si trovava nei pressi di quel grande fuoco, tra Messina e Catania, dove persino le creature marine non passavano, per paura di rimanere uccise; se un giorno la lava fosse colata fin là il pilastro si sarebbe sbriciolato e la Sicilia sarebbe sprofondata in mare. Nel luogo dove doveva esserci una quarta colonna si apriva la bocca di un pozzo profondo, dal quale Colapesce aveva recuperato la corona.

Il re dubitava ancora e volle che Cola scendesse di nuovo per portargli un segno di quel fuoco, ma Colapesce era stremato e tentennava sapendo della difficoltà di tale impresa, ma il re, presa la mano di Boemonda, che gli stava a fianco, le sfilò l’anello che aveva al dito e lo fece cadere oltre il bordo della nave. Il povero Colapesce, benché esausto, decise di tentare l’impresa. Portò con sé una ferula (una sorta di bastone) ed un pugno di lenticchie che, se fossero tornate a galla senza di lui, sarebbero state segno che era rimasto negli abissi. Tuffatosi, non si ebbero sue notizie per giorni e giorni; tutti andarono via e anche il re fece issare le vele per raggiungere Messina, assalito dal rimorso di aver mandato il giovane verso morte sicura. All’improvviso vicino alla barca spuntò dapprima il pugno di lenticchie, che galleggiavano su un’onda, poi si vide un bagliore sull’acqua, ed emerse la ferula, che bruciava come una torcia ardente. Colapesce era rimasto sott’acqua, per sorreggere la colonna consumata onde evitare che l’isola sprofondasse e quindi ancora oggi si troverebbe negli abissi a sopportare il peso dell’intera isola di Sicilia.

Su passati tanti anni
Colapisci è sempri ddà
Maestà! Maestà!
Colapisci è sempri ddà




La gente di Messina, quando la terra è scossa dai terremoti, dice che Colapesce è ancora là, sul fondo del mare, a sorreggere la Sicilia e a fare la guardia perché l’isola non sprofondi, vivendo felice con i suoi amici delfini e godendosi il canto delle sirene.

Questa leggenda del mare, probabilmente una delle più belle mai raccontate, non è solamente una storia d’eroismo, ma anche una leggenda d’amore. I tre doni lanciati in mare dal re rappresentano la ricchezza (la coppa d’oro), il potere (la corona) e l’amore (l’anello), che alla fine costò l’impresa, e probabilmente la vita, a Colapesce. Sebbene la tradizione popolare attribuisca a svariati regnanti la figura del re (si parla soprattutto di Federico II e di Carlo V), le fonti storiche che raccontano la leggenda di Colapesce sono precedenti ad entrambi i re, e sono riconducibili al 1140, anno in cui pare che effettivamente Ruggero II abbia visitato Messina.


view post Posted: 25/11/2023, 15:36 by: Milea     +1LA GIOCONDA: l'arte di Leonardo spiegata ai bambini - ARTISTICA

Progetto artistico: Ginevra de’ Benci




Leonardo da Vinci
Ritratto di Ginevra de’ Benci
1474 - 1478 circa
tempera e olio su tavola - 38,8 × 36,7 cm.
National Gallery of Art, Washington



Scheda didattica


Ricreare un quadro di Leonardo ritagliando e immaginando nuovi sfondi è un’idea piuttosto semplice. Il trucco consiste nel farlo solo con molte linee; il contrasto con la pelle crea un’opera d’arte davvero interessante e inoltre stimola negli allievi un approccio creativo e originale all’arte.

Materiali: (tempo necessario: 45 minuti circa)
- Carta da disegno o per pittura
- Matita di grafite
- Gomma morbida
- Due pennarelli neri, uno a punta media e uno a punta fine per creare i contorni scuri e di disegni.

Istruzioni :
Innanzitutto mostrate agli allievi il dipinto di Leonardo come riferimento. Stampate per ogni studente una copia a colori del modello; avere l’immagine a colori e la “line art” sulla stessa superficie li aiuta a fondersi insieme, in modo da poter ammirare l’arte e non essere distratti da abilità di taglio e incollaggio non sempre perfette. Iniziate a tracciate una nuova “Ginevra de’ Benci”.


Dopo aver eseguito la figura, riempite lo sfondo con tante linee e segni astratti; dei cerchi concentrici faranno risaltare lo sfondo rispetto alle forme più fluide dei capelli e delle linee del corpo


Ripassate i contorni di base con un pennarello medio. Aggiungete tantissimi motivi con un pennarello nero più sottile, per dare movimento e profondità all’opera. Fonte


view post Posted: 25/11/2023, 14:49 by: Milea     +1LA GIOCONDA: l'arte di Leonardo spiegata ai bambini - ARTISTICA

Progetto artistico: La Gioconda

Scheda didattica


Un ottimo modo per studiare il potere delle linee, la bellezza del contrasto e il mistero duraturo di Monna Lisa è quello di realizzare una lezione di disegno, partendo dal suo famosissimo volto e riempiendo poi il proprio sfondo con delle linee, solo per contrasto.

Materiali: (tempo necessario:1 ora circa)
- Carta da disegno o per pittura
- Matita di grafite e matite colorate
- Gomma morbida
- Due pennarelli neri, a punta media e a punta fine per creare i contorni scuri e di disegni.

Istruzioni :
Innanzitutto mostrare agli allievi il dipinto della Monna Lisa come riferimento. Stampate per ogni studente una copia a colori del modello; avere l’immagine a colori e la “line art” sulla stessa superficie li aiuta a fondersi insieme, in modo da poter ammirare l’arte e non essere distratti da abilità di taglio e incollaggio non sempre perfette. Ritagliare e incollare un’immagine può essere utile, ma il mix di foto a colori e linee a pennarello, sullo stesso foglio di carta è ancora più intrigante.


Tracciate una nuova “Gioconda”; dopo aver eseguito la figura, riempite lo sfondo con tante linee e segni; ognuno potrà decidere se eseguire un quadretto figurativo o optare per l’astrattismo puro; se colorarlo o lasciare il contrasto della pelle e dello sfondo monocromatico.


Per ottenere risultati migliori, cercate di usare un pennarello con la punta media per le forme principali del corpo e uno molto sottile per tutti i dettagli. Le due cose rendono il disegno più facile da interpretare e più interessante da osservare.


