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view post Posted: 5/12/2023, 21:26     +10Perché gli asini hanno il muso bianco (mito arabo) - Favole, miti e leggende

Perché gli asini hanno il muso bianco

(mito arabo)


Tutti sanno che l’asino è l’animale più paziente e che più di tutti gli altri può essere caricato sino all’inverosimile. L’asino sopporta tutto: ci si rende conto di quanto si pretende da lui solo quando muore per la fatica, e allora vuol dire che era davvero troppo carico. Gli asini patiscono le maggiori pene dai bambini, soprattutto quando questi li portano al pascolo. Come si sa, i bambini lo percuotono con bastoni, gli tirano pietre, gli saltano in groppa e si fanno trasportare in cinque o sei alla volta. L'asino, sempre paziente, li lascia fare senza mai opporsi.

Ma un bel giorno, alcuni angeli si rivolsero al Signore dei Mondi e gli dissero: “Signore! Osserva l’asino. E’ l’immagine della pazienza e della resistenza. Non pensi che anche lui avrebbe diritto al Paradiso?”. Il Signore diede subito ragione agli angeli e, senza esitare, ordinò che l’asino fosse condotto in Paradiso. Gli angeli, allora, volarono subito dall’asino per comunicargli la buona notizia, prenderlo con loro e condurlo all’ingresso del Paradiso.

Appena giunti davanti alla grande e lucente porta del Paradiso, l’asino incuriosito sporse il muso per guardare, ma subito si irrigidì e non volle più proseguire. Gli angeli non capivano, non si spiegavano il suo comportamento. Provarono e riprovarono, prima delicatamente e poi con forza, a spingere la bestia al di là della porta, ma niente, non c’era verso. L’asino aveva, con circospezione, infilato solo il muso e subito si era fermato come paralizzato. Ma cosa stava succedendo? Perché l’asino non voleva in nessun modo entrare all’interno di quel mondo magicamente perfetto e felice?



Filippo Palizzi (Vasto, 1818 - Napoli, 1899)
Monelli
1872
olio su tela - 35 x 50 cm.
Pinacoteca di Palazzo Pitti, Firenze


Non passò molto che gli angeli capirono il motivo: a spaventare l’asino sino a non farlo più proseguire era stato il gran numero di fanciulli che aveva visto sporgendosi dalla porta del Paradiso. Era troppa la paura che aveva dei bambini, aveva subito tanti maltrattamenti da loro. Gli angeli, a malincuore, dovettero rinunciare a farlo entrare tra i prediletti del Paradiso e lo riaccompagnarono al suo pascolo. Appena tornato sulla terra, tutti però si accorsero del cambiamento dell’asino. L’animale non era entrato in Paradiso, ma ci aveva infilato il muso che, illuminato dalla folgorante luce divina, era diventato bianco. Fu così, che da allora, tutti gli asini nacquero con quella caratteristica. Ecco perché oggi l’asino ha il muso bianco!



Filippo Palizzi (Vasto, 1818 - Napoli, 1899)
Stalla con due asinelli e tre figure
1871
olio su tela - 45 x 62 cm.
Raccolte Frugone, Musei di Nervi, Genova




view post Posted: 5/12/2023, 14:10     +2Alfons Maria MUCHA: vita e opere - ARTISTICA

Mistletoe-Portrait-of-Mme-MuchaP

Alfons Maria Mucha (1860 - 1939)
Vischio. Ritratto di Mme Mucha (Mistletoe. Portrait of Mme Mucha)
1903
acquerello e gouache su lino - 54 x 36,5 cm.
Collezione privata


Jiří Mucha (Praga,1915 - 1991) giornalista, scrittore, sceneggiatore, autore di romanzi autobiografici e di studi sulle opere del padre, il pittore Alphonse Mucha, nel 1966 suggerì che l’opera in questione fosse un ritratto idealizzato della madre (Marie (Maruška) Chytilová), che il padre aveva incontrato per la prima volta a Parigi nell’autunno del 1903. Maruška e Alphonse si sposarono nel 1906 a Praga. Maruška era molto istruita e colta, appassionata di musica e di arte. Mucha dipinse un altro ritratto di lei nel dicembre del 1903, in un formato più intimo ed eseguito a pastello.


L’opera in esame raffigura Maruška in una posa sinuosa, simile al ritratto di Mme Bergès dipinto nel 1900. L’abilità di Mucha nell’acquerello e nella gouache è evidente e la squisita resa del viso e degli abiti accentua la bellezza e il fascino della donna. Il vischio le adorna il capo come un’aureola e lei tiene una composizione a cascata nella mano sinistra. Lo sguardo diretto di Maruška cattura l’attenzione dello spettatore; ella siede sulla poltrona preferita di Mucha, vista in un autoritratto e anche in una fotografia del suo studio, nel suo appartamento di rue du Val de Grâce.

Alphonse-Mucha-nel-suo-studio

Alphonse Mucha nel suo studio


Jiří Muchain, uno dei suoi scritti, affermò anche che il disegno sullo sfondo era sulla prima pagina della pubblicazione Chansons d’Aieuls e la figura femminile a sinistra apparve sulla copertina di Chant Eternel di Paul Redonel. (M.@rt)







view post Posted: 5/12/2023, 12:48     +8La magia delle Lucciole nelle leggende popolari - Favole, miti e leggende

La lucciola e il ragno


(favola popolare)


Tanto tempo fa, quando gli animali potevano parlare, un ragno invitò a cena una lucciola. La lucciola si preparò e, quando calò la sera, andò all’appuntamento. Entrò nel bosco scuro e raggiunse la siepe dove abitava il ragno. “Bene arrivata!”, disse lui. “Da dove passo?”, chiese la lucciola. “E’ talmente buio che non vedo la porta”. “Di qua, ma spicciati, che ho una fame da lupo”. La lucciola avanzò al buio. Dovete sapere che durante il giorno il ragno aveva tessuto una tela grande e robusta e l'aveva appesa davanti alla sua tana. Povera lucciola, stava finendo nella rete come un pesce!
“Avanti, un’altra mossa e sei arrivata!”. gridò ancora lui. Ma ecco, accadde qualcosa di inaspettato. La luna spuntò improvvisamente da dietro una nuvola e illuminò la scena. Com’era grande la tela del ragno! La lucciola la vide, si spaventò e fuggì via. Che fortuna, si era salvata! Ma che rischio aveva corso, andando in giro di notte al buio! “Da oggi alla sera uscirò solo con una lanterna!”, esclamò quando fu di nuovo a casa. E da allora la lucciola fa sempre così, perché ha imparato che fidarsi è bene, ma non fidarsi è meglio.


Lucciole da realizzare e colorare








view post Posted: 3/12/2023, 21:56     +10La magia delle Lucciole nelle leggende popolari - Favole, miti e leggende

La luna e le lucciole

(leggenda estone)


Un giorno Paigar, il signore del cielo, disse alla moglie: “Prepara una grande torta per tutte le nostre figlie, le stelle, che hanno molta fame e desiderano mangiare.” La moglie prese uova, farina e miele al lavoro. Le sue mani si mossero veloci e infaticabili e impastarono una torta gigantesca, morbidissima e dalla crosta dorata e luccicante. Quando le stelle la videro, brillarono più forte. “Guarda che splendida torta! Non possiamo aspettare che la mamma la tagli. Assaggiamola subito!”

Le stelle si buttarono golose sulla torta: una tirava di qua, un’altra spingeva di là, un’altra ancora affondava i denti nella soffice pasta, una pizzicava le sorelle perché facessero un po’ di posto, un’altra le prendeva per le tracce… In mezzo a tutta quella confusione, un grosso pezzo di torta, ridotto in briciole, precipitò a terra. La mamma scoppiò in lacrime: “Ho fatto tanta fatica a preparare questa torta e adesso guarda qua che disastro!”


Paigar prese quel che rimaneva del dolce squisito, poco più di un quarto, e lo appese in cielo, in alto in alto, in modo che le figlie non potessero prenderlo: era nata la Luna. E perché nulla andasse sprecato, trasformò le briciole cadute in insetti luminosi: aveva creato le Lucciole. Fatto questo, si girò verso le figlie golose: “Per punizione voi non mangerete più dolci per un bel po’!”

