Se Obama è presidente il merito è (anche) del jazz, Scritta da Ted Gioia, una innovativa Storia della musica che per gli afroamericani è diventata un fattore di identità

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view post Posted on 3/1/2014, 17:42     +2   +1   -1
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Sono così tanti a zoppicare che chi cammina dritto, pare in difetto!

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Se Obama è presidente
il merito è (anche) del jazz


Scritta da Ted Gioia, una innovativa Storia della musica
che per gli afroamericani è diventata un fattore di identità





Il ballo della “calinda” in Congo Square, a New Orleans,
agli inizi dell’Ottocento, in un acquerello di François Aimé Louis Dumoulin



Ma senza il jazz, il cittadino americano di origine africana Barack Obama sarebbe mai diventato presidente degli Stati Uniti? Senza una musica che ha rappresentato per gli afroamericani - quando erano schiavi e anche quando, molto tempo dopo, diventeranno uomini liberi - non solo una identità innegabile, ma la prova evidente che un frutto della loro cultura era capace di conquistare la ribalta da protagonista, ovunque nel mondo e non per una sera soltanto.

Affascina da subito, per la ricchezza di informazioni e per la capacità di tenere insieme vicende sociali, economiche e musicali, la Storia del jazz scritta dal compositore, pianista e critico californiano Ted Gioia. Uscita negli Stati Uniti nel 2011, fornita di un’ampia guida discografica e bibliografica, conosce ora la versione italiana, curata da Francesco Martinelli per la Edt in collaborazione con Siena Jazz (pp. 575, € 35).

Quando è nato il jazz? Gioia ne sposta l’inizio indietro nel tempo ed è la prima tesi innovativa del volume. New Orleans, 1819. La domenica mattina gli schiavi si riuniscono a Congo Square: ne hanno il diritto e lì ballano, suonano, cantano, improvvisano su strumenti costruiti utilizzando ogni tipo di materiale riciclato: legno, ferro, latta. Non sta nascendo soltanto una musica nuova, ma qualcosa di molto più significativo: «Poteva sembrare solo una festa, ma suonare un tamburo negli Stati Uniti del 1819, dove esplicite manifestazioni di africanità erano state altrove cancellate in modo sistematico e deliberato, era un enorme atto di volontà, memoria e resistenza». A Stono, nel South Carolina, era stato il suono dei tamburi a dare il segnale d’attacco della rivolta del 1739 contro la popolazione bianca.

New Orleans: una città afosa, sporca, funestata da tifoni e epidemie, dove la mortalità infantile arrivava al 45% e la durata della vita media si attestava sui 40 anni; la capitale dei traffici mercantili lungo il Mississippi, ceduta e ritornata dalla Francia alla Spagna prima di diventare parte degli Stati Uniti, dove i bordelli sono un’impresa economica, i neri vanno in chiesa, africanizzano i salmi e, come scrive il grande etnomusicologo Alan Lomax, «il risultato è una musica potente e originale come il jazz, ma profondamente malinconica, perché creata dal canto di persone duramente oppresse». Dunque - ed è la seconda tesi originale di Gioia, che si apre a riflessioni attualissime - la cultura cattolica dell’accoglienza «fu una balia benigna per il jazz». Accadde a New Orleans perché lì più che altrove l’insieme delle influenza spagnole, francesi e africane aveva reso quella comunità multietnica particolarmente ricettiva.

Sono tre i valori musicali che gli schiavi neri possiedono e comunicano: l’arte dell’improvvisazione, il piacere della spontaneità che tutti coinvolge, la potenza nuova del ritmo. «Berlioz nei suoi massimi sforzi con la sua armata di percussionisti non riuscì a produrre niente di paragonabile alla percussione armoniosa di questi selvaggi», scrive Edward Krehbiel dopo aver ascoltato un gruppo di musicisti africani a Chicago nel 1893. Pochi decenni dopo, Maurice Ravel, al ritorno dal suo viaggio negli Stati Uniti, racconterà agli europei l’enorme impressione ricevuta da quella musica nuova, che ben presto avrà musicisti e pubblico bianchi: la capacità delle «arti performative africane di trasformare la tradizione compositiva europea rappresenta la più potente e impressionante forza evolutiva nella storia della musica moderna». Affermazione radicale, ma non immotivata.

Nel racconto di Gioia appaiono tanti prìncipi e un solo re: Louis Amstrong, nato a New Orleans nel 1901, abbandonato dalla madre bambina, trascurato dal padre, accolto nella «Casa dei ragazzi orfani di colore» e lì avviato alla musica. Ha poco più di vent’anni quando già si rivela «vero maestro delle frasi e degli abbellimenti e di tutte quelle complicate combinazioni di note che affascinano la mente musicale occidentale». Nell’arco di una generazione, i «selvaggi» sono diventati musicisti che incidono dischi, vanno in tournée, conquistano il pubblico di tutti gli Stati Uniti e, dagli anni Trenta, anche d’Europa. «Fare avanzare l’idioma del jazz fino a produrre un Ellington o un Armstrong è stato un miracolo. Si cercherebbe invano in tutte le altre nazioni un altro esempio di una trasformazione altrettanto rapida e drammatica di una musica popolare in musica d’arte».

Colto e popolare, conclude l’autore, devono tornare a parlarsi, a non escludersi, per il reciproco benessere. E se il jazz ha un futuro, è nel ricordare il proprio «destino di musica del divenire e della fusione, di apertura al possibile. In questo senso la sua casa è ovunque, ma è probabile che non avrà mai una residenza definitiva». A tanto ottimismo si può controbattere ricordando che, a forza di fusioni e metamorfosi, diventa facile smarrire