Abbozzate e tracciate i contorni di base con un pennarello spesso. Aggiungete i dettagli con un pennarello sottile: più sono meglio è. Fonte





Edited by Milea - 25/11/2023, 16:05
view post Posted: 25/11/2023, 13:44 by: Milea     +1LA GIOCONDA: l'arte di Leonardo spiegata ai bambini - ARTISTICA


LA GIOCONDA




Leonardo da Vinci
Ritratto di Monna Lisa del Giocondo
1503 - 1504 circa
olio su tavola di pioppo - 77 x 53 cm.
Parigi, Museo del Louvre


Adesso devo proprio trovare una buona scusa: messer Francesco del Giocondo comincia a essere impaziente. Finora l’ho tenuto a bada con i soliti trucchetti: ritardi, difficoltà, altri impegni…, ma ormai ho esaurito i pretesti. Sono anni che tiro in lungo, è arrivato il momento di farmi coraggio e dirlo chiaro:” Mi spiace, messer Francesco. Il ritratto di sua moglie monna Lisa è a buon punto, ma non lo consegnerò né domani, né mai. Mi sto preparando per lasciare Firenze e tornare a Milano e il quadro non lo mollo: me lo terrò io e sono pronto a restituire i soldi che mi ha versato come anticipo”.

Il denaro non mi manca: ricavi dei dipinti sono ben poca cosa rispetto a quanto guadagno con le consulenze tecniche, le perizie sui canali e sulle acque, i progetti di macchine, i disegni di bombarde e fortificazioni, gli incarichi di cartografia, l’allestimento di feste e ricevimenti, l’illustrazione di libri, i disegni di costumi e mille altre cose. In fondo non è certo la prima volta che io, Leonardo da Vinci, lascio un’opera incompiuta. Anzi se mi guardo indietro, ora che ho passato la cinquantina, di dipinti finiti e consegnati ne ho fatti ben pochi: forse neanche una decina, a ben vedere, senza contare le rovine dei dipinti murali! C’è da chiedersi come mai sia diventato un pittore famoso, addirittura un “genio universale”.


Penso ai miei coetanei o comunque ai pittori della mia generazione, come Perugino o Botticelli : loro sono stati capaci di sfornare decine e decine di tavole e affreschi. Adesso c’è questo ragazzino, Raffaello, che trasforma in oro, anzi in pittura, tutto quello che tocca! Io no, ho bisogno di tempo e non sono mai soddisfatto di quello che faccio. Mi pare che ci sia sempre la possibilità, anzi il dovere, di ritoccare, migliorare, aggiungere, dare una pennellata in più.

Michelangelo, che mi detesta, non fa che ripetere che l’arte si fa “per forza di levare”: certo, lavora di scalpello sui blocchi di pietra e secondo lui il vero artista dovrebbe affannarsi, sudare e sbuffare in maniche di camicia, picchiando col martello, in una nuvola di polvere di marmo, fino a liberare la figura imprigionata nella grezza materia. Ma la mia arte è completamente diversa, per fortuna sono pittore, non scultore; posso lavorare indossando abiti raffinati, muovendo il pennello leggero senza nessuna fatica e mentre dipingo nella pace del mio studio ordinato e pulito posso ascoltare la musica o la lettura di poesie.

Non pensate che la fatica fisica mi faccia paura: lo sanno tutti, ho ancora le mani ben forti, posso piegare e raddrizzare un ferro di cavallo e, anche se questo Michelangelo ha vent’anni meno di me, non avrei il benché minimo timore a sfidarlo a braccio di ferro! Semplicemente detesto la fretta: dipingere non è come zappare l’orto, il valore di un artista non si misura con il rintocco delle campane e a chi mi accusa di esser pigro, rispondo che le persone intelligenti sono quelle che si danno il tempo per pensare.


Un quadro non è come un libro a stampa, che si mette sotto il torchio del tipografo e se ne fanno centinaia di copie e se tutti i bambini, magari a furia di esercizi e bacchettate, imparano le tabelline, non c’è scuola che possa insegnare a diventare un grande artista. E’ un dono: o lo si possiede oppure no. In questo secondo caso bisogna limitarsi a imitare le opere dei maestri e rassegnarsi a considerare anche l’arte un “mestiere” noioso e prevedibile come gli altri, fatto di orari, di monotonia, di ripetitività. Per me non è così: quando sento l’ispirazione posso lavorare freneticamente per ore e ore, senza interrompermi, senza avvertire la fame né la sete, senza sforzo, non parliamo poi di disegnare; ma quando invece sento il bisogno di fermarmi a riflettere, posso dare due o tre pennellate e poi non dipingere più per tutto il resto della giornata.


Eccola qua allora, questa monna Lisa, che mi guarda dal cavalletto, con le mani in grembo, i bei capelli lisci, le sopracciglia sottili, il volto ovale, rilassato. La posa, l’espressione, il sorriso mi sono venuti di getto, lì per lì, mentre avevo la signora seduta di fronte a me. All’inizio era quasi uno scherzo: una che si chiama Gioconda deve per forza essere allegra e sorridente! Ma poi mi sono bloccato: ho incominciato a sentire che il quadro che stava nascendo non era, non poteva essere semplicemente il ritratto di una pacifica signora fiorentina.

Davanti allo sguardo che cominciava ad affiorare nel dipinto, era come se dipingessi un’immagine che parla di me: attraverso il viso sorridente di questa donna, mi è parso di cominciare a intuire i segreti del mondo, a capire le leggi dell’universo, a intravedere i destini del cosmo. Molti pensano che io sia ateo, che non creda in Dio, solo perché spesso, se scocca l’ispirazione, dipingo anche la domenica, invece di andare a messa. Dovrei “santificare la festa” e non lavorare, mi rimproverano i bigotti: ma esiste un modo migliore per ringraziare il Creatore, di utilizzare le doti che ho ricevuto e cercare con il mio pennello di riprodurre la meraviglia di un universo che vive, vibra, respira intorno a noi?


Monna Lisa sorride: ha fiducia nel mondo, ne vede la bellezza, ne coglie la ribollente attività. Sente, come lo sento io, che lo scorrere dei fiumi è simile al palpito del sangue che pulsa nelle vene di questa nostra madre Terra; sfiora con gli occhi le cime delle montagne, che sono come le ossa che sostengono il corpo del mondo; partecipa all’incessante flusso e riflusso della natura, che vive e si rigenera, che non muore mai, capisce che l’umida nebbia è come rugiada che bagna e alimenta la campagna. Tutto scorre, come dice un filosofo antico, o meglio ancora tutto si muove e non mi stupirei affatto di scoprire che la Terra non è affatto immobile, ma ruota intorno al sole… mmh, meglio lasciar perdere… ci penserà qualcun altro.

