|
|
| “Ogni notte, tornando dalla vita”
Ogni notte, tornando dalla vita, dinanzi a questo tavolo prendo una sigaretta e fumo solitario la mia anima.
La sento spasimare tra le dita e consumarsi ardendo.
Mi sale innanzi agli occhi con fatica in un fumo spettrale e mi ravvolge tutto, a poco a poco, d’una febbre stanca. I rumori e i colori della vita non la toccano più: sola in se stessa è tutta macerata di triste sazietà per colori e rumori.
Nella stanza è una luce violenta ma piena di penombre. Fuori, il silenzio eterno della notte.
Eppure nella fredda solitudine la mia anima stanca ha tanta forza ancora che si raccoglie in sé e brucia d’un’acredine convulsa. Mi si contrae fra mano, poi, distrutta, si fonde e si dissolve in una nebbia pallida che non è più se stessa ma si contorce tanto.
Così ogni notte, e non mi vale scampo, in un silenzio altissimo, io brucio solitario la mia anima.
(14 maggio 1928)
Tratta da “Le febbri di decadenza”, da "Prima di lavorare stanca" (1923 -1930), la poesia di Cesare Pavese racconta di un momento speciale della sera, quando l’io lirico rientra a casa “tornando dalla vita” e si chiude in se stesso, o sarebbe forse meglio dire che si apre a se stesso, abbandonandosi ad un gesto tanto semplice quanto consolatorio come quello di fumare una sigaretta, un rito che acquista un valore inestimabile. Nella poesia “Ogni notte, tornando dalla vita”, sembra quasi che il peso della “vita esteriore” opprima l’anima del poeta, che è libera di uscire e consumarsi, proprio come si consuma la sigaretta a cui essa è infatti assimilata lungo tutto il componimento, solo alla sera, nella solitudine confortevole e familiare della notte.
|
| |