JAMAICA KINCAID - Io appartengo ai vinti, agli sconfitti, Non sono interessata alla ricerca della positività

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view post Posted on 27/8/2022, 15:06     +4   +1   -1
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Jamaica Kincaid
“Io appartengo ai vinti, agli sconfitti".


Non sono interessata alla ricerca della positività. Io sono interessata alla ricerca della verità, e la verità spesso sembra non essere la felicità ma il suo opposto. Scrivo per rendere le persone un po’ meno felici, affinché pensino

È così che Jamaica Kincaid utilizza la scrittura – come diritto a trovare unicamente in sé stessa il punto archimedeo intorno a cui fare ruotare un’esistenza non più vincolata da autorità trascendenti o codici gerarchici. È una condizione che ti mette nella costante situazione di derubricare e affermare gli obiettivi: la sicurezza, la verità, il potere, le virtù, in parte incompatibili con la libertà individuale e col mondo da cui proviene (quella che Mill chiamava l’affermazione di sé dei pagani). È tra questo che si è formata Kincaid, tra potere e carenza, tra desiderio di autoaffermazione e senso di sradicamento, tra conquista e perdita.

Io appartengo ai vinti, appartengo agli sconfitti. Il passato è un punto fisso, il futuro è aperto a tutte le alternative; per me il futuro deve restare capace di far luce sul passato così che nella mia sconfitta possa nascondersi il seme della mia grande vittoria, così che nella mia sconfitta possa germogliare il seme della mia grande vendetta. Il mio impulso è verso il bene, il mio bene è servire me stessa. Io non sono un popolo, non sono una nazione. Desidero solo fare di tanto in tanto delle mie azioni le azioni d’un popolo, fare delle mie azioni le azioni di una nazione


Risuonano in queste parole Max Stirner, per cui l’io non è mai stato un oggetto di pensiero, le meravigliose pagine di Ayn Rand.

Jamaica Kincaid è nata Elaine Cynthia Potter Richardson nel 1949 tra i Caraibi (“la bellezza della mia terra sono le nuvole: immense, come costruzioni o palazzi, e bianchissime“), ha lasciato il suo paese a 16 anni per trasferirsi a New York e diventare una cittadina statunitense, ha iniziato a scrivere sotto lo pseudonimo Jamaica Kincaid racconti e romanzi, si è stabilita nel Vermont, si è sposata, insegna ad Harvard e ha sfiorato il nobel nel 2020. Ha iniziato a leggere a tre anni e mezzo grazie alla madre, un’appassionata lettrice che la portava con sé in biblioteca. Per non dare fastidio alla madre decide di leggere dei propri libri. Inizia così la scuola anzitempo – scuola in cui per punirla le facevano scrivere cento volte “Ignorance is a bliss, it’s folly to be wise”. Il libro che la segnerà per la vita, al punto da dichiarare in un’intervista che il suo obiettivo era sia esserne l’autrice sia la protagonista, è Jane Eyre.


Di rado si è letto un mondo di madri e figlie intrappolate in una lotta così illuminante come in Autobiografia di mia madre, Annie John e Lucy (solo Le cure domestiche di Marilynne Robinson e Amy e Isabelle di Elizabeth Strout ci si avvicinano, e al cinema Sinfonia D’autunno di Bergman).