Io ho vissuto quasi sempre in città, a Firenze e a Milano, ma sono nato in campagna e amo l’aria fresca, gli spazi ampi, le passeggiate lungo i fiumi o in collina. Tutti i miei sensi si sono sviluppati: ho imparato a gustare il sapore di un lampone o di una mora, a distinguere le diverse tonalità di verde delle foglie, a riconoscere il profumo delle erbe aromatiche, a sentire il soffio del vento e i rintocchi lontani delle campane delle pievi, a sfiorare con le dita il freddo della neve, il velluto del petalo di un fiore appena sbocciato o il soffice pelo di un leprotto… Potrei stare ore a guardare le nuvole che scorrono… oh, quante ne ho viste in Lombardia, dalle parti del Lago Maggiore, ai piedi del Monte Rosa! Oppure a seguire la lentissima discesa di una goccia d’acqua lungo un filo d’erba, o i pazzi ghirigori che fanno le rondini nel cielo.


Quando giro in città, c’è sempre una moltitudine di aspiranti pittori o semplici curiosi che mi circondano, mi assediano con le loro chiacchiere; ma quando esco dalle porte e mi inoltro nel verde, finalmente rimango solo e quando sei solo sei davvero tutto tuo.

Torno dalle mie passeggiate in campagna con i piedi fradici, il taccuino pieno di disegni, il cuore in tempesta; viene buio, mi metto a letto, cerco di addormentarmi, ma mi ritornano in mente tutte le immagini e le meraviglie che mi hanno bombardato durante la giornata. E allora sto lì, con gli occhi aperti, nella notte, lasciando che i ricordi si fissino nella mia memoria. Ho imparato tutto dalla natura!
Sto raccogliendo migliaia e migliaia di fogli pieni di appunti per scrivere un trattato, ma è difficile dare un ordine: ogni giorno scopro qualcosa di nuovo e mi viene voglia di ricominciare da capo. Ho anche imparato ad aspettare: tutti gli anni ritorna la bella stagione, crescono le foglie sugli alberi, si mutano le penne degli uccelli, i ruscelli si riempiono di acque impetuose, all’inverno segue la primavera. E allora, anche se ho meno capelli, ho la fronte solcata dalle rughe e una lunga barba bianca, mi sento pieno di speranza, mi viene voglia di correre nei prati, su e giù per i campi, come facevo da ragazzino, insieme a mio zio Francesco.


Intorno al volto e al busto della Gioconda dipingerò un intero universo di acqua e terra, di cielo e nuvole, di montagne e pianure. Vorrei che niente, nel ritratto, desse l’impressione di essere fermo, vorrei che ci fosse dentro il senso della natura, del cambiamento, dell’inesauribile attività della Terra e della vita. Non so se avrò un’altra occasione, se negli anni che mi restano da vivere potrò dipingere un altro quadro così. Povero messer Giocondo: non gli permetterò mai di appendere nel salotto di casa il pacioso ritratto della sua sposa. Finché vivrò, voglio tenerlo con me e non pensare mai che sia davvero “finito”. Questo quadro mi guarda, mi riguarda, è per me: questo quadro sono io!




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Stefano Zuffi

Il mondo dipinto
Ventidue capolavori di grandi maestri
raccontano la loro storia

Ed. FeltrinelliKIDS


view post Posted: 22/11/2023, 19:07 by: Milea     +1Giuseppe Abbati - Chiostro di Santa Croce - I Macchiaioli



Giuseppe Abbati
Le Porte Sante
1862 circa
olio su tavola - 13 x 26 cm.
Collezione privata


Nel desolato disordine di un cimitero ancora in costruzione, una donna in gramaglie si avvicina veloce alle tombe, quasi un’apparizione, evocativa nel suo rapido incedere, della drammatica fatalità della morte. Il luogo raffigurato è a Firenze, sui bastioni attorno alla Basilica di San Miniato al Monte, dove nel 1861 sorse il nuovo luogo di sepoltura della città. La sottilissima materia pittorica ricopre a malapena la tavoletta, tanto che le venature del legno contribuiscono a suggerire la situazione atmosferica della giornata di vento, con il cielo striato di nuvole che passano sul sole, creando ombre trascorrenti sul terreno. Nell’ora meridiana la luce si posa intensa sul muro di fondo del camposanto, mentre per contro, rabbuia quello di fronte, accanto alle pareti delle case, lì addossate.


Il punto di vista ribassato avvicina in maniera risentita l’orizzonte e mette in risalto il severo tenore geometrico dell’impianto compositivo, concepito per meditare scansioni cromatiche che, nella loro rigorosa struttura di campi-colore, non lasciano spazio all’immaginazione. Una simile volontà di adesione ai principi dell’analisi positivista il più possibile esatta, induce a ritenere che il dipinto sia stato eseguito almeno nel 1862, quando l’artista, a Firenze da ormai più di un anno essendovi giunto nell’autunno del 1860 dopo aver preso parte alla Spedizione dei Mille, perdendo un occhio a Capua nella battaglia del Volturno. Nella città fiorentina si era fatto sempre più convinto delle teorie estetiche dei Macchiaioli, tese a tradurre secondo puntuali analogie la realtà pittorica.


Nel far propria la metodologia scientifica della “macchia”, Abbati su era imposto una chiusura alla spontaneità dell’espressione sentimentale, che aveva però portato l’artista napoletano d’animo allegro e giocoso, ad assumere un atteggiamento “melanconico e severo” : “la sua giocondità” , notava Diego Martelli col quale viveva in un appartamento di via dello Sprone, s’era trasformata in “misantropia, la sua malizia [in] asprezza, la sua natura [era divenuta] meditabonda e cupa”. (D: Martelli, minute per Giuseppe Abbati, Firenze, Biblioteca Marucelliana). In arte un tale mutamento di carattere comportò l’interesse per temi altrettanto malinconici, come nella tavola in esame, o addirittura attenti a escludere ogni piano di comunicabilità umana, fino “all’annientamento dell’assenza di tema, in un paesaggio qualsiasi: il nulla isolato”. Dipinti dal significato triste o laconico, ma che, date le doti eccelse d’artista del pittore, possiedono una straordinaria qualità formale, tale da infondere loro una poesia solenne e commovente a un tempo.

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Giuseppe Abbati
Il Camposanto di Pisa
1864
olio su tela - 41 x 62 cm.
Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, Roma


La composizione riecheggia in modo palese l’impianto ordinato delle vedute meticolosamente oggettive della Restaurazione e di quelle immagini, sostenute da un descrittivismo minuzioso, ricrea anche il senso di staticità. Ma anziché confortante come un tempo, proprio perché allusiva alla tradizione e alla stabilità, ora la severa raffigurazione del cimitero monumentale, con i vasti loggiati dove le tombe moderne sono accostate ai sarcofagi antichi e del Rinascimento, è pervasa di un’atmosfera arcana che suscita sottili inquietudini, indicativa della consapevolezza dell’uomo moderno di come la semplicità e la quiete, tipiche di un passato appena trascorso, siano per lui motivo di rimpianto sì, ma comunque non lo distolgono dalla curiosità per l’ignoto che il futuro prospetta.