Poi si rivolse alla moglie che si stava asciugando le lacrime, le sorrise e le disse: “Guarda in su: vedi come splende il tuo pezzo di torta? Splenderà così per sempre e nessuno riuscirà mai a mangiarselo! Guarda in giù: vedi come brillano le briciole che tu credevi perdute? Sono divenute un pezzetto di firmamento regalato ai prati della Terra…



Vincent van Gogh
Notte stellata sul Rodano (Starry night on the Rhone)
1888
olio su tela - 72 x 92 cm.
Parigi, Musée d’Orsay



view post Posted: 3/12/2023, 12:19     +8La magia dell’Arcobaleno nelle leggende - Favole, miti e leggende

L’arcobaleno


(mito delle Filippine)


Ci fu un’epoca in cui gli dèi e le dee trascorrevano gran parte del loro tempo sulla Terra, accanto agli uomini. Da loro l’uomo imparò ad andare a caccia, a coltivare i campi, a cogliere le noci dalle palme più alte, a curare le malattie, e purtroppo anche a fare la guerra.

Un giorno Bàthala, il re degli dèi, decise di tornare nella sua casa celeste per vedere se tutto era in ordine; perciò sellò il suo cavallo, che era capace di correre più veloce del vento e delle nuvole. Appena il padrone gli saltò in groppa, il cavallo cominciò a galoppare senza mai fermarsi, e in un lampo arrivò sulla riva dell’oceano.
In quel punto il cielo era così vicino che si potevano sentire le voci di coloro che vivevano lassù. “Salta, mio bel cavallino!” gridò Bàthala. Ma il cavallo indietreggiò, puntando i piedi: quel salto era troppo anche per lui.

Allora Bàthala chiamò i suoi servi celesti, che calarono dall’alto un lungo nastro di sette colori. Quando il nastro toccò la Terra diventò un ponte abbastanza robusto da reggere cavallo e cavaliere, che galopparono sino al Cielo. Così nacque l’arcobaleno, che nelle Filippine si chiama bahaghari, che vuol dire “il ponte del re”. Ogni volta che lo si vede in cielo, la gente sa che il dio e il suo cavallo stanno andando dalla Terra al Cielo.




Camille Pissarro (1830 - 1903)
Paesaggio con arcobaleno (Paysage avec arc-en-ciel)
1889
matita e acquerello su seta - 30,2 x 59,7 cm.
Van Gogh Museum, Amsterdam






Edited by Milea - 7/12/2023, 10:53
view post Posted: 3/12/2023, 10:21     +8La magia dell’Arcobaleno nelle leggende - Favole, miti e leggende

La magia dell’Arcobaleno nelle leggende

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La leggenda dell’arcobaleno

(leggenda pellerossa)


Gli indiani dell’Ovest conoscono una leggenda che narra come per la prima volto l’arcobaleno spuntò nel cielo. Faceva un caldo soffocante; l’aria calda tremolava sulla prateria arida, i laghi e i fiumi erano secchi e la gente cercava rifugio all’ombra e si lamentava: “Ahimè, finiremo col morire tutti! La selvaggina è fuggita lontano in cerca di acqua. I pesci boccheggiano nel fango”.

Un piccolo serpente squamoso udì per caso quei lamenti; uscì dal suo nascondiglio e, con grande sorpresa di tutti, parlò con voce umana: “Io possiedo grandi poteri magici e posso aiutarvi. Lanciatemi in alto, nel cielo.”
“Ma ricadrai giù e morirai”, disse lo sciamano della tribù. “No, non cadrò. Mi attaccherò al cielo con le mie squame e le userò per carpire un po’ di pioggia e di neve per voi. I prati del cielo, forse non lo sapete, sono fatti di ghiaccio azzurro” rispose lo stregone.

Lo stregone non trovò nient’altro da ribattere e, raccolto il serpente, lo arrotolò e lo lanciò nel cielo limpido. Il serpente, volando alto nel cielo, si srotolò crescendo a dismisura, finché il suo corpo non fece un arco sulla Terra e il dorso squamoso giunse a grattare il ghiaccio azzurro. Il ghiaccio si sciolse e la pioggia cadde abbondante. Il corpo del serpente, nello sforzo, cominciò a cambiare colore, dal rosso al giallo, al verde. Era nato l’Arcobaleno.



Joaquín Sorolla y Bastida
El arco iris, El Pardo
1907
olio su tela - 62,5 x 91 cm.
Madrid, Museo Sorolla


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Il ponte dell’Arcobaleno

(leggenda delle tribù degli Indiani d’America)


Proprio alle soglie del Paradiso esiste un luogo chiamato il Ponte dell’Arcobaleno. Quando muore un animale che ci è stato particolarmente vicino sulla terra, quella creatura va al Ponte dell’Arcobaleno. E’ un posto bellissimo dove l’erba è sempre fresca e profumata, i ruscelli scorrono tra colline ed alberi ed i nostri amici a quattro zampe possono correre e giocare insieme.
Trovano sempre il loro cibo preferito, l’acqua fresca per dissetarsi ed il sole splendente per riscaldarsi, e così i nostri cari amici sono felici: se in vita erano malati o vecchi qui ritrovano salute e gioventù, se erano menomati o infermi qui ritornano ad essere sani e forti così come li ricordiamo nei nostri sogni di tempi e giorni ormai passati…

Qui i nostri amici che abbiamo tanto amato stanno bene, eccetto che per una piccola cosa, ognuno di loro sente la mancanza di qualcuno molto speciale che ha dovuto lasciarsi indietro. Così accade di vedere che durante il gioco qualcuno di loro si fermi improvvisamente e scruti oltre la collina, tutti i suoi sensi sono in allerta, i suoi occhi si illuminano e le sue zampe iniziano a correre velocemente verso l’orizzonte, sempre più veloce.

Ti ha riconosciuto e quando finalmente sarete insieme, lo stringerai tra le braccia con grande gioia, una pioggia di baci felici bagnerà il tuo viso, le tue mani accarezzeranno di nuovo l’amata testolina e i tuoi occhi incontreranno di nuovo i suoi sinceri che tanto ti hanno cercato, per tanto tempo assenti dalla tua vita, ma mai dal tuo cuore. E allora insieme attraverserete il Ponte dell’Arcobaleno per non lasciarvi mai più…




Pieter Paul Rubens
Paesaggio con arcobaleno (Landscape with Rainbow)
1636 circa
olio su tavola - 135,6 x 235 cm.
Londra, Wallace Collection


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Come nacque l’arcobaleno

(leggenda popolare)


Tanto tempo fa i colori litigavano furiosamente; ognuno di essi si proclamava di essere il migliore in assoluto, il più importante, il più utile, il favorito.

Il VERDE disse: “Chiaramente il più importante sono io; sono il segno della vita e della speranza. Io sono stato scelto dall’erba, dagli alberi, dalle piante. Senza di me tutti gli animali morirebbero. Guardatevi intorno nella campagna e vedrete che io sono in maggioranza…”

Il BLU lo interruppe: “Tu pensi solo alla terra, ma non consideri il cielo ed il mare! E’ l’acqua la base della vita che viene giù dalle nuvole nel profondo del mare. Il cielo dà spazio, pace e serenità. Senza di me voi non sareste niente.”

Il GIALLO rilanciò: “Voi siete tutti così seri! Io porto sorriso, gioia e caldo nel mondo. Il sole è giallo, la luna è gialla, le stelle sono gialle. Quando fioriscono i girasoli, il mondo intero sembra sorridere. Senza di me non ci sarebbe allegria.”

L’ARANCIONE si fece largo: “Io sono il colore della salute e della forza. Posso essere scarso, ma prezioso perché io servo per il bisogno della vita umana. Io porto con me le più importanti vitamine. Pensate alle carote, zucche, arance, mango e papaia. Io non sono presente tutto il tempo, ma quando riempio il cielo nell’alba e nel tramonto, la mia bellezza è così impressionante che nessuno pensa più ad uno solo di voi.”

