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SVEGLIARSI IN INVERNO il gelo dell’anima nella poesia di Sylvia Plath
Sylvia Plath scrisse "Svegliarsi in inverno" nel 1960, dalla camera dell'ospedale psichiatrico in cui era ricoverata. La lirica riflette il suo stato mentale di profonda desolazione che trova il proprio naturale corrispettivo nel paesaggio invernale...
Gustave Caillebotte Veduta di tetti, effetto neve 1878 Olio su tela 64 X 82 Cm Parigi, Musée d’Orsay Sylvia Plath compose "Waking in Winter", tradotta in italiano come "Svegliarsi in inverno", nel 1960 dalla stanza dell’ospedale psichiatrico in cui era ricoverata. Svegliandosi da un lungo sonno, probabilmente causato dai farmaci, la poetessa si ritrovò a osservare il paesaggio invernale al di fuori delle grandi vetrate. Una nevicata improvvisa aveva imbiancato i rami degli alberi e la visione che si presentava davanti agli occhi della Plath possedeva un’atmosfera spettrale. L’inverno che ghiacciava le strade sembrava riflettere nel profondo il suo stato d’animo. Il gelo esteriore rispecchiava il ghiaccio inscalfibile del suo cuore che ormai rinnegava qualsiasi emozione o battito vitale. Plath osservò così a lungo quel paesaggio al di fuori della finestra dell’ospedale da trasformarlo in una sorta di quadro interiore, di visione mentale. Ne risulta una poesia che sembra assumere i contorni deliranti di un incubo in cui gli elementi e gli oggetti si deformano sino a significare qualcosa d’altro e dalla quale si cerca di fuggire come da un cattivo presagio. L’alba dell’inverno ha un sapore di stagno, pare di sentirla in bocca con il retrogusto amaro di una medicina. Leggendo ci sovrapponiamo allo sguardo di Sylvia e ci pare di vedere il bianco ancora più spoglio della camera d’ospedale nella quale si rifletteva il giallo impietoso delle luci troppo forti che sembravano vivisezionare i corpi come su un tavolo operatorio.
Svegliarsi in inverno
Il cielo è di stagno, ne sento il gusto in bocca: stagno vero. L’alba d’inverno è colore del metallo, gli alberi rigidi come nervi bruciati.
Ho sognato per tutta la notte distruzione, annichilimento – gole tagliate in catene di montaggio, e io e te che ce ne andavamo lenti sull’automobile grigia, sorseggiando il verde veleno dei prati muti, le lapidi di legno, non un suono, su pneumatici di gomma diretti alla stazione balneare.
Che echi dai balconi! E il sole, come illuminava i teschi, le ossa sfatte di fronte al panorama. Spazio! Spazio! Le lenzuola tiravano gli ultimi, le gambe del letto si scioglievano in terribili posture, e le infermiere – ogni infermiera bendava la sua anima a una ferita, e scompariva.
Gli ospiti mortali non erano rimasti soddisfatti delle stanze, dei sorrisi, delle piante di plastica o del mare che quietava i loro sensi scorticati come Mamma Morfina
L’inverno in cui Sylvia Plath si svegliò, quel giorno, era la gabbia della sua mente che ostinatamente tentava di sabotarla mostrando il riflesso terribile e impietoso del genio...
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