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Giuseppe Abbati
Loggiato con armigero
1864
olio su tavola - 45,5 x 72 cm.
Collezione privata


Un’inquadratura taglia drasticamente il cortile del Palazzo del Bargello, precluso alla vista, ma suggerito all’osservatore attraverso la figura di un soldato in armature rinascimentale, che si affaccia con atteggiamento distaccato fra i pilastri del loggiato del piano superiore dell’edificio. La malinconia che traspare dal dipinto, velata dal rigore della resa formale e luministica, viene interpretata, secondo la mentalità positivista di Diego Martelli, come l’ovvia conseguenza del dover lavorare senza troppa ispirazione, per necessità economica, a quadri d’interno raffiguranti il Bargello o qualche chiesa monumentale, quantunque innovativi “per la scelta e per il modo di esecuzione”.




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Giuseppe Abbati
La torre del Palazzo del Podestà
1865
olio su tavola - 39 x 32 cm.
Collezione privata


Un’immagine inconsueta del campanile della Badia Fiorentina, attraverso le arcate della torre del Bargello. Come nel “Camposanto di Pisa”, anche in questo caso il riferimento è il vedutismo romantico di pittori nordici come Caspar David Friedrich e Johan Christian Dahl, qui ancor più esplicito per la resa cristallina della luce che definisce con limpidezza le architetture e la veduta delle città fino all’orizzonte lontano, e mette in risalto la sagoma dell’uomo che si sporge oltre il parapetto. E’ proprio questa figuretta, colta in atteggiamento realisticamente semplice e casuale, a infondere alla scena di misteriosa, malinconica sospensione. (M.@rt)



view post Posted: 22/11/2023, 15:34 by: Milea     +1Giuseppe Abbati - Chiostro di Santa Croce - I Macchiaioli



Giuseppe Abbati
Ritratto di Teresa Fabbrini
1865 - 1866 circa
olio su tela - 59 x 38 cm.
Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti, Firenze


Il ritratto raffigura Teresa Fabbrini, donna di umili origine, compagna di Diego Martelli che l’aveva conosciuta in una casa di tolleranza prima di condividere con lei tutta la vita, nonostante le opposizioni della madre di Diego al loro legame. L’amicizia di Abbati con Teresa è testimoniata da alcuni scambi epistolari, ed una foto dell’epoca che ritrae la donna quasi nello stesso abbigliamento, molto simile a quello nel dipinto “L'Orazione”, conferma l’identità dell’effigiata. Nell’inventario del fondo Martelli da cui l’opera proviene, accanto al nome di Teresa Fabbrini è erroneamente posto, tra parentesi, il nome Teresa Abbati. L’anno di esecuzione sembra riferirsi alla fine del 1865 quando è certo che Teresa Fabbrini aveva soggiornato a Firenze, lasciando Castiglioncello dove risiedeva nella tenuta di Diego. Anche l’interno, appena evocato dalla tappezzeria, pare riferirsi ad un’abitazione cittadina. La sobrietà dei toni, giocata sui grigi e sui neri a contrasto col fondo chiaro e il rigore formale, ben si confà alla sottile analisi psicologica del volto di Teresa, la cui fissità mite ma austera è addolcita dai riflessi bianco rosati dell’incarnato.

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Giuseppe Abbati
Ritratto di signora in grigio
1865 - 1866 circa
olio su tavola - 26 x 14 cm.
Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti, Firenze


Nella donna, ritratta in un interno domestico di profilo in piedi con le mani poggiate sulla spalliera di una seggiola bianca, è raffigurata Teresa Fabbrini, compagna di Diego Martelli. Rispetto ad altre immagini di Teresa, risalenti alla fine del 1865, nei mesi in cui ella soggiorna a Firenze, il “Ritratto in grigio”, presenta una condotta pittorica molto più sintetica, dove la magrezza dell’impasto cromatico lascia trasparire con evidenza le venature del legno, come spesso accade in altre opere di Abbati e con più frequenza negli ultimi anni. Ma il ritratto di Teresa potrebbe aver risentito nello stile per la pennellata più rapida e sommaria, anche della presenza del ferrarese Boldini; quest’ultimo aveva, infatti, frequentato Castiglioncello nell’estate del 1865. Al Gabinetto Disegni e Stampe di Firenze sono conservati due disegni a matita su carta grigia strettamente analoghi a quest’opera; in uno Teresa indossa un doppio scialle, anzichè la mantella; nell'altro veste gli stessi abiti, ma è voltata quasi interamente di spalle.

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Giuseppe Abbati
Signora in piedi, di spalle
1865 circa
disegno a matita nera su carta grezza - 18,7 x 11 cm.
Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, Firenze


Il disegno ritrae una donna avvolta nel mantello e con un elegante cappellino, appoggiata alla spalliera di una sedia modesta. Con ogni probabilità il foglio risale al tempo in cui Abbati lavorava ad un ritratto di Teresa Fabbrini, quasi terminato nel gennaio del 1866 come si deduce da una lettera inviata dal pittore napoletano alla donna per la quale provava stima e simpatia: “Cara Teresina, fra giorni spero venire a stringerle la mano...il ritratto è quasi finito...la cornice è ordinata? Suo Beppe”. Nello studio preparatorio, la donna indossa il medesimo cappello che porta nella stesura definitiva, lo stesso del disegno, ed è appoggiata alla spalliera tornita di una sedia. (M.@rt)

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Giuseppe Abbati
Figura femminile
datazione incerta
disegno (matita nera su carta azzurrina) - 29,1 x 21 cm.
Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, Firenze




view post Posted: 22/11/2023, 13:51 by: Costantine Rose     +1PALAZZO MORONI - A Bergamo riapre il gioiello seicentesco - CAFFE' LETTERARIO


PALAZZO MORONI
A BERGAMO RIAPRE AL PUBBLICO IL GIOIELLO SEICENTESCO




Nel 2019, l’accordo tra la Fondazione istituita dalla famiglia Moroni e il FAI garantiva
l’avvio del cantiere di restauro che oggi consente di ampliare l’offerta culturale della città.
La visita tra capolavori di pittura rinascimentale, affreschi barocchi,
arredi ottocenteschi e uno straordinario giardino con orto urbano...






Bergamo, Palazzo Moroni, Scalone d'onore


Non è stato casuale, nel giugno 2020, il momento scelto dal FAI per restituire a Bergamo la fruizione di uno degli spazi all’aperto più preziosi della Città Alta: i giardini di Palazzo Moroni – estesi conterrazzamenti panoramici ai piedi della Rocca civica, sul colle di Sant’Eufemia – e la cosiddetta ortaglia, due ettari di campagna nel cuore dell’abitato storico, terreno acquisito nell’Ottocento per scopi agricoli, che conserva viti a pergola, alberi da frutto e di gelso, e il circolo di carpini che costituiva una voliera naturale per la caccia agli uccelli.