Il ROSSO poco distante urlò: “Io sono il re di tutti voi. Io sono il colore del sangue ed il sangue è vita, è il colore del pericolo e del coraggio. Io sono pronto a combattere per una causa, io metto il fuoco nel sangue, senza di me la terra sarebbe vuota come la luna. Io sono il colore della passione, dell’amore, la rosa rossa, il papavero.”

Il VIOLETTO si eresse in tutta la sua altezza. Era molto alto e parlò con voce in pompa magna: “Io sono il colore dei regnanti e del potere. Re, capi e prelati hanno sempre scelto me perché sono il segno dell’autorità e della sapienza. Le persone non domandano… mi ascoltano ed obbediscono!”

Infine parlò l’INDACO molto serenamente, ma con determinazione: “Pensate a me: io sono il colore del silenzio, voi difficilmente mi notate, ma senza di me diventate tutti superficiali. Io rappresento il pensiero e la riflessione, il crepuscolo e le acque profonde. Voi tutti avete bisogno di me per bilanciare e contrastare, per pregare ed inneggiare alla pace.”

E così i colori continuarono a discutere ognuno convinto di essere superiore agli altri. Litigarono sempre più violentemente senza sentire ragioni. Improvvisamente un lampo squarciò il cielo seguito da un rumore fortissimo. Il tuono e la pioggia che seguì violenta, li impaurì a tal punto che si strinsero tutti insieme per confortarsi.

Nel mezzo del clamore la PIOGGIA iniziò a parlare: “Voi sciocchi colori litigate tra di voi e ognuno cerca di dominare gli altri. Non sapete che ognuno di voi è stato fatto per un preciso scopo unico e differente? Tenetevi per mano e venite con me”. Dopo che ebbero fatto pace, essi si presero tutti per mano. La PIOGGIA continuò: “D’ora in poi, quando pioverà ognuno di voi si distenderà attraverso il cielo in un grande arco di colori per ricordare che voi vivete tutti in pace. Era nato l’.





Edvard Munch
L'arcobaleno (The Rainbow)
1898
olio su cartone - 70 x 72 cm.
Oslo, Munch Museum






Edited by Milea - 3/12/2023, 10:59
view post Posted: 2/12/2023, 13:26     +10La magia delle Lucciole nelle leggende popolari - Favole, miti e leggende

La magia delle Lucciole nelle leggende popolari

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La leggenda della Lucciola


Ad adorare il bambino Gesù nella capanna di Betlemme insieme con gli altri animali accorsero anche gli insetti; per non spaventare il piccolo restarono in gruppo sulla soglia. Ma Gesù, con un gesto delle rosee manine, li chiamò ed essi si precipitarono, portando i loro doni. L’ape offrì il suo dolce miele, la farfalla la bellezza dei suoi colori, la formica un chicco di riso, il baco un filo di finissima seta. La vespa, non sapendo che cosa offrire, promise che non avrebbe più punto nessuno, la mosca si offrì di vegliare, senza ronzare, il sonno di Gesù.

Solo un insetto piccolissimo non osò avvicinarsi al Bambino, non avendo nulla da offrire. Se ne stette timido sulla porta; eppure avrebbe tanto voluto dirgli il suo amore. Ma, mentre con il cuore grosso e la testa bassa stava per lasciare la capanna, udì una vocina: “E tu, piccolo insetto, perché non ti avvicini?” Era Gesù stesso che glielo domandava. Allora, commosso l’insetto volò fino alla culla e si posò sulla manina del Bambino. Era così emozionato per l’attenzione ricevuta, che gli occhi gli si colmarono di lacrime. Scivolando giù, una di queste, cadde proprio sul piccolo palmo di Gesù.

“Grazie”, sorrise il Bambinello. “Questo è un regalo bellissimo”. In quel momento un raggio di luna, che curiosava dalla finestra, illuminò la lacrima. “Ecco è diventata una goccia di luce!” disse Gesù sorridendo.
“Da oggi porterai sempre con te questo raggio luminoso e ti chiamerai lucciola.” Si dice che chi sogna una lucciola riceverà un dono inatteso, inoltre sono associate alla leggerezza della vita e lo stupore infantile



Suzuki Harunobu (1725-1770)
Alla ricerca di lucciole
1768 circa
Stampa su blocchi di legno a colori - 28,2 × 20,3 cm.
Collezione di Clarence Buckingham, Art Institute, Chicago



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La Lucciola e del Grano


Un tempo, le lucciole erano soltanto piccoli insetti scuri che vagavano per i campi di grano. Un giorno una di loro sentì un contadino che esclamava: “C’è un tesoro qui!”. La sera la piccola lucciola andò a riferirlo alle compagne, che l’ascoltarono meravigliate, senza saper che fare. Ma la regina, più astuta, propose: “Se c’è un tesoro, andiamo a prenderlo! Domani, di notte per non farci vedere dal contadino, andiamo, ognuna con un lumino piccolo piccolo, a cercarlo!“. Le lucciole uscirono, ognuna con il suo lumino, ma non trovarono il tesoro. Da allora, ogni notte d’estate lo cercano ancora, senza sapere che il tesoro è il grano.


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La Lucciola e gli abiti delle spose


Due bravissime sarte, sorelle ma povere, una sera dovevano terminare assolutamente per l’indomani l’abito da sposa della ricca figlia del mugnaio. Lavorando e lavorando, arrivarono a consumare tutte le candele che avevano in casa, e non sapevano più come fare. Abitavano in una casetta nel profondo del bosco, la notte era senza luna e loro si accorsero di non avere nemmeno più l’olio da mettere nelle lucerne. I loro lamenti, raccolti dal camino, furono uditi dal popolo delle lucciole, cui loro davano sempre da mangiare fiori e miele. Le lucciole allora discesero tutte dalla cappa del camino e illuminarono la stanza con milioni e milioni di lucine finché, sul far del giorno, il vestito fu pronto.

La figlia del mugnaio pagò molto bene l’abito ma non seppe mai spiegarsi il luccichio lunare che aveva la stoffa. Da allora le due sorelle cuciono abiti da sposa nella loro casa nel bosco, e le lucciole si tengono pronte ad andare a far luce con il loro lumino che conferisce ai tessuti lo splendore della luna. Noi le vediamo nelle sere d’estate mentre si avviano verso quella casa.

view post Posted: 1/12/2023, 14:51     +5CLIZIA (CLYTIE) - Evelyn de Morgan - ARTISTICA

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Evelyn de Morgan
(Mary Evelyn Pickering de Morgan,1855 -1919)
1886 - 1887
Clizia (Clytie)
olio su tela - 106 x 44.5 cm.
Collezione privata


“Clytie” è un’opera iconica tra i dipinti allegorici di Evelyn Pickering, la principale donna preraffaellita e sostenitrice dei movimenti estetico e simbolista. Formatasi sotto la guida dello zio Roddam Spencer Stanhope e alla Slade School of Art, a metà dei suoi vent’anni trascorse gli inverni a Firenze, dove conobbe e trovò ispirazione nelle opere di Botticelli. Dal 1877 espose regolarmente alla Grosvenor Gallery di Londra e nel 1887, lo stesso anno in cui completò l’opera in esame, sposò il ceramista e romanziere William de Morgan, uno dei leader del movimento Arts and Crafts. Amico da sempre di William Morris, disegnò piastrelle, vetri colorati e mobili per Morris & Co. dal 1863 al 1872.


Nel corso di quasi cinquant’anni di carriera, Evelyn de Morgan, producendo oltre cento dipinti, disegni e sculture, si distinse dai contemporanei per la sua attenzione allo spiritismo e al corpo femminile, in un momento in cui la società vittoriana gli imponeva dei limiti.
La singola figura femminile, nuda in un paesaggio dall’orizzonte basso, era un soggetto che l’artista londinese rivisitava regolarmente, spesso attingendo a note narrazioni mitologiche e letterarie che presentavano personaggi psicologicamente complessi e forti; il presente lavoro non fa eccezione.


In questo suggestivo dipinto, Evelyn de Morgan interpreta la storia della ninfa Clytie, figlia del re di Babilonia. Come racconta Ovidio nelle sue Metamorfosi, Clitia si innamora del dio del sole, Apollo, e quando questi l’abbandona per un’altra, si spoglia e si siede nuda sulle rocce al sole, nutrendosi solo delle sue lacrime. Ogni giorno, dall’alba al tramonto, fissa il carro del sole, guidato dal suo ex amante, mentre viaggia nel cielo. Il nono giorno si trasforma in un girasole (emblema popolare del movimento estetico), che gira la testa per contemplare con nostalgia il suo amato.


