A MIA MADRE - Eugenio Montale, Parafrasi, analisi e commento

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view post Posted on 13/5/2023, 19:18     +5   +1   -1
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Tazzulella fumante
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A MIA MADRE
EUGENIO MONTALE




Un ritratto della figura materna in poesia






Elisabeth Vigée Le Brun
Autoritratto con sua figlia Julie
Self-Portrait with her Daughter Julie
1789
Olio su tavola
130 x 94 cm
Parigi, Musée du Louvre


Nella poesia "A mia madre", scritta nel 1942, Eugenio Montale compone una grande riflessione sul tema della morte. La lirica fu redatta dopo la scomparsa di Giuseppina Ricci, la madre del poeta, e rispecchia tutto lo smarrimento di un figlio che si sente privato dell’amore più grande - l’amore salvifico, totale, che cura e protegge - e ricerca un nuovo senso nel mondo fattosi improvvisamente cupo. La lirica di Montale dedicata alla madre è tratta da "La bufera e altro" (1956), la raccolta più oscura, pessimistica e angosciosa della produzione montaliana in cui il “male di vivere” diventa improvvisamente un concetto tangibile e si dilata sino a rivestire un senso cosmico, riflettendo il contesto storico della Seconda guerra mondiale. Sono due le figure femminili centrali nella Bufera e ad entrambe è affidato un ruolo salvifico: la prima è Clizia, nome senhal tratto dalle Metamorfosi di Ovidio per indicare l’amata Irma Brandeis già musa ispiratrice delle Occasioni; la seconda è la madre, divenuta un’ombra in transito nei campi elisi che tuttavia ispira al poeta un sentimento di distacco dalle angherie terrene. Forse è proprio la madre - e non Clizia - la principale dedicataria della raccolta poetica, il vero visiting angel, come hanno ipotizzato alcuni critici.

Libri_1


La figura della madre nella poetica montaliana

Nel 1947 il critico Giovanni Mazzotta osservò che il riferimento sempre presente a quell’"ombra viva" poteva non sottintendere l’allusione all’allegoria della poesia o alla presenza salvifica della donna-angelo, ma che quella messaggera divina che guida il poeta attraverso la Bufera del mondo in tempesta fosse in realtà la madre. Il fantasma materno sembra una costante nella produzione montaliana, persino quando il suo apparire non è manifesto in realtà è celato nella condizione primaria del rapporto "uomo-donna", come se tutte le figure femminili successive fossero una ripetizione di quella materna. Ciò è particolarmente evidente nella lirica Una voce è giunta col le folaghe in cui Eugenio Montale evoca una misteriosa ombra di donna, "un’ombra viva", che ricorda una presenza virgiliana o dantesca; ma si palesa nella poesia A mia madre, in cui viene rivelato nel titolo la dedicataria del componimento.

Ora che il coro delle coturnici
ti blandisce nel sonno eterno, rotta
felice schiera in fuga verso i clivi
vendemmiati del Mesco, or che la lotta
dei viventi più infuria, se tu cedi
come un’ombra la spoglia
(e non è un’ombra,
o gentile, non è ciò che tu credi)
chi ti proteggerà? La strada sgombra
non è una via, solo due mani, un volto,
quelle mani, quel volto, il gesto d’una
vita che non è un’altra ma se stessa,
solo questo ti pone nell’eliso
folto d’anime e voci in cui tu vivi;
e la domanda che tu lasci è anch’essa
un gesto tuo, all’ombra delle croci.



Parafrasi

Ora che il canto gioioso delle coturnici allieta il tuo riposo eterno, mentre gli uccelli volano sopra la tua tomba diretti verso la punta collinare del Mesco dove si svolge la vendemmia. Ora che infuria più cruenta la Seconda guerra mondiale, e tu cedi il tuo corpo come se fosse un’ombra (ma non è un’ombra, o cara, non è ciò che tu credi) Chi ti proteggerà adesso? La strada è vuota, e non sembra più guidare in nessun luogo. Rimane il ricordo di due mani, di un volto, dei gesti che han composto una vita uguale solo a sé stessa; è solamente questo, madre, a consegnarti al Paradiso dei mortali ormai pieno di anime e di voci. La domanda stessa che tu mi lasci è tipicamente tua, è parte di te, ed è ciò che tu mi lasci di vivo nella memoria dinnanzi alla grande schiera di croci del cimitero.