Bergamo, Palazzo Moroni, Sala Gialla



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Bergamo, Palazzo Moroni, Sala Gialla


Tre anni fa, la città lombarda diventava suo malgrado il simbolo della lotta al Covid: il recupero e la riapertura dei giardini, a concludere la fase più inaspettata e drammatica della pandemia, segnalavano la voglia di ripartire, facendo affidamento sul patrimonio culturale e l’identità bergamasca. Ma il restauro di Palazzo Moroni, per la messa in sicurezza, la conservazione e la valorizzazione dell’edificio seicentesco, che prende il nome dalla famiglia che l’ha fondato e attualmente presiede la Fondazione Museo Palazzo Moroni istituita nel 2008, era iniziato nel 2019, quando l’immobile, con tutte le sue pertinenze, veniva affidato alla gestione del Fai, con l’intenzione di rendere il bene un patrimonio collettivo. Così Palazzo Moroni, grazie alla lungimiranza del conte Antonio Moroni (1919 – 2009), oggi rinsaldata da sua figlia Lucretia, fautrice dell’accordo con il FAI – diventava il primo palazzo urbano del Fondo per l’Ambiente Italiano: "La scelta di Antonio Moroni, nobile come quelle di Gian Giacomo Poldi Pezzoli, di Pasino Bagatti Valsecchi e di Antonio e Marieda Boschi di Stefano, fa parte della storia più civile del nostro Paese dove ancora c’è chi ritiene che un gesto a favore della collettività sia un punto d’onore per il proprio nome e quello della propria famiglia" spiega il presidente FAI Marco Magnifico "E come tale ha dunque diritto di essere affidato al futuro e raccontato esattamente come le opere d’arte e di architettura oggetto di tanto dono. Nel segno della migliore tradizione italiana".



Bergamo, Palazzo Moroni, Sala Turca



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Bergamo, Palazzo Moroni, Sala Azzurra


Dunque alla riapertura dei giardini e dell’ortaglia (estesa per un decimo dell’intera Bergamo Alta) ha fatto seguito, nel 2021, la restituzione di quattro sale con affreschi barocchi seicenteschi (a opera del cremasco Gian Giacomo Barbelli), in concomitanza con le celebrazioni per il 500° anniversario della nascita di Giovanni Battista Moroni (Albino, 1520-1578) – tra i pittori più rappresentativi del Cinquecento lombardo e della ritrattistica rinascimentale italiana – di cui gli ambienti in questione conservano "Il Ritratto di Isotta Brembati", quello di "Giovanni Gerolamo Grumelli", meglio noto come Il Cavaliere in rosa, e il Ritratto di signora anziana.



Bergamo, Palazzo Moroni, Scalone d'onore


E ora si completa il cantiere di restauro avviato nel 2020, che nell’ultima fase, a partire dal 2022, ha interessato cinque stanze ancora chiuse al pubblico, frutto delle modifiche che hanno interessato il palazzo intorno al 1835, in vista del matrimonio di Alessandro Moroni con la nobile milanese Giulia Resta (1838). Spazi raffinati per l’allestimento che fa largo uso di sete preziose, ceramiche orientali e francesi, arredi laccati e in stile impero, con decorazioni ad affresco che riproducono stucchi a trompe-l’oeil e si alternano a soggetti ispirati dal mondo classico ed esotico. A partire dal 22 novembre 2023, quindi, Palazzo Moroni torna ad aprire integralmente ai visitatori, che potranno percorrere l’intero piano nobile e tutto il mezzanino, oltre a continuare a godere dei giardini, che pure hanno beneficiato della sostituzione degli alberi e degli arbusti che si presentavano in condizioni fitosanitarie critiche, dell’integrazione di piante ornamentali nelle aiuole, della potatura dei tassi in forma e della realizzazione di percorsi in ghiaia a tutela dei prati. Oltre agli ambienti seicenteschi, il percorso di visita ampliato si articola tra Sala Gialla, Sala Rosa, Sala Azzurra, Salottino Cinese e Sala Turca – con arredi, tappezzerie antiche (restaurate con il contributo del Centro per la Conservazione e il Restauro La Venaria Reale) oggetti e opere d’arte originali che documentano il gusto e il modo di vivere aristocratico dell’Ottocento – e mezzanino, con il cucinone e l’appartamento utilizzato fino al 2009 dal conte Antonio Moroni. Si inaugurano, inoltre, gli spazi di accoglienza rinnovati, come la biglietteria con negozio, e nuovi servizi e strumenti di accompagnamento alla visita: proprio nel cucinone, un video-racconto con proiezioni immersive racconta, con la voce dell’attore e baritono Luca Micheletti, la storia della famiglia e del palazzo.



Bergamo, Palazzo Moroni, Sala Gerusalemme Liberata


Al cantiere di restauro si è infatti associato un "cantiere della conoscenza", avviando studi e ricerche coordinati dal FAI, a cominciare dall’archivio storico di famiglia. Nel 2024 queste informazioni confluiranno anche nel volume guida a Palazzo Moroni, edito da Skira. E sempre dal prossimo anno, in tema con l’impegno per l’accessibilità del sito museale, sarà disponibile una guida in linguaggio semplificato per orientare alla visita persone con disabilità intellettiva. Si organizzeranno, inoltre, visite guidate in LIS per persone sorde, mentre già allestiti sono i supporti tattili per non vedenti.

Dopo l’inaugurazione, Palazzo Moroni sarà visitabile dal mercoledì alla domenica, dalle 10 alle 18, al costo di 11 euro (salvo riduzioni).



Giovanni Battista Moroni
Ritratto di Gian Gerolamo Grumelli (Il Cavaliere in rosa)
1560
Olio su tela
216 x 123 cm
Bergamo, Palazzo Moroni



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Giovanni Battista Moroni
Ritratto di Isotta Brembati
1552
Olio su tela
160 x 115 cm
Bergamo, Palazzo Moroni

view post Posted: 21/11/2023, 21:57 by: Lottovolante     +1CARITAS (Charity) - Lucas Cranach il Vecchio - ARTISTICA


Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità,
sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita...