Il tema della donna che si trasforma in fiore o pianta affascinava gli artisti vittoriani del XIX secolo, da Edward Burne-Jones che illustrò la storia di Phyllis, che in preda all’angoscia per la scomparsa dell’amato Demapone si uccide ma viene trasformata in un mandorlo per pietà dagli dei, nel suo “Tree of Forgiveness”, esposto nel 1882 alla Grosvenor Gallery.

Nell’affrontare la storia di Clytie, molti artisti dell’epoca ritraggono la ninfa rivolta verso il cielo, un riferimento al potere di Apollo sulla ninfa devota e alla sua incapacità di determinare le proprie azioni. Nella versione di Clytie di Frederic Leighton, il suo ultimo dipinto che rimase incompiuto nel suo studio, la ninfa è raffigurata in ginocchio con la testa rivolta all’indietro e le braccia tese verso il cielo. Nella sua interpretazione, invece, Evelyn de Morgan ritrae Clytie in piena trasformazione, mentre i girasoli ai suoi piedi avvolgono le gambe del suo corpo slanciato. Girata pacificamente verso il basso, con gli occhi chiusi, appoggia delicatamente le mani sulla corona del capo per ripararsi dai potenti raggi di Apollo. Non è più definita solo in base alle azioni del suo amante.


Evelyn de Morgan completò uno studio a pastello dell’opera in esame nel 1885 e il reverendo George Tugwell acquistò l’affascinante composizione direttamente dall’artista nel 1907. Il 14 ottobre 1907 scrisse: “Il suo Clytie è appeso nella nostra saletta della prima colazione tra la porta scorrevole e l’armadietto delle porcellane, la luce migliore che possiamo trovare al momento. Sta molto bene, è la luce della stanza e ne sono entusiasta... quando ci rivedremo potrò... parlare dell’eventuale rimozione di due foglie del girasole”. Il giorno dopo, l'artista rispose gentilmente: “Sono molto contenta che Clytie le piaccia e mi fa molto piacere che abbia trovato una casa nella sua bella valle di Lee. Riguardo a ciò che dice sulle foglie, temo che qualsiasi modifica sarebbe impossibile, poiché il quadro è stato dipinto con un metodo particolare per ottenere la brillantezza del colore e verniciato, cosicché qualsiasi tentativo di modifica ora danneggerebbe la qualità del dipinto”. (M.@rt)





view post Posted: 30/11/2023, 17:12     +16La leggenda di Colapesce - Favole, miti e leggende

La leggenda di Colapesce

(leggenda siciliana)




Renato Guttuso
Mito di Colapesce
1985
quarantatrè pannelli a olio
Teatro Vittorio Emanuele, Messina


C’era una volta, tanto tempo fa, un ragazzo di nome Nicola, detto Cola, figlio più piccolo di una numerosa famiglia di pescatori, che viveva a Messina, in una capanna vicino alla spiaggia. Sveglio, agile e vigoroso, sin dalla prima infanzia aveva dimostrato di essere molto legato al mare. La sua gioia più grande era quella di tuffarsi tra le onde, e nuotare per ore e ore sott’acqua. Non si sa come egli potesse rimanere tutto quel tempo immerso senza sentire il bisogno di venire a galla e respirare e, quando finalmente risaliva alla superficie e tornava a casa, raccontava ai genitori e ai fratelli tutte le meraviglie che aveva visto negli abissi marini. Laggiù in mezzo a rovine di antichissime città inghiottite dai flutti, egli diceva di aver visto fantastiche foreste di corallo rosso, rosa e bianco, fiori di magnifici colori, grotte schiarite da bagliori fosforescenti, pesci di ogni sorta, forma e dimensione, e giganteschi mostri marini che lottavano fra loro in modo terribile.

Tutti lo credevano matto, a cominciare dalla sua stessa famiglia, per queste storie incredibili; la madre era disperata, non sapeva più che fare con questo figlio scansafatiche, che non solo non provvedeva a lavorare, ma si permetteva di ributtare in mare i pesci che il padre ed i fratelli avevano appena pescato... e tutto questo perché lui amava le creature del mare e non sopportava che qualcuno le uccidesse. Disperando di ridurlo al dovere, lo maledisse, dicendogli: “Possa tu diventar pesce!”. La maledizione ebbe effetto: subito le sue carni si coprirono di squame e le mani e i piedi divennero simili a zampe d’anatra. Gli abitanti del paese, che seguivano con curiosità le imprese del giovane, lo soprannominarono Colapesce, perché per loro era mezzo uomo e mezzo pesce; alcuni marinai giuravano di aver visto le branchie sotto le sue orecchie.

La genti lu chiamava Colapisci
pirchì stava ‘nto mari comu ‘npisci
dunni vinìa non lu sapìa nissunu
fors’ era figghiu di lu Diu Nittunu


Un giorno il ragazzo raccontò di aver trovato una nave naufragata che conteneva un immenso tesoro; in breve tempo Cola riuscì a recuperare tutto l’oro, l’argento, le gemme e gli oggetti preziosi che erano sulla nave, permettendo così ai suoi cari di vivere agiatamente. Le storie meravigliose da lui raccontate fecero in breve tempo il giro dell’isola: la sua fama di ottimo nuotatore e audace esploratore degli abissi marini, si diffuse in tutta la Sicilia. Di lui si raccontavano imprese mirabolanti su come avesse salvato intere navi ed equipaggi dalle tempeste e di come sapesse giungere a nuoto sino alla Campania e alla Puglia.


La fama di Nicola arrivò alle orecchie di Ruggero d’Altavilla, duca di Puglia e Calabria e primo sovrano del neonato Regno di Sicilia, che incuriosito da questo strano personaggio, volle conoscerlo per constatarne le capacità strabilianti, che fino ad allora sembravano frutto dell’immaginazione dei marinai dello Stretto di Messina. Così il re, circondato dalla sua corte di cavalieri e principesse decise di recarsi in Sicilia per interrogarlo sulle sue esperienze e sulle creature degli abissi. Salito su una barca, si fece trasportare nel mezzo dello stretto, dove sostava la nave ammiraglia presso la quale i due si incontrarono.

Dalla sua galea, Ruggero e sua sorella Boemonda, videro un uomo aggrappato al fianco di un giocoso delfino; fu fatto salire a bordo per scrutarne lo strano aspetto. Pelle scura, con a tratti riflessi iridati tipici delle squame, occhi sporgenti, guance cascanti, labbra enormi e testa che ricordava vagamente una triglia; i capelli lunghi e ingarbugliati sembravano una matassa di alghe.



Il fisico era asciutto e ben proporzionato e appena iniziò a parlare con voce melodiosa, come modulata dai flutti dell’acqua, raccontò di come sapesse nuotare a grandi profondità, giocando con le murene tra le formazioni di spugne e coralli e cavalcando i delfini; descrisse le strane creature che aveva visto negli abissi: tonni, pesci spada, balene, e il temibile calamaro gigante che giaceva nei fondali dello Stretto e i cui tentacoli, quando la sua testa toccava Messina, arrivano fino in Calabria.

Raccontò anche di aver intravisto le sirene una volta, udendo i loro soavi canti e di quella volta che, spingendosi più sul fondo marino, aveva scoperto navi sommerse e grandi praterie di alghe, che si muovevano come i prati della Sicilia agitati dal vento e di quando era sopravvissuto per miracolo all’attacco di una grossa piovra. I pescatori, giunti tutti intorno con le loro barche per ascoltarlo, narrarono di quella volta in cui Cola aveva affrontato Scilla, uno dei due mostri di mare che vivevano nello stretto, e di come lo avesse costretto a fuggire in una grotta marina.

Il re volle mettere alla prova le capacità di Colapesce: prese la coppa da cui aveva finito di bere e la scagliò al di là del parapetto dell’imbarcazione, chiedendo a Cola di riportargliela. Il giovane baldanzoso si immerse e non riemerse per molte ore, tanto che si temette per la sua vita, fino a quando, mentre il sole era al suo culmine, si vide la coppa brillare in superficie, sorretta dalla mano di Cola che riemergeva trionfante.

