|
MIO POVERO VECCHIO LA DISILLUSIONE ATTRAVERSO L'ATTUALITÀ
Con questa poesia, Cesare Pavese esprime la sua disillusione nei confronti della vita attraverso uno struggente parallelismo.
Pablo Picasso Vecchio e bambino cieco 1903 Olio su tela 125 x 92cm Mosca, Museo Pushkin Nell’inverno del 1927 Cesare Pavese dava vita a “Mio povero vecchio”, un componimento triste, profondo, struggente, che racconta il sentimento di estraneità alla vita e di disillusione nei confronti del reale. Racchiusa nella raccolta “Rinascita”, che contiene i versi composti da Pavese fra il 1926 e il 1927, questa poesia è quasi un racconto, uno spaccato di vita reale che ci induce a riflettere sul nostro rapporto con l’individualità ed il mondo.
Il sogno e la morte
In “Mio povero vecchio”, Cesare Pavese crea un parallelismo fra un senzatetto e sé stesso:
“Mio povero vecchio che in questa notte nebbiosa d’inverno, sotto il freddo atroce, dormi sotto il portico della grande piazza” L’uomo senza nome né volto, di cui conosciamo approssimativamente solo l’età, sperimenta il gelo del clima e delle persone ogni giorno, ed è assimilato ad un “nero cadavere informe”, a cui non restano che “un sogno tiepido e un odio disperato”.
“Io mi struggo di essere come te, io che vengo da tanto più lontano, ma che ho nel cuore il tuo odio e sogno i tuoi stessi sogni”. Anche il poeta si sente come il senzatetto. Benché le sue condizioni di vita siano molto differenti rispetto a quelle del vecchio, anche lui sperimenta il freddo del mondo, si sente senza rifugio, e non ha che le illusioni. Sogna un cibo diverso, “un cibo indicibile di sogni deliranti”, inaccessibile, irraggiungibile.
“Perché noi abbiamo in cuore la stessa stanchezza e lo stesso odio disperato contro la vita che non può mutare e lascia me nell’orrore del buio e te nel morso gelido e digiuno”. Nella poesia di Pavese la vita non lascia spazio al cambiamento. “Non può mutare”, non ha la capacità di illuminare i due uomini con uno sprazzo di felicità. Per quella, c’è spazio solo nel sogno, e nella morte.
Pablo Picasso Vecchio chitarrista 1903 Olio su tavola 121 x 92cm Chicago, The Art Institute
Cesare Pavese Mio povero vecchio
Mio povero vecchio che in questa notte nebbiosa d’inverno, sotto il freddo atroce, dormi sotto il portico della grande piazza, disteso sulla grata di una cantina, che ti regala un po’ di caldo, e sei tutto lungo, attrappito
nella coperta sudicia dei tuoi cenci e della tua gran barba come une nero cadavere informe, e sogni avidamente sotto gli spruzzi di neve fangosa uno di quei cibi meravigliosi che hai veduto stasera nella vetrina splendente mio povero vecchio, che non hai nulla al mondo, se non quel sogno tiepido e un odio disperato, io mi struggo di essere come te, io che vengo da tanto più lontano, ma che ho nel cuore il tuo odio e sogno i tuoi stessi sogni.
Verrà una notte, forse domani, che m’accascerò come te sotto la nebbia in una via deserta, colla tempia spaccata, e sognerò l’ultima volta in quell’istante un cibo meraviglioso che anch’io ho veduto in una vetrina splendente, un cibo che tu non capiresti, perché io vengo da troppo più lontano, un cibo indicibile di sogni deliranti, sognati sopra un volto e un corpo, pieni d’anima e di luce.
Un gran cielo di sogni inaccessibile alla realtà, fatto di colori struggenti pallidi tiepidi, rapimenti di tenerezza, rotto da urli di arte e di passione e da voci sommesse come le cose più segrete, un mondo che sia tutta l’esistenza di quel suo corpo e quei suoi grandi occhi nudi. Cadere nella nebbia e dentro il fango colla tempia spaccata, o mio povero ignoto mendicante, come sei disteso tu ora, e sognare il mio sogno.
|