Lucas Cranach il Vecchio
Caritas
(Charity)
1537-1540
Olio su tavola
50 x 34 cm
Anversa, Royal Museum of Fine Arts


Lucas Cranach il Vecchio, accreditato come l'artista tedesco di maggior successo del suo tempo, fu pittore di corte degli Elettori di Sassonia per la maggior parte della sua carriera ed è noto per i suoi ritratti di principi tedeschi, per la sua collezione di nudi e per i suoi ritratti dei leader della Riforma protestante, di cui abbracciò con entusiasmo la causa. Fu un amico intimo di Martin Lutero. Cranach dipinse anche soggetti religiosi, dapprima nella tradizione cattolica, poi cercando di trovare nuovi modi per trasmettere nell'arte le istanze religiose luterane. Per tutta la sua carriera continuò a dipingere soggetti nudi tratti dalla mitologia e dalla religione.


I dipinti di scene mitologiche di Cranach, che presentano quasi sempre almeno una figura femminile esile, nuda tranne che per un drappo trasparente o un grande cappello, realizzati all'inizio della sua carriera, mostrano influenze italiane, tra cui quella di Jacopo de' Barberi, che fu alla corte di Sassonia per un periodo fino al 1505; diventano poi rari fino a dopo la morte di Federico il Saggio. I nudi successivi presentano uno stile caratteristico che abbandona l'influenza italiana per una ripresa dello stile tardogotico.


In quest'opera, una giovane madre - identificata come la Carità, personificazione della benevolenza - con il corpo nudo coperto solo da una garza trasparente, allatta un bambino. È abbracciata a un altro bambino. Un ragazzo è seduto a terra davanti a lei e le tocca una gamba. Siede su un blocco di pietra sotto un albero di mele. Sullo sfondo è visibile un paesaggio montuoso intorno al cespuglio alle spalle della giovane madre. Max J. Friedländer e Jakob Rosenberg hanno citato sei diverse varianti di quest'opera, datando il dipinto di Anversa a dopo il 1537.





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A partire dal 1529, le rappresentazioni della Carità da sola entrano a far parte dell'opera di Cranach. In questi dipinti, Cranach isolò (e monumentalizzò) un soggetto che prima di allora era solitamente integrato in una serie di virtù e vizi. Cranach fu anche un innovatore in quanto le sue allegorie della Carità erano figure più o meno nude, poiché il velo trasparente non offriva altro che una foglia di fico simbolica, contribuendo allo stesso tempo ad aumentare il piacere visivo.


Rappresentando la Caritas nuda, o Carità, circondata da tre bambini, il protestante Cranach infondeva al suo soggetto e al dipinto una qualità di amore materno; l'artista, tuttavia, era più interessato alla rappresentazione fisica che agli aspetti simbolistici della pittura. I nudi di Cranach, che fanno parte della sua serie con la stessa donna, sono facilmente riconoscibili ed egli li ha più volte glorificati facendoli apparire in scene mitologiche e bibliche. (Mar L8v)


view post Posted: 21/11/2023, 21:42 by: Milea     +1Giuseppe Abbati - Chiostro di Santa Croce - I Macchiaioli



Giuseppe Abbati
Via di campagna con cipressi
1863 - 1865
olio su tela - 28 x 38 cm.
Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti, Firenze


Citata anche col titolo “Via di campagna con cipressi” o “Strada toscana”, l’opera è stata esposta per la prima volta a Roma nel 1956. La datazione corrisponde al periodo in cui Abbati dipinge, oltre che a Castiglioncello, anche nei dintorni di Firenze: proposta convincente se si confronta questo dipinto ad altri capolavori di quegli anni come “Le mura di San Giminiano” o “La via di Montughi” di Abbati o la si mette in rapporto con “Radura nel bosco” di Sernesi, opera concepita probabilmente negli anni del sodalizio artistico di Piagentina.

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Giuseppe Abbati
L’Arno alla casaccia
1863 circa
olio su tela - 27 x 38 cm.
Collezione privata


Oltre Porta della Croce, uno degli edifici più antichi eretto lungo l’Arno, era “La Casaccia” in località Bellariva, una bella villa quattrocentesca con un ampio loggiato che dà sul fiume, più volte danneggiata dalle piene dell’Arno e quindi ricostruita Si dice fosse appartenuta prima alla famiglia Alighieri, poi a Giuliano di Jacopo che vi aprì una bottega d’arte ed infine alla famiglia livornese dei Tommasi. Sin dal primo costituirsi della cosiddetta scuola di Piagentina, Giuseppe Abbati prese parte alle esperienze che Silvestro Lega, Telemaco Signorini, Odoardo Borrani, Raffaello Sernesi conducevano in quella zona, corrispondente oggi a un tratto del lungarno Colombo. Ritrassero spesso quello scorcio della periferia fiorentina, dalla stagione in cui, sull’esempio di Lega, avevano preso l’abitudine di recarvisi a dipingere. [...] Quanto furono piene di passione, di entusiasmo, di attività febbrile, quelle belle giornate passate [...] in quel piccolo e studioso cenacolo di amici (...) E quali deliziose giornate furono quelle passate dipingendo lungo le arginature dell’Affrico, o fra i pioppi sulle rive dell’Arno. (Telemaco Signorini, Per Silvestro Lega, Firenze 1896).





Nell’ora mattutina, la sagoma della città avvolta nella luce sospesa dell’alba si delinea con delicatezza sul cielo lattiginoso che si riflette a specchio nell’acqua quasi immobile del fiume, dove una barca dondola lenta. Eseguita attorno al 1863, quando ormai da tempo Giuseppe Abbati partecipava al “piccolo e studioso cenacolo” di Piagentina, la veduta riflette la disposizione spirituale di quegli artisti che si erano ritirati a dipingere lontano dalla confusione della città, dedicandosi con coscienza critica alla ricomposizione della realtà attraverso rigorose analogie formali, secondo le indicazioni della filosofia positivista più aperta e meno sistematica.





Nella quiete della campagna, essi applicarono il metodo dell’analisi lenta e meditata, infondendo ai soggetti semplici e quotidiani che erano a loro cari il tono solenne e astraente delle predelle quattrocentesche toscane, sottolineate da una tavolozza ricca di colori complementari. Il dipinto, che non fu completamente ultimato come si denota dalla figura del barcaiolo, fu acquistato nel 1928, in occasione dell’asta delle opere più prestigiose della collezione di Enrico Checcucci, da Arturo Toscanini.



Giuseppe Abbati
Lungo L’Arno
olio su tela - 31 x 77 cm.
Collezione privata




In questo momento di produzione dell’artista napoletano si colloca stilisticamente e cronologicamente anche l’opera “Lungo l’Arno” per il profilo delle colline fiorentine che appaiono sullo sfondo del dipinto, e “L’Arno alla Casaccia” conservato alla Pinacoteca di Bari, dove le argentee trasparenze sembrano rarefarsi al sole del mattino.