Interrogato dal re egli raccontò di aver visto moltissime specie di pesci, cetacei e ricci giganti, nuotando dove l’acqua era diventata molto scura e di essere riuscito a scorgere la coppa grazie alla luce intensa di un grande fuoco che ardeva in una caverna sottomarina, illuminando il fondale. Dubitando che un fuoco potesse ardere dentro l’acqua, il re chiese maggiori spiegazioni a Cola, il quale gli spiegò che era il fuoco dell’Etna ad albergare lì in fondo, lo stesso fuoco che di tanto in tanto saliva sulla cima del vulcano causando danni e vittime.

Allora preso dalla curiosità il re si tolse la corona e la gettò tra i flutti, chiedendo ancora a Cola di recuperarla, e ancora una volta il giovane si tuffò. Passarono moltissime ore; il sole tramontò e poi sorse di nuovo, ma di Cola non vi era traccia. Non si ebbero sue notizie per due giorni finché, all’alba del terzo giorno i presenti non videro una testa bruna affiorare dalle acque: era Cola, che stringeva tra le mani la corona, i cui diamanti brillavano alla luce del sole nascente. Il pescatore era stremato e raccontò di come la corona, finita in un vortice, fosse diventata invisibile ai suoi occhi, costringendolo a fare tutto il giro dell’isola per ritrovarla, nuotando più a fondo che mai ed incontrando creature marine di ogni sorta, inclusa la piovra che tempo prima aveva tentato di ucciderlo.


Ma il suo racconto fu persino più stupefacente; mentre ancora ansimava, descrisse il prodigioso fuoco sotterraneo, una fiamma ardente simile a quella che scaturisce dall’Etna, oltre il quale, in una prateria sottomarina, si stagliavano tre pilastri alti come montagne. Alzando gli occhi Colapesce si accorse che essi sostenevano la Sicilia intera: la colonna più a nord era nera come l’ossidiana, la seconda, verso sud era di granito ma si stava sbriciolando su un lato, la terza, a occidente era intaccata alla base e cigolava, forse corrosa dal fuoco sottomarino. Questa terza colonna si trovava nei pressi di quel grande fuoco, tra Messina e Catania, dove persino le creature marine non passavano, per paura di rimanere uccise; se un giorno la lava fosse colata fin là il pilastro si sarebbe sbriciolato e la Sicilia sarebbe sprofondata in mare. Nel luogo dove doveva esserci una quarta colonna si apriva la bocca di un pozzo profondo, dal quale Colapesce aveva recuperato la corona.

Il re dubitava ancora e volle che Cola scendesse di nuovo per portargli un segno di quel fuoco, ma Colapesce era stremato e tentennava sapendo della difficoltà di tale impresa, ma il re, presa la mano di Boemonda, che gli stava a fianco, le sfilò l’anello che aveva al dito e lo fece cadere oltre il bordo della nave. Il povero Colapesce, benché esausto, decise di tentare l’impresa. Portò con sé una ferula (una sorta di bastone) ed un pugno di lenticchie che, se fossero tornate a galla senza di lui, sarebbero state segno che era rimasto negli abissi. Tuffatosi, non si ebbero sue notizie per giorni e giorni; tutti andarono via e anche il re fece issare le vele per raggiungere Messina, assalito dal rimorso di aver mandato il giovane verso morte sicura. All’improvviso vicino alla barca spuntò dapprima il pugno di lenticchie, che galleggiavano su un’onda, poi si vide un bagliore sull’acqua, ed emerse la ferula, che bruciava come una torcia ardente. Colapesce era rimasto sott’acqua, per sorreggere la colonna consumata onde evitare che l’isola sprofondasse e quindi ancora oggi si troverebbe negli abissi a sopportare il peso dell’intera isola di Sicilia.

Su passati tanti anni
Colapisci è sempri ddà
Maestà! Maestà!
Colapisci è sempri ddà




La gente di Messina, quando la terra è scossa dai terremoti, dice che Colapesce è ancora là, sul fondo del mare, a sorreggere la Sicilia e a fare la guardia perché l’isola non sprofondi, vivendo felice con i suoi amici delfini e godendosi il canto delle sirene.

Questa leggenda del mare, probabilmente una delle più belle mai raccontate, non è solamente una storia d’eroismo, ma anche una leggenda d’amore. I tre doni lanciati in mare dal re rappresentano la ricchezza (la coppa d’oro), il potere (la corona) e l’amore (l’anello), che alla fine costò l’impresa, e probabilmente la vita, a Colapesce. Sebbene la tradizione popolare attribuisca a svariati regnanti la figura del re (si parla soprattutto di Federico II e di Carlo V), le fonti storiche che raccontano la leggenda di Colapesce sono precedenti ad entrambi i re, e sono riconducibili al 1140, anno in cui pare che effettivamente Ruggero II abbia visitato Messina.


view post Posted: 29/11/2023, 14:22     +2Teresa Wilms Montt - Pensieri e poesie

La mañana

(Los tres cantos)


Canta anima mia; canta la mattina!
Canta con gli uccelli, con gli alberi, i fiori e le acque!
Canta con il vento e la montagna,
con la foresta e la pianura illuminata dal sole,
che ti viene offerta come un’anfora d’oro traboccante di vita!
Canta anima mia, con il meraviglioso grillo di luce,
che abita nella corteccia dei pini
e con l’ape ubriaca di profumo;
canta con l’aquila solitaria nella cuspide delle rocce
e con la formica laboriosa nelle cavità della terra!
Canta con la farfalla dalle ali inquiete
come le palpebre di un bambino,
e con il verde rospo sul trono di ninfee
nello specchio dello stagno.
Canta con il raccolto e il grano dorato;
con frutti rosa, che si aprono come giovani labbra;
canta con il tenero agnello del gregge
e con la madre felice che lo ha dato alla vita!
Canta, anima mia, canta con l’anima gemella;
con la cara anima sorella che vibra,
piange e ride con te in un solo battito!
Canta con il candore gioioso del sorriso sincero
e dello sguardo trasparente
che riflette la serenità della sua dolce emozione!
Canta anima mia, e tendi le braccia all’amore raddolcito
che giunge al tuo grembo per trovar rifugio;
dagli riparo anima mia e desta la sua crescente potenza!
Canta con le lacrime di gioia
che fremono e scivolano come gocce di rugiada sui petali,
e con il bacio che timoroso s’insinua disegnando i veli del cuore
per cedere il passo all’aurora piena d’amore!
Canta, canta, canta, con la vita,
con le passioni del fuoco,
con le delizie floride;
canta con la gloria suprema degli spasmi condivisi
e con i languori che donano agli occhi
i toni del tramonto!
Canta anima mia e trasmetti all’inutile il tuo fuoco;
dagli la tua essenza, crea mondi,
profetizza meraviglia e gentilezza,
erigi un trono alla verità pura!
Canta e attraversa gli spazi con la tua voce musicale
e imponi silenzio sugli uccelli perché diano ascolto
alla parola dell’uomo savio e ferace!
Canta anima mia, canta
e bevi in un sorso il nettare mattutino;
canta anima mia, il cielo azzurro
e la campagna siano per te un baccanale
con la cui bellezza puoi ubriacarti!



