La roulotte di JEAN- MARIE PFAFF

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view post Posted on 8/6/2014, 17:36     +2   +1   -1
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Sono così tanti a zoppicare che chi cammina dritto, pare in difetto!

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La roulotte di JEAN- MARIE PFAFF



Sono il suono di un tuffo, un salto nell’acqua, un’immersione. Sono il suono di una sorpresa, un batticuore, un palpito. Sono la leggerezza, l’allegria, il sorriso. Sono Pfaff, Jean-Marie Pfaff, e me ne vanto.


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Mio padre vendeva le sue stoffe e i suoi tappeti in giro per le strade.
Una vita da ambulante, un ambulante non abbassa mai lo sguardo. Mangiava ogni giorno nella stessa osteria, la signora Marie Veireman aveva imparato cosa preparargli, suo marito Jean De Lathouwer gli riservava un tavolo alla solita ora. Così, quando sono nato io, a mio padre venne facile unire i nomi delle due gentilissime persone che gli apparecchiavano il pranzo quotidiano, marito e moglie, Jean e Marie, e mi chiamo così.
Lui, mio padre, Honoré se ne andò che avevo 12 anni, sono cresciuto con i miei cinque fratelli e le mie sei sorelle. Mangia, Jean-Marie, mangia: era la loro prima grande preoccupazione, che stessi bene, che non mi mancasse nulla. Mangiavo e ingrassavo. Da Pfaff, per gli amici ero diventato Patapouf, il grassoccio. Perciò mi mettevano in porta quando si giocava a pallone nelle strade di Lebbeke, dove sono nato. Palloni su palloni, parate su parate, sono arrivato al Beveren. L’avevo promesso a lui, a mio padre: diventerò un bravo portiere.

Ma il calcio era all’epoca soltanto una passione, i miei soldi li guadagnavo in altro modo: prima in un ufficio postale, poi in un’azienda tessile, 14 franchi l’ora, c’era la famiglia da aiutare. Ogni giorno facevo 25 chilometri in bici, qualunque fosse il tempo, con il sole o con la pioggia. Vivevo in una roulotte nella piazza al centro di Anversa. Io, i miei fratelli e le mie sorelle. Quelli che vivono così, sono persone fantastiche. Eravamo felici, perché la gente intorno a noi era socievole. C’erano calore e amicizia, a me non viene in mente nulla che si possa desiderare di più.

Solo quando sposai Carmen, prendemmo una casa.
E aprimmo un negozio di articoli sportivi. Nel frattempo il Beveren mi aveva dato la maglia numero uno e un po’ di gloria: campionati, coppe, l’esordio in nazionale e la finale agli Europei in Italia. Il vero salto fu la Germania, quando nel 1982 arrivò la chiamata del Bayern. L’esordio fu un disastro, perdemmo 1-0 con il Werder Brema: autogol mio. Su una rimessa laterale, esco con la mano alta, la tocco appena con le dita. Palla in porta. Bene, mi dissi. Meglio sorridere. La prossima volta andrà meglio.




Uli Hoeness venne a riferirmi che qualcuno gli aveva telefonato, avvertendolo di stare attento a me, ero cresciuto in strada, ero un ambulante, un nomade, un brutto carattere, non stavo zitto mai. Mi disse che a lui tutto questo non interessava, il Bayern mi aveva chiamato perché pensava ch’io fossi un bravo portiere, e che lo pensava anche dopo quell’autogol.

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Gli risposi che per me tutto sommato era un episodio positivo, molto positivo, si trattava di un’azione così cretina da rendermi famoso in tutto il mondo. Ecco, io la avevo presa così. Allora Uli mi fissò e mi disse, Ti spiace se per un po’ non rilasci interviste?

Mi tennero muto, per tutelarmi, per nove settimane.
Il giorno in cui parai un rigore a Kaltz, la Germania scoprì la mia inverosimile lingua, un impasto di tedesco, olandese e fiammingo.
Ero il migliore del mondo, ma si faceva fatica a dirlo. Tutti guardavano la maschera che mettevo per nascondermi, la maglia rossa come omaggio a Kelly Le Brock, la mia fuga dal ritiro della nazionale vestito da infermiere, oppure la mela che mi tirarono certi spettatori e che mangiai appoggiato a un palo. Ma al parere degli altri quasi mai ho fatto caso. Se avessi ascoltato i medici, oggi non avrei le braccia. Una sbarra di acciaio me le aveva spezzate da bambino, i dottori volevano amputarle. Meno male che i miei fratelli diedero retta a me.

Ai Mondiali del Messico ci fermò solo Maradona, in semifinale, dopo due indimenticabili partite contro l’Urss negli ottavi di finale e contro la Spagna ai quarti, battuta ai calci di rigore. Vennero 10mila persone ad accoglierci a Bruxelles. Allora sì, si arresero tutti. Ero diventato El Simpático, perché sorridevo sempre. Mi elessero anche miglior portiere del torneo.

Ho smesso a 36 anni.
Ho fatto l’attore, ho prodotto vini e champagne, la vita della mia famiglia (tre figlie, mariti, sei nipoti) è stata al centro di un reality, ci hanno ripreso per 24 ore su 24. Perché il calcio a un certo punto finisce, ma la vita, signori, la vita continua.



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