Giuseppe Abbati
L’Arno alla casaccia
1862 - 1863 circa
olio su tela - 23,6 x 47,6 cm.
Pinacoteca Metropolitana, Bari






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Giuseppe Abbati
Dalla cantina di Diego Martelli
1866 circa
olio su tavola - 38 x 29 cm.
Collezione privata


Tornato dalla prigionia, dopo la terza guerra di indipendenza, nel 1866, Abbati “prese stanza a Castelnuovo della Misericordia”, come ricorda Diego Martelli, “Ivi, tranquillo e solitario divideva il suo tempo tra la lettura, le lunghe passeggiate pedestri e lo studio dal vero”. E’ molto probabile che il dipinto in esame sia uno dei primi eseguiti dal pittore che ora a Castelnuovo volge la propria ricerca verso espressioni più sentimentali, soffuse di poesia per le cose semplici, pittoricamente risolte con una luce vibrante che suggerisce la molteplicità e la mutevolezza degli stati d’animo. (M.@rt)




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Giuseppe Abbati
Lungo l’Arno alle Cascine
1860 circa
olio su tela - 55 x 29,8 cm.
Collezione privata, Livorno



view post Posted: 21/11/2023, 16:52 by: Milea     +1Federico Zandomeneghi - Interno del Palazzo del Podestà - I Macchiaioli



Federico Zandomeneghi
Il giubbetto rosso
1895
olio su tela - 80 × 70 cm.
Collezione privata



view post Posted: 21/11/2023, 12:06 by: Milea     +1Raffaello Sernesi - La punta del Romito vista da Castiglioncello - I Macchiaioli

SernesiRadura-nel-bosco

Raffaello Sernesi
Radura nel bosco
1865 circa
olio su tela riportato su cartoncino - 21 x 15 cm.
Collezione privata, Livorno


view post Posted: 19/11/2023, 21:48 by: Lottovolante     +1VENERE DORMIENTE (Venere di Dresda) - Giorgione - ARTISTICA


Il piacere di Venere è gratissimo con l’astinenza:
così nel freddo piace il sole, nel sole piace l’ombra,
l’acqua piace a chi ha sete...

(Ovidio, Remedia amoris)





Giorgione (Terminata da Tiziano)
Venere dormiente (Venere di Dresda)
(Sleeping Venus)
1508
Olio su tela
108.5 x 175 cm
Dresda, Gemäldegalerie Alte Meister


L'opera è generalmente collegata alla testimonianza di Michiel che nel 1525 ebbe modo di vedere nella casa di Girolamo Marcello una Venere nuda con un puttino che "fo de mano di Zorzo de Castelfranco, ma lo paese et Cupidine forono finiti da Titano". Un restauro dell'Ottocento rivelò la presenza a destra di un angioletto, ben presto ricoperto, viste le pessime condizioni. Esso è ora visibile solamente in radiografia.


Alla fine del Seicento, allorchè giunse nelle collezioni reali di Sassonia, la Venere era ritenuta opera del Giorgione, opzione ripresa e collegata alla testimonianza di Michiel de Morelli. Da allora si è aperto un dibattito simile a quello che ha visto protagonista il "Concerto campestre" del Louvre, fra chi sostiene un parziale intervento di Tiziano e chi ritiene che il cadorino operò una completa ridipintura della tela.






Giorgione (Terminata da Tiziano)
Concerto campestre
(Pastoral Concert)
1510 circa
Olio su tela
110 x 138 cm
Parigi, Musée du Louvre


È questa l'opzione oggi considerata più credibile, in quanto i valori cromatici del paesaggio si pongono in linea con il Tiziano degli affreschi del Santo di Padova e dell'Amor Sacro e Amor Profano della Galleria Borghese di Roma (quindi fra il 1511 e il 1515 circa). Medesimo è il riferimento per la consistenza materica del cuscino e del drappo in cui è distesa Venere. Qualcosa di Giorgione resta nel corpo e nel volto della dea stessa ma è soltanto un ricordo, quasi una sorta di impostazione sottostante una pittura tono su tono che si è giorgionesca nella sua genesi ma è ormai pienamente tizianesca nella sua realizzazione "senza disegno". Quindi se questa è l'opera vista da Michiel, l'intervento di Tiziano va esteso ad un totale restauro della tela.





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Il dipinto ritrae una donna nuda, languidamente addormentata all'aperto, distesa su un telo bianco e un cuscino coperto da un drappo rosso, sullo sfondo di un paesaggio aperto (le case sono identiche a quelle del Noli me tangere di Tiziano). Come hanno confermato le analisi ai raggi infrarossi, Tiziano dovette riparare alcuni danni riducendo il lenzuolo ed ampliando il manto erboso, con l'aggiunta del drappo rosso. Sua è anche la massa rocciosa scura dietro la testa della donna, che dà l'idea di un anfratto sotto il quale la donna riposa; inoltre curò il cielo e il paesaggio, che da allora usò come repertorio: si trova identico nel "Noli me tangere" di Londra e speculare nell'"Amor Sacro e Amor Profano"





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Nonostante il pesante intervento tizianesco, l'invenzione del soggetto è attribuita interamente a Giorgione, che dovette anche aver impostato l'andamento dolce del paesaggio che riecheggia le forme del corpo nudo. Sottili implicazioni erotiche si trovano nel braccio alzato di Venere e nel posizionamento della sua mano sinistra sul suo inguine, che riprende la posa della Venus pudica (Venere pudica), sebbene aggiornandola a una posizione distesa. Si tratta però di un'atmosfera misuratamente sensuale e sognante, molto diversa dalle interpretazioni che daranno gli artisti successivi del tema, dove la donna ben sveglia si rivolge spudoratamente allo spettatore, esibendo apertamente la propria nudità, a volte senza neanche il gesto di coprirsi pudicamente.