Libri_1



El Crepúsculo

(Los tres cantos)

Pregate anima mia, pregate!
Pregate per il pomeriggio morente,
per la campana del lontano convento
che lentamente nell’aria soffia il suo metallico gemito!
Pregate per le pecorelle smarrite
e per gli alberi veementi
che sporgono verso il lago
le loro ombrose chiome!
Pregate anima mia,
con l’uccello senza nido
e per la pupilla cieca
del pozzo abbandonato!
Pregate; pregate per il cammello esausto
nelle sabbie del deserto
e per il leone ferito nelle giungle;
pregate per i campi devastati
e le spighe senza grani!
Pregate per il dolore dell’abisso
e per la foglia spiccata!
Pregate per il carro senza ruote
abbandonato nel mezzo del cammino
e per la capanna in rovina che,
come anima del paesaggio,
rimase in attesa dell’uomo!
Pregate; pregate anima mia,
per l’orfano e per il vecchio mendicante;
pregate per i fiori che raccolgono i loro petali
per morire e con il sole,
il cui oro piangente
va calando dietro alla montagna!
Pregate affinché l’orizzonte si accinga a dar preannuncio di sangue
e le nuvole colme d’odio vadano in disgrazia;
pregate e inginocchiatevi anima mia,
pregate affinché regni la pace fra gli uomini e gli elementi;
affinché tutti uniti nella medesima volontà possano andare beati
verso la fine e rinascere con maggior energia e sapienza!
Pregate per coloro che non hanno nome,
ma che offrono il loro impeto e bontà
senza chiedere compenso né onori;
per il vecchio tremante che alla terra china il capo
portando in essa spirito primaverile!
Pregate, pregate anima mia,
per la povera donna innamorata
che per sempre ha visto il suo amato
addormentarsi fra le sue braccia;
pregate per lei, che ha vissuto la feroce realtà
del sentirsi inerme di fronte al potere dei suoi baci
e del suo amore per farne il calore della vita!
Pregate con i cuori squarciati che ululano dolore alle ombre
e debbono ridere alla luce del sole!
Pregate, pregate, pregate mia anima,
toccate la polvere con i vostri pensieri,
scongiurate malauguri, alleviate l’amarezza
e date la vostra essenza per giuste e nobili cause!
Pregate, è l’ora dei presagi, delle tetre apparizioni;
l’ora in cui nasce il destino degli uomini!
Prega contrita, mia anima; il dolore sta arrivando!
Il sole se ne va, e dalle ali delle farfalle morte
nascono fiori per le tombe.
Il sole se ne va. Desolata cala la notte,
portando in grembo il corpo privo di vita del giorno,
pallido, freddo, pallido, esangue….
Spietato e felino, il lupo insegue gli agnelli,
affilando i denti nella corteccia di alberi secolari
e martirizzando le foglie con i artigli feroci.
Rumorosi insetti volano da una parte all’altra,
si nascondono fra le erbacce,
evitando l’ultimo raggio dell’astro d’oro.
Il sole se ne va. I patimenti vagano per il mondo
con volto affamato in cerca di cuori da divorare.
Il sole se ne va, e il sorriso del moribondo
va incidendosi sulla pietra indelebile dell’immortalità.
Il sole se ne va, e l’anima trema di terrore nell’oscurità.
Natura! Il bel viso s’avvizzisce e,
come le candele che vanno spegnendosi,
china la sua languida testa.
La voce, la sua voce allegra, si attenua;
le parole rotolano e un’eco cavernosa risponde nel mistero.
I suoi occhi, serbanti l’incanto,
ragion della mia vita,
si socchiudono privi di bagliore
e come tristi stelle mi osservano profondamente,
accomiatandosi.
Natura! Intendi, forse, negar il tuo sostegno
a questa grande anima
e lasciarla precipitare nel caos come un’ombra?
Ti canterò; madre mia, ti implorerò;
prostrata bacerò la terra in un prova d’umiltà.
Lascerò che gli uomini mi guardino con disprezzo;
accetterò il morso delle vipere
e il flagello delle loro viscide membra sulle mie spalle.
Riceverò volentieri il castigo di gelidi venti,
che s’insinueranno fin nel midollo
e nel mio cervello faranno il loro rifugio.
Chiederò ai fulmini e ai tuoni che sfoghino sulla mia fronte il loro furore.
Con voce piena implorerò il mare,
perché mi avvolga nell’ira delle onde,
e sin all’ultima goccia si liberi d’ogni amarezza.
Lascerò che il sole s’irriti sul mio corpo e lo faccia carbone;
mi rassegnerò a esser combustibile per fiamme maligne.
Rinuncerò alla mia coscienza, e sarò umile bestia,
con gli occhi rivolti a terra, in attesa di orrende torture.
Sarò un’entità, un nulla, futilità; ma lascia ch’ella viva,
respiri, riceva la solenne benedizione di tutto ciò che racchiudi,
Natura onnipotente!



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VII

(Inquietudes Sentimentales)


Due seni pallidi e inquietanti insieme; occhi rapiti
di lubricità, e una carezza impudica e carnale,
di traverso al mio passo e al mio cammino.
E una voce dal suono indefinibile,
come il duro singhiozzo di un bambino,
che mi sussurra: Vieni! Io sono l’eros.
Ed io andavo seguendo questa menade folle, come
un lembo d’acciaio segue la calamita.
Avanzavo sospinta dal mistero…
S’eran fatte di ghiaccio le mie labbra,
chiusa la gola da sbarre di ferro.
Il mio sguardo era lucido d’umore,
gli occhi raggianti come pietre alcoliche…
E ritornai, le labbra insonnolite,
gli occhi accecati e trepide le mani
contro se stesse in orrido conflitto,
assetate di scempio e, nel mio cuore,
una sorta di marchio rosso fuoco,
denso della più amara delusione.
Ma io non ero lì: non mi porgeva,
la baccante folle, alcun rimedio per il mio mal d’amore.



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XVI

(En la quietud del mármol)


Anuarí…
Quest’oggi ti ho un fascio d’immacolate peonie.

Al posarle sul tuo feretro,
mi parve che dal cielo piovessero stelle su di lui
e fui colta da un delirio di bellezza.

Volli unire le labbra ai bianchi petali,
e dal firmamento della mia anima scesero baci,
un’infinità di baci d’amore sul tuo corpo sognante.

La dolcezza della tua tomba,
s’insinua nella mia mente,
come un bagno di rose,
ravvivandola con aneliti di passione.

Purificata è la mia carne
dalla pura aurora dei tuoi avi
che riposano accanto alla tua salma.

Anuarí, mia creatura.



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La Noche

(Los tres cantos)


Il cielo diventa più fragile nella terra dei dormienti;
ha tonalità stupefacenti che si offrono con umile morbidezza alle fossa,
e nel sole c’è meno desiderio di irradiazione,
più dolce nel suo oro che nei campi,
dove ritorna brillante,
come fiamme ravvivate dal vento,
alle spighe mature.
Ho sentito parlare coloro che se ne sono andati,
è un mormorio carezzevole; provo invidia.
C’è tanta bellezza nella semplicità e nel gelo.
Ogni defunto è un blocco immacolato di neve
che diffonde la sua bianca serenità
come una maestosa moltitudine di perdono e oblio.
Ogni defunto è profonda, immutabile bontà.
Ogni defunto è esempio di silente abnegazione.
Lì, tra i morti, trovo il mio spirito,
ed è con loro che condivide la sua profonda tenerezza.
È con loro che si sente forte ed è per loro che si arrende senza timori,
dolcemente, come un devoto al suo Dio.
Miei defunti; sublimi amori.
Vivrò tra voi; sarò un’estrosa dormiente senza gelidi sogni,
ma nel suo glaciale riposo.
Sarò madre di tutti, con le braccia cariche di fiori,
quei fiori che non potete cogliere con vostre algide dita.
Sarò la sposa vergine che vi darà tutta l’intensità
del suo dolore puro fra lapidi e pietre.
Sarò il vostro giorno, il vostro sole, la vostra notte di luna piena.
Oh, miei defunti! Nessuno verrà a togliermi questo privilegio;
i vivi hanno così tanto da dimenticare nella loro lotta per gli onori.
Essi non sanno che nel vostro paese si trova la chiave dell’enigma.



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Autodefinizione


Sono Teresa Wilms Montt
e anche se sono nata cento anni prima di te,
la mia vita non è stata tanto diversa dalla tua.
Anche io ho avuto il privilegio d’essere donna.

E’ difficile essere donne in questo mondo.
Tu lo sai meglio di tutti.
Ho vissuto intensamente ogni respiro e ogni istante della mia vita.
Ho distillato una donna.

Hanno cercato di reprimermi ma non ci sono riusciti con me.
Quando mi hanno voltato le spalle, io ci ho messo la faccia.
Quando mi hanno lasciato sola, ho dato compagnia
Quando hanno voluto uccidermi, ho dato vita.