Elisabeth Vigée Le Brun
Autoritratto con sua figlia Julie
Self-Portrait with her Daughter Julie
1786,
Olio su tela
105 X 84 cm
Parigi, Musée du Louvre


Analisi e commento

Nell’incipit della poesia Montale evoca il paesaggio ligure, il mondo assolato e marino della sua infanzia. Uno scenario ben diverso dunque da quello nordico dove è solitamente collocata Clizia. Il canto gioioso degli uccelli migratori - le coturnici, che volano sulla punta collinare del Mesco - allieta il sonno eterno della madre, sepolta nel cimitero di Monterosso. Giuseppina Ricci era morta nel mese di ottobre 1942 e le coturnici iniziano a migrare proprio durante l’autunno, quindi Montale immagina che gli uccelli volino sopra la sua tomba contrapponendo la loro mobilità alata (e terrena) alla stasi perenne della morte. La dicotomia tra mondo terreno e aldilà è già presente in questi primi versi, in cui il poeta inserisce anche un preciso riferimento storico: "ora che la lotta dei viventi più infuria" dice, alludendo ai venti avversi della Seconda guerra mondiale. Atterrito dinnanzi all’inasprirsi del conflitto, il poeta si chiede: ora chi proteggerà il ricordo della madre? Ma in quell’interrogativo “chi ti proteggerà?” possiamo cogliere anche una domanda rivolta da Montale a sé stesso: ora che è orfano, privato dell’amore materno, chi ci sarà a proteggerlo dagli urti della vita?

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In questo difficile contesto, sia dal punto di vista storico che privato, l’autore colloca il proprio smarrimento esistenziale: la strada infatti ora appare vuota - sgombrata dal passaggio della morte - ma è priva di segnaletica, non sembra guidare in qualche luogo. In quel baratro si allarga una domanda senza risposta che sembra lacerare la pagina:

"Chi ti proteggerà"


Montale in questi versi contrappone la propria visione laica della vita a quella religiosa della madre: lui non crede in un aldilà, in un paradiso, e rimanda all’unione invincibile tra corpo e spirito "quelle mani, quel volto", sono questi gesti concreti a fare dell’esistenza ciò che è, a comporre i tratti riconoscibili di una vita unica e irripetibile.

"Il gesto d’una vita che non è un’altra ma se stessa"


La madre invece durante la malattia percepiva il proprio corpo come una spoglia mortale da cui era disposta con fede a liberarsi per accedere finalmente a un’altra dimensione. Con dolcezza il poeta la smentisce, opponendo l’acume della razionalità alla sua religione antica: "non è ciò che tu credi". Lei era pronta a cedere il suo corpo alla volontà divina, senza opporre resistenza, perché credeva nel primato dell’anima, della parte spirituale dell’essere. Montale invece rievoca l’importanza di quel corpo, della figura materna in carne e ossa che adesso rivive appieno nel ricordo che lei ha lasciato, perché sono proprio quei gesti, "quel corpo" - un tempo vivo - a fare di sua madre la donna vitale che è stata.

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Alla fede in un presunto aldilà Montale oppone il ricordo di chi resta: è questo il laico eliso (non a caso riprende la connotazione pre-cristiana dei "campi elisi"), il paradiso in terra in cui i defunti trovano riposo. La sepoltura che il poeta dà alla madre è nel regno sempre fecondo della memoria sublimata dalle parole in poesia, dove davvero "si vive per sempre". Ma la madre defunta lascia in eredità al poeta una domanda, un interrogativo: è meglio curarsi del corpo o dell’anima? Chi ti proteggerà?. Lei dava la precedenza all’anima, mentre Montale a quella convinzione contrappone la materialità del corpo, una condizione necessaria per la vita. Quella stessa domanda, però, continua a rimanere, come sospesa e il poeta la riconosce come una traccia ulteriore della presenza della madre (la definisce: domanda che tu mi lasci, perché è tipicamente sua), infatti è proprio quell’interrogativo a distinguere Lei, in tutta la sua singolarità di essere amato, dalla schiera anonima delle altre persone defunte.


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