Dusty Springfield: la biografia di Karen Bartlett a 15 anni dalla morte, Alcool, malattia mentale, omosessualità mai svelata. E talento

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view post Posted on 14/7/2014, 09:12     +1   +1   -1
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Dusty Springfield: alcool, malattia
mentale, omosessualità mai svelata. E talento


La rivincita sulla tristezza della vita
in una biografia a 15 anni dalla morte di Springfield




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Quando, nel marzo del 1999, il nome di Dusty Springfield – insieme con quelli di Bruce Springsteen, di Paul McCartney e di Billy Joel, gli altri prescelti di quell’anno – venne aggiunto al pantheon della Hall of Fame del rock, a Cleveland, l’amico Elton John disse emozionato che «per me Dusty è la più grande cantante bianca di tutti i tempi». A ascoltare quel giudizio impegnativo, e il boato di applausi alla serata di gala, però la festeggiata non c’era: era morta due settimane prima, l’ennesima – e finale – scena triste di una vita dove il talento assoluto fu accompagnato dall’assoluta infelicità.

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Ora, quindici anni dopo la sua scomparsa a soli 59 anni per un tumore che l’aveva strappata alle scene già nel 1995, una nuova biografia, Dusty, di Karen Bartlett, appena uscita nel Regno Unito racconta la storia della cantante regina degli anni ’60, l’interprete del “soul dagli occhi blu” che cantava come le grandi artiste afroamericane.

La straordinaria voce da mezzosoprano che a Sanremo ascoltò Io che non vivo di Pino Donaggio e la trasformò in You don’t have to say you love me portata al numero 1 delle hit parade globali e dopo di lei incisa anche da Elvis e Tom Jones, la cantante regina della Swingin London che prese Son a preacher man scartata da Aretha Franklin e realizzò un altro successo-monstre (l’immensa Aretha, pentita, ne fece una cover l’anno successivo), alla fine degli ani ’70 era arrivata al capolinea, neanche quarantenne, fiaccata dall’alcolismo, dalle insicurezze (lo stile di occhi truccati col mascara e i capelli fissati nel “beehive” la rese ammirata e molto imitata, ma lei continuava a vedersi bruttissima, «sembro un omone, assomiglio a Burt Lancaster»), torturata dal disturbo ossessivo-compulsivo di cui soffriva fin da ragazza, costretta dai sensi di colpa a tenere celata la sua sessualità (fino all’ultimo meditò di fare coming out, cambiando sempre idea all’ultimo momento — una ex compagna dice di lei una cosa tristissima, «voleva essere etero, nera, e una buona cattolica e non era nessuna delle tre cose»).

La biografia di Karen Bartlett racconta con bravura e sguardo obiettivo da cronista, non da fan, gli anni del successo e quelli della caduta, quando ammetteva che «il mio colore preferito è quello della vodka», l’unica medicina che riusciva a calmare i suoi attacchi d’ansia. Bartlett racconta gli amori infelici e le crisi di nervi con teiere e tazzine che volavano nei camerini e bottiglie di vodka ordinate nel backstage, le esibizioni tristissime degli anni ’80 nei bar cantando sopra il vociare degli avventori, la disintossicazione dall’alcol finalmente riuscita quando era troppo tardi, la sua forte influenza sulle cantanti degli anni sucessivi (Amy Winehouse, altro talento grande quanto infelice, portava trucco e capelli esattamente come quelli di Dusty), la sua riscoperta negli anni finali della vita grazie ai meritori Pet Shop Boys che la coinvolsero in What I have done to deserve this e a Quentin Tarantino che usò Son of a preacher man per una scena centrale di Pulp Fiction, quella in cui Travolta conosce Uma Thurman, spiegando che senza la voce di Dusty non sarebbe stata in piedi.
E anche oggi il fascino di quella voce resta così presente: quando, due anni fa, una puntata-cult del serial Mad Men si chiuse proprio con You don’t have to say you love me, il mattino successivo nelle classifiche dei download di iTunes e Amazon la regina triste del soul era tornata, ancora una volta, sul trono.




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