Quando hanno voluto rinchiudermi, ho cercato la libertà.
Quando mi amavano senza amore, ho dato ancora più amore.
Quando hanno cercato di zittirmi, ho urlato.
Quando mi hanno picchiato, ho risposto.

Sono stata crocifissa, morta e sepolta,
dalla mia famiglia e la società.
Sono nata cento anni prima di te
comunque ti vedo uguale a me.

Sono Teresa Wilms Montt,
e non sono adatta per le signorine.





Edited by Milea - 30/11/2023, 22:22
view post Posted: 29/11/2023, 13:33     +6IL GIORNO DOPO - Maria Lisma - PRECIOUS MOMENTS

Autodefinizione


Sono Teresa Wilms Montt
e anche se sono nata cento anni prima di te,
la mia vita non è stata tanto diversa dalla tua.
Anche io ho avuto il privilegio d’essere donna.

E’ difficile essere donne in questo mondo.
Tu lo sai meglio di tutti.
Ho vissuto intensamente ogni respiro e ogni istante della mia vita.
Ho distillato una donna.

Hanno cercato di reprimermi ma non ci sono riusciti con me.
Quando mi hanno voltato le spalle, io ci ho messo la faccia.
Quando mi hanno lasciato sola, ho dato compagnia
Quando hanno voluto uccidermi, ho dato vita.

Quando hanno voluto rinchiudermi, ho cercato la libertà.
Quando mi amavano senza amore, ho dato ancora più amore.
Quando hanno cercato di zittirmi, ho urlato.
Quando mi hanno picchiato, ho risposto.

Sono stata crocifissa, morta e sepolta,
dalla mia famiglia e la società.
Sono nata cento anni prima di te
comunque ti vedo uguale a me.

Sono Teresa Wilms Montt,
e non sono adatta per le signorine.

(Teresa Wilms Montt, Cile 1893-1921)





view post Posted: 26/11/2023, 23:19     +8IL GIORNO DOPO - Maria Lisma - PRECIOUS MOMENTS

Il giorno dopo


Datemi il silenzio del giorno dopo,
senza panchine e senza scarpe rosse,
senza parole di commossa circostanza
e foto in posa dietro le bandiere.

Datemi la mano del segno della pace
e la carezza degli occhi del conforto,
la luce fioca della candela accesa
e il cuscino bianco della coscienza pura.




Datemi un letto dove riposare
e pagine nuove per poterlo dire,
l’anello eterno per il giuramento
e la testa alta per non dimenticare.

Datemi uno specchio per il mio ritratto
e compassione per il mio sguardo pesto,
un carillon per la mia bimba bella
che sogna ancora allodole e farfalle.




Datemi le bende sopra le ferite
e la cipria rosa sulle guance sfatte,
il sollievo dolce della consolazione
e il diritto certo della giustizia giusta.

Alle mie ali nuove ci penso io
da sola:
piuma su piuma, mi riprendo
il volo.


Maria Lisma




(per “Le parole delle donne”)





Edited by Milea - 26/11/2023, 23:35
view post Posted: 25/11/2023, 15:36     +9LA GIOCONDA: l'arte di Leonardo spiegata ai bambini - ARTISTICA

Progetto artistico: Ginevra de’ Benci




Leonardo da Vinci
Ritratto di Ginevra de’ Benci
1474 - 1478 circa
tempera e olio su tavola - 38,8 × 36,7 cm.
National Gallery of Art, Washington



Scheda didattica


Ricreare un quadro di Leonardo ritagliando e immaginando nuovi sfondi è un’idea piuttosto semplice. Il trucco consiste nel farlo solo con molte linee; il contrasto con la pelle crea un’opera d’arte davvero interessante e inoltre stimola negli allievi un approccio creativo e originale all’arte.

Materiali: (tempo necessario: 45 minuti circa)
- Carta da disegno o per pittura
- Matita di grafite
- Gomma morbida
- Due pennarelli neri, uno a punta media e uno a punta fine per creare i contorni scuri e di disegni.

Istruzioni :
Innanzitutto mostrate agli allievi il dipinto di Leonardo come riferimento. Stampate per ogni studente una copia a colori del modello; avere l’immagine a colori e la “line art” sulla stessa superficie li aiuta a fondersi insieme, in modo da poter ammirare l’arte e non essere distratti da abilità di taglio e incollaggio non sempre perfette. Iniziate a tracciate una nuova “Ginevra de’ Benci”.


Dopo aver eseguito la figura, riempite lo sfondo con tante linee e segni astratti; dei cerchi concentrici faranno risaltare lo sfondo rispetto alle forme più fluide dei capelli e delle linee del corpo


Ripassate i contorni di base con un pennarello medio. Aggiungete tantissimi motivi con un pennarello nero più sottile, per dare movimento e profondità all’opera. Fonte


view post Posted: 25/11/2023, 14:49     +9LA GIOCONDA: l'arte di Leonardo spiegata ai bambini - ARTISTICA

Progetto artistico: La Gioconda

Scheda didattica


Un ottimo modo per studiare il potere delle linee, la bellezza del contrasto e il mistero duraturo di Monna Lisa è quello di realizzare una lezione di disegno, partendo dal suo famosissimo volto e riempiendo poi il proprio sfondo con delle linee, solo per contrasto.

Materiali: (tempo necessario:1 ora circa)
- Carta da disegno o per pittura
- Matita di grafite e matite colorate
- Gomma morbida
- Due pennarelli neri, a punta media e a punta fine per creare i contorni scuri e di disegni.

Istruzioni :
Innanzitutto mostrare agli allievi il dipinto della Monna Lisa come riferimento. Stampate per ogni studente una copia a colori del modello; avere l’immagine a colori e la “line art” sulla stessa superficie li aiuta a fondersi insieme, in modo da poter ammirare l’arte e non essere distratti da abilità di taglio e incollaggio non sempre perfette. Ritagliare e incollare un’immagine può essere utile, ma il mix di foto a colori e linee a pennarello, sullo stesso foglio di carta è ancora più intrigante.


Tracciate una nuova “Gioconda”; dopo aver eseguito la figura, riempite lo sfondo con tante linee e segni; ognuno potrà decidere se eseguire un quadretto figurativo o optare per l’astrattismo puro; se colorarlo o lasciare il contrasto della pelle e dello sfondo monocromatico.


Per ottenere risultati migliori, cercate di usare un pennarello con la punta media per le forme principali del corpo e uno molto sottile per tutti i dettagli. Le due cose rendono il disegno più facile da interpretare e più interessante da osservare.


Abbozzate e tracciate i contorni di base con un pennarello spesso. Aggiungete i dettagli con un pennarello sottile: più sono meglio è. Fonte





Edited by Milea - 25/11/2023, 16:05
view post Posted: 25/11/2023, 13:44     +14LA GIOCONDA: l'arte di Leonardo spiegata ai bambini - ARTISTICA


LA GIOCONDA




Leonardo da Vinci
Ritratto di Monna Lisa del Giocondo
1503 - 1504 circa
olio su tavola di pioppo - 77 x 53 cm.
Parigi, Museo del Louvre


Adesso devo proprio trovare una buona scusa: messer Francesco del Giocondo comincia a essere impaziente. Finora l’ho tenuto a bada con i soliti trucchetti: ritardi, difficoltà, altri impegni…, ma ormai ho esaurito i pretesti. Sono anni che tiro in lungo, è arrivato il momento di farmi coraggio e dirlo chiaro:” Mi spiace, messer Francesco. Il ritratto di sua moglie monna Lisa è a buon punto, ma non lo consegnerò né domani, né mai. Mi sto preparando per lasciare Firenze e tornare a Milano e il quadro non lo mollo: me lo terrò io e sono pronto a restituire i soldi che mi ha versato come anticipo”.

Il denaro non mi manca: ricavi dei dipinti sono ben poca cosa rispetto a quanto guadagno con le consulenze tecniche, le perizie sui canali e sulle acque, i progetti di macchine, i disegni di bombarde e fortificazioni, gli incarichi di cartografia, l’allestimento di feste e ricevimenti, l’illustrazione di libri, i disegni di costumi e mille altre cose. In fondo non è certo la prima volta che io, Leonardo da Vinci, lascio un’opera incompiuta. Anzi se mi guardo indietro, ora che ho passato la cinquantina, di dipinti finiti e consegnati ne ho fatti ben pochi: forse neanche una decina, a ben vedere, senza contare le rovine dei dipinti murali! C’è da chiedersi come mai sia diventato un pittore famoso, addirittura un “genio universale”.


Penso ai miei coetanei o comunque ai pittori della mia generazione, come Perugino o Botticelli : loro sono stati capaci di sfornare decine e decine di tavole e affreschi. Adesso c’è questo ragazzino, Raffaello, che trasforma in oro, anzi in pittura, tutto quello che tocca! Io no, ho bisogno di tempo e non sono mai soddisfatto di quello che faccio. Mi pare che ci sia sempre la possibilità, anzi il dovere, di ritoccare, migliorare, aggiungere, dare una pennellata in più.

Michelangelo, che mi detesta, non fa che ripetere che l’arte si fa “per forza di levare”: certo, lavora di scalpello sui blocchi di pietra e secondo lui il vero artista dovrebbe affannarsi, sudare e sbuffare in maniche di camicia, picchiando col martello, in una nuvola di polvere di marmo, fino a liberare la figura imprigionata nella grezza materia. Ma la mia arte è completamente diversa, per fortuna sono pittore, non scultore; posso lavorare indossando abiti raffinati, muovendo il pennello leggero senza nessuna fatica e mentre dipingo nella pace del mio studio ordinato e pulito posso ascoltare la musica o la lettura di poesie.

Non pensate che la fatica fisica mi faccia paura: lo sanno tutti, ho ancora le mani ben forti, posso piegare e raddrizzare un ferro di cavallo e, anche se questo Michelangelo ha vent’anni meno di me, non avrei il benché minimo timore a sfidarlo a braccio di ferro! Semplicemente detesto la fretta: dipingere non è come zappare l’orto, il valore di un artista non si misura con il rintocco delle campane e a chi mi accusa di esser pigro, rispondo che le persone intelligenti sono quelle che si danno il tempo per pensare.


Un quadro non è come un libro a stampa, che si mette sotto il torchio del tipografo e se ne fanno centinaia di copie e se tutti i bambini, magari a furia di esercizi e bacchettate, imparano le tabelline, non c’è scuola che possa insegnare a diventare un grande artista. E’ un dono: o lo si possiede oppure no. In questo secondo caso bisogna limitarsi a imitare le opere dei maestri e rassegnarsi a considerare anche l’arte un “mestiere” noioso e prevedibile come gli altri, fatto di orari, di monotonia, di ripetitività. Per me non è così: quando sento l’ispirazione posso lavorare freneticamente per ore e ore, senza interrompermi, senza avvertire la fame né la sete, senza sforzo, non parliamo poi di disegnare; ma quando invece sento il bisogno di fermarmi a riflettere, posso dare due o tre pennellate e poi non dipingere più per tutto il resto della giornata.


Eccola qua allora, questa monna Lisa, che mi guarda dal cavalletto, con le mani in grembo, i bei capelli lisci, le sopracciglia sottili, il volto ovale, rilassato. La posa, l’espressione, il sorriso mi sono venuti di getto, lì per lì, mentre avevo la signora seduta di fronte a me. All’inizio era quasi uno scherzo: una che si chiama Gioconda deve per forza essere allegra e sorridente! Ma poi mi sono bloccato: ho incominciato a sentire che il quadro che stava nascendo non era, non poteva essere semplicemente il ritratto di una pacifica signora fiorentina.

Davanti allo sguardo che cominciava ad affiorare nel dipinto, era come se dipingessi un’immagine che parla di me: attraverso il viso sorridente di questa donna, mi è parso di cominciare a intuire i segreti del mondo, a capire le leggi dell’universo, a intravedere i destini del cosmo. Molti pensano che io sia ateo, che non creda in Dio, solo perché spesso, se scocca l’ispirazione, dipingo anche la domenica, invece di andare a messa. Dovrei “santificare la festa” e non lavorare, mi rimproverano i bigotti: ma esiste un modo migliore per ringraziare il Creatore, di utilizzare le doti che ho ricevuto e cercare con il mio pennello di riprodurre la meraviglia di un universo che vive, vibra, respira intorno a noi?


Monna Lisa sorride: ha fiducia nel mondo, ne vede la bellezza, ne coglie la ribollente attività. Sente, come lo sento io, che lo scorrere dei fiumi è simile al palpito del sangue che pulsa nelle vene di questa nostra madre Terra; sfiora con gli occhi le cime delle montagne, che sono come le ossa che sostengono il corpo del mondo; partecipa all’incessante flusso e riflusso della natura, che vive e si rigenera, che non muore mai, capisce che l’umida nebbia è come rugiada che bagna e alimenta la campagna. Tutto scorre, come dice un filosofo antico, o meglio ancora tutto si muove e non mi stupirei affatto di scoprire che la Terra non è affatto immobile, ma ruota intorno al sole… mmh, meglio lasciar perdere… ci penserà qualcun altro.

Io ho vissuto quasi sempre in città, a Firenze e a Milano, ma sono nato in campagna e amo l’aria fresca, gli spazi ampi, le passeggiate lungo i fiumi o in collina. Tutti i miei sensi si sono sviluppati: ho imparato a gustare il sapore di un lampone o di una mora, a distinguere le diverse tonalità di verde delle foglie, a riconoscere il profumo delle erbe aromatiche, a sentire il soffio del vento e i rintocchi lontani delle campane delle pievi, a sfiorare con le dita il freddo della neve, il velluto del petalo di un fiore appena sbocciato o il soffice pelo di un leprotto… Potrei stare ore a guardare le nuvole che scorrono… oh, quante ne ho viste in Lombardia, dalle parti del Lago Maggiore, ai piedi del Monte Rosa! Oppure a seguire la lentissima discesa di una goccia d’acqua lungo un filo d’erba, o i pazzi ghirigori che fanno le rondini nel cielo.


Quando giro in città, c’è sempre una moltitudine di aspiranti pittori o semplici curiosi che mi circondano, mi assediano con le loro chiacchiere; ma quando esco dalle porte e mi inoltro nel verde, finalmente rimango solo e quando sei solo sei davvero tutto tuo.

Torno dalle mie passeggiate in campagna con i piedi fradici, il taccuino pieno di disegni, il cuore in tempesta; viene buio, mi metto a letto, cerco di addormentarmi, ma mi ritornano in mente tutte le immagini e le meraviglie che mi hanno bombardato durante la giornata. E allora sto lì, con gli occhi aperti, nella notte, lasciando che i ricordi si fissino nella mia memoria. Ho imparato tutto dalla natura!
Sto raccogliendo migliaia e migliaia di fogli pieni di appunti per scrivere un trattato, ma è difficile dare un ordine: ogni giorno scopro qualcosa di nuovo e mi viene voglia di ricominciare da capo. Ho anche imparato ad aspettare: tutti gli anni ritorna la bella stagione, crescono le foglie sugli alberi, si mutano le penne degli uccelli, i ruscelli si riempiono di acque impetuose, all’inverno segue la primavera. E allora, anche se ho meno capelli, ho la fronte solcata dalle rughe e una lunga barba bianca, mi sento pieno di speranza, mi viene voglia di correre nei prati, su e giù per i campi, come facevo da ragazzino, insieme a mio zio Francesco.


Intorno al volto e al busto della Gioconda dipingerò un intero universo di acqua e terra, di cielo e nuvole, di montagne e pianure. Vorrei che niente, nel ritratto, desse l’impressione di essere fermo, vorrei che ci fosse dentro il senso della natura, del cambiamento, dell’inesauribile attività della Terra e della vita. Non so se avrò un’altra occasione, se negli anni che mi restano da vivere potrò dipingere un altro quadro così. Povero messer Giocondo: non gli permetterò mai di appendere nel salotto di casa il pacioso ritratto della sua sposa. Finché vivrò, voglio tenerlo con me e non pensare mai che sia davvero “finito”. Questo quadro mi guarda, mi riguarda, è per me: questo quadro sono io!




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Stefano Zuffi

Il mondo dipinto
Ventidue capolavori di grandi maestri
raccontano la loro storia

Ed. FeltrinelliKIDS


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