Kincaid non supplica nessun amore: piange per l’incapacità di provarlo e per la sua impossibilità di conoscerlo. Dopo essere stata incapace di viverlo in Lucy e Annie John, lo invoca con la voce di un’orfana in Autobiografia di mia madre: dopo essere stata tradita, lo rimpiange. Kincaid rifiuta la sua razza, le sue origini, il suo sangue con sincerità; si convince che amore e voler bene siano parole ripetute da tutti ma che non esistono. Le sue eroine – trasfigurazioni di sé stessa – voltano le spalle, se ne vanno come fosse un diritto naturale, rinnegano e lasciano tutto ciò che conoscono solo nel tentativo di autoaffermarsi, ma non solo: se ne vanno per scoprire quanto sia facile andarsene, perché sono profondamente offese dalla vita che hanno dovuto vivere o semplicemente per cambiare, scegliere sempre ciò che non si conosce. Kincaid racconta la masturbazione femminile, ha il coraggio di nominare gli odori, il mestruo, la peluria, la sporcizia, il sesso, l’aborto – l’assoluta incapacità di diventare madre e l’odio e la naturalezza con cui si distrugge l’utero sperimentando un dolore assoluto, “un dolore cui ogni altro dolore era soltanto un riferimento a questo, una sua imitazione, un’aspirazione a raggiungerlo”. Nega tutto a sé stessa, qualsiasi felicità. Sposa uomini che non ama perché non le chiedono nulla. Non c’è traccia di gratitudine in Kincaid; pochi ammettono di provare un odio e un ribrezzo spontaneo quanto il suo – odio che la soffoca al punto da non poter lasciar refluire quel poco d’amore, superiorità che la costringe a fare del disprezzo la sua cifra.

Ti porta a capire che non ci sia nulla al mondo di certo o scontato o al quale lei decida di sottomettersi.

Non si trova in un libro di storia, né è l’opera di qualcuno il cui nome possa varcare le mie labbra. La morte è la sola realtà”.


Kincaid sente che le sue delusioni sono importanti, chiede il permesso di nutrirle, ripiegarle, riporle al sicuro vicino al petto. Crede che il limine del totale fallimento sia vicino, ma ancora non l’abbia varcato: “Non sono ancora un albero che cresce su una terra arida e aspra”.

In Autobiografia di mia madre la madre è morta dandola alla luce e il padre non poteva amarla “ma era convinto di potere, e questo doveva bastargli, perché forse metà del mondo crede la stessa cosa”. La mancanza di una madre la porta a chiedersi “Di chi sono – delle nuvole, del desiderio, dell’amore, della morte? se sua madre sarebbe stata crudele? L’avrebbe amata? E se no, avrebbe potuto costringerla?”. La protagonista riuscirà a dire di amare il padre – un padre che l’ha spinta fin da bambina tra le fauci della morte, affidandola a balie crudeli e matrigne spietate – solamente quando egli muore, e non ha più il potere di ferirla. Quest’orfana è un bello spirito, la più luminosa di tutti gli spiriti ma terribilmente scontenta della vita e del suo ordine; non vorrebbe lasciare nulla così come la vita l’ha ordinata. Ovunque lei penetri vuole deturpare l’opera di Dio. La sua malvagità è irrazionale, slegata da qualsiasi motivo o legge: il suo mondo, un mondo senza madre, è sprofondato nel caos. È incapace di chiedere scusa, non sa voler bene. Il libro si apre così:

Mia madre è morta nel momento in cui nascevo, e così per tutta la mia vita non c’è mai stato nulla fra me e l’eternità; alle mie spalle soffiava sempre un vento nero e desolato”.





Kincaid sente l’eternità: è tutto presente nello stesso momento, nulla si spegne mai, l’orrore è sempre vivo. In Annie John raccontando la sua infanzia, descrive il profondo rapporto di affetto che aveva con la madre; rapporto che svanisce e si spezza durante l’adolescenza, il giorno in cui vede sua madre fare sesso con suo padre: lì decide che le mani della madre non l’avrebbero mai più toccata. Ma la separazione non è così facile, e mentre il suo aspetto cambia e lo sviluppo arriva, da piccola donna continua a soffrire rendendosi conto che la madre un giorno scomparirà, grida mute, sogni angoscianti di abbandoni, malattie misteriose che la prostrano nel letto e che svaniranno col finire delle piogge: tutto nel rifiuto di crescere, nella perdita dell’innocenza di entrambe. Alla fine in Lucy, dopo aver abbandonato la sua casa per trasferirsi e lavorare come nanny oltreoceano, aver ignorato le lettere che sua madre continuava a scriverle, e aver scoperto che il padre è morto, scrive sul suo diario “Vorrei amare qualcuno tanto da morirne”: ammette di aver bisogno del mondo che ha sempre negato. Le conclusioni della Kincaid sono così: silenziose e violente, sorprendenti e laceranti. Usa il linguaggio come se esercitasse un’autorità non sui pensieri o le parole, bensì sullo spazio al di fuori del pensiero e oltre le parole, come se ci fosse una vacuità fuori di noi in attesa di essere riempita. Non sente alcuna responsabilità mentre scrive. Il rapporto madre figlia è vissuto così:

"Ti porto come una ferita
sulla fronte che non si rimargina.
Non sempre duole. E il cuore
non ne muore dissanguato.
Solo talvolta sono di colpo accecato e sento
del sangue in bocca
"

La Kincaid è convinta che la luce di ogni genere sia meglio dell’oscurità, e ogni cosa che conosce le dice che la luce è nemica delle tenebre e che solo la luce è ricetta per il buio. Alla luce, alla luce vera, ogni uomo reagisce strizzando gli occhi, qualsiasi uomo desidera proteggersi gli occhi. La realtà è come un mare silenzioso, e lo scrivere è l’azione che fa uscire da esso i suoni: gemiti, urla, grida; e dopo viene il dolore, il rimorso, la disperazione. La scrittura è l’ultima porta che tiene chiusa al di là la visione della morte. Rimarrà chiusa finché scrivi. Allora, se desideri rimanere in vita sai cosa fare.

La sua nostalgia è piuttosto un processo di placida rinuncia al passato, quasi una forma di lutto. Non ha niente a cui tornare.

A volte si sente il peso del suo essere nera, e allora lo esprime: Le persone di colore sono le persone più innocenti sulla faccia della terra: non hanno creato Auschwitz, non hanno lanciato due bombe atomiche, non hanno schiavizzato altri uomini, non hanno mai avuto gli strumenti per fare queste cose. Dovrebbero poter essere liberi di essere ciò che sono, e anzi, ricevere una certa grazia per la loro innocenza. Questa è la realtà: i bianchi non vogliono dividere nulla con loro, perché sono uomini vissuti troppo a lungo in un caldaio di terrore.



Una giovane Jamaica Kincaid


È chiaro che la storia li ha trasformati in nulla, delle cose senza nessun valore spirituale, nulla che possa concedersi il lusso dell’amore di sé.

Kincaid dice cose che noi tutti vorremmo dire, anche se non le proviamo, oltrepassa confini tracciati che noi tutti vorremmo sfondare, solo per provare il brivido libidinoso dell’odio. Perché anche l’odio, e non solo l’amore, è verità, e lei ce lo rivela e ce lo dimostra. La seguiamo mentre il suo odio si riversa sul mondo e lascia intaccata sé stessa. I suoi conflitti sembrano non avere soluzioni, e alla fine si trasformano in rinunce. Si pone domande che quasi nessuno osa farsi più: Cosa fa girare il mondo?: connivenza, inganno, omicidio. E la voce degli schiavi si chiede: cos’è che fa girare il mondo contro di me? – la simile domanda che si poneva Simone Weil: perché mi viene fatto del male? E ancora, gli schiavi avranno interesse a vedere la luce eterna? Scrivo da figlia che li ha profondamente amati: che coraggio ci vuole a scrivere contro i propri genitori? Perché mostrificare così totalmente e con tale repulsa il proprio sangue? Bisogna forse riconoscere prigioni, carcerieri, ovunque.

Se come dice Elaine Scarry di norma non esiste alcun linguaggio per esprimere il dolore e sia coloro che lo subiscono sia coloro che desiderano parlare a nome di altri (nell’urgenza di eliminare il dolore) hanno a disposizione uno strumento di espressione verbale frammentato, Jamaica Kincaid è riuscita a fare questo piccolo miracolo, a parlare del dolore di essere figlia. Fonte



Edited by Milea - 27/8/2022, 18:09
 
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