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Come segnalato da Anderson il non comune soggetto iconografico è tratto dalla letteratura epitalamica antica e il quadro potrebbe quindi essere stato eseguito per le nozze di Girolamo Marcello. Secondo un'altra versione sarebbe invece il ritratto della sua amante. È infine da segnalare che Tiziano riprenderà questa composizione nella tela più tarda Venere di Urbino, verso il 1538. (Mar L8v)



view post Posted: 19/11/2023, 14:33 by: Milea     +1Giuseppe Abbati - Chiostro di Santa Croce - I Macchiaioli



Giuseppe Abbati
Casa sul botro
1863 circa
olio su tavola - 24 x 36,5 cm.
Collezione privata


Il meditatissimo impianto disegnativo costruisce per partiture cromatiche, intonate a una gamma pacata di tinte, che ha il suo culmine nel verde chiaro dell’erba nuova, la veduta solitaria della casa affacciata sul botro, il profondo e scosceso fossato, dove ristagna l’acqua. Il riflesso della casa e del pagliaio, che le sta di fianco, nell’acqua ferma del fiumiciattolo riconduce a unità spaziale l’immagine e attenua il tenore intellettualistico della composizione concepita per piani di colore nettamente definiti, che infondono alla visione, quasi astrattistica nel suo rigore geometrico, il tono lacerante di una contemplazione. Eseguito con ogni probabilità al tempo dei primi soggiorni del pittore a Castiglioncello, dove, dal 1862 (anno in cui la familiarità con Diego Martelli “era divenuta tenacissima ed intima”) egli ebbe l’opportunità di trascorrere lunghi mesi, durante i quali si dedicava con passione a dipingere all’aria aperta nella tenuta sul litorale livornese dell’amico, facendo proprie le teorie artistiche professate dai giovani frequentatori del Caffè Michelangiolo, tese a tradurre, secondo i dettami della disciplina positivista, la realtà circostante tramite severe analogie figurative che avevano nella pittura dei quattrocentisti toscani il loro precedente più illustre.



“Tutti […] quelli che ritornavano alle pure e antiche tradizioni dell’arte”, scriveva Martelli nel tentativo di far comprendere il metodo approntato da Abbati in questi studi dal vero a Castiglioncello, “si occupavano di trovare la teoria del chiaroscuro e dei rapporti di un colore con l’altro sia che si trovano accanto sullo stesso piano prospettico, sia se sono accanto sulla tela ma in piani prospettici differenti”. Martelli poi, consapevole del “carattere orgogliosissimo” e assolutamente individualista del pittore, “superiore per ingegno e cultura alla massa ignorante dei suoi compagni”, aggiungeva che l’adozione di un simile linguaggio imponeva una ricerca personalissima al fine di ottenere risultati “tutti propri”. Un bisogno di esprimere sentimenti e pensieri individuali che traspare dall’accorato tono lirico della “Casa sul botro”, una poesia che lascia intendere la “solitudine da far paura” di Abbati, la sua fatica spirituale per aver rinunciato all’emozione, sotto l’apparenza di una austerità, che deriva dalla applicazione rigorosa dell’analisi positiva.

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Giuseppe Abbati
Il Mugnone alle Cure
1865 circa
olio su tavola - 23 x 33,5 cm.
Collezione privata


La luce calda di un pomeriggio assolato investe il muro bianco eretto al margine del Mugnone, oltre il quale svettano i rami frondosi di un filare di alberi. Il cielo pallido, appena striato di nuvole ariose, si riflette nella poca acqua ferma del torrente, sopravvissuta alla calura estiva e così la veduta quieta e solitaria della periferia, estranea al frastuono della città moderna, si amplifica confacendosi alla serenità di spirito che l’ha ispirata. Se infatti, l’immagine è pervasa dall’atmosfera sospesa ed evocativa che distingue la produzione di Abbati a Piagentina, quando si recava nella campagna alle porte di Firenze, trascorrendo “deliziose giornate” lavorando “lungo le argitudine dell’Affrico, o fra i pioppi delle rive dell’Arno”, insieme a Silvestro Lega, Odoardo Borrani e a Raffaello Sernesi “in una continua rispondenza d’ideali artistici”. Una resa più toccante dei valori luministici e una stesura più palpitante, realizzata con rapidi tocchi di pennello e di velature delicate, che sfiorano la superficie e ammorbidisce i contorni, suggeriscono la datazione del dipinto ad un periodo appena successivo alle esperienze compiute da Abbati a Piagentina, quando l’artista trascura ogni implicazione narrativa del tema, per soffermarsi prevalentemente su problemi formali.


Nella tela in esame, al contrario, la luce avvolgente sostituisce quella severa e indagatrice imposta dall’analisi positivista e infonde alla scena il senso di una ritrovata disponibilità per l’espressione del sentimento. Il dipinto, o più propriamente lo studio, data l’estrema sottigliezza della materia pittorica che lascia intravedere il supporto, sia stato eseguito dopo il marzo di quell’anno, periodo in cui Abbati, insieme a Martelli e a Federico Zandomeneghi, lasciò l’appartamento di via dello sprone per trasferirsi fuori di porta San Gallo, a San Marco Vecchio, in una modesta casa di periferia, molto vicina alla zona raffigurata nel quadro. Il dipinto, considerato dal critico d’arte Dario Durbè una delle “opere più straordinarie e limpide” di Giuseppe Abbati, appartenne allo scultore Rinaldo Carnielo.

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Giuseppe Abbati
Paese di Vada nella Maremma
1867 circa
olio su tavola - 46,5 x 74 cm.
Collezione privata


Il quadro raffigura un tratto della costa maremmana con sullo sfondo, ben riconoscibile, il paese di Vada; si tratta di un paesaggio ampio, colto da un punto di vista leggermente rialzato, che accentua l’effetto di vastità solenne dell’insieme, dove da un primo piano in cui si intravedono figure di pescatori affaccendati alla loro barca, lo sguarda spazia lungo le insenature della spiaggia fino all’agglomerato di case raccolte intorno alla chiesa e al fortino. Grandi nuvole tempestose attraversano il cielo e creano scintillanti effetti di luce e d’ombra tra il cupo del mare e gli edifici colpiti dai raggi del sole al tramonto. Proprio questo sentimento struggente dell’ora e del trascorrere della luce sulle cose, assieme al gusto per una visione monumentale più ampia di quanto non fosse di solito usuale per l’artista, induce a supporre una datazione tarda dell’opera, al tempo del “Carro e bovi nella Maremma toscana”, e cioè nell’estate del 1867, periodo che Abbati trascorse appunto a Castiglioncello ospite di Diego Martelli, lavorando accanto a Odoardo Borrani e Giovanni Fattori.


Un contesto di particolare intensità creativa che se particolarmente tormentato, frutto della concentrazione assoluta che l’artista si era imposto da quando, nell’inverno precedente, si era stabilito a Castelnuovo della Misericordia, nei pressi della tenuta dell’amico, dove aveva vissuto isolato, fra difficoltà quotidiane di sopravvivenza e meditazioni artistiche. Quali sarebbero stati gli esiti ulteriori di questa pittura dalla forte carica emozionale, che sembra voler contraddire la razionalità pausata del positivismo abbatiano, è impossibile sapere: l’artista morì pochi mesi dopo. La tavola in esame, faceva parte del materiale dello studio di Abbati, messo in vendita alla Promotrice veneziana, dopo la sua morte dall’amico e collega Federico Zandomeneghi, per sopperire alle necessità della famiglia dell’artista. (M.@rt)






Edited by Milea - 19/11/2023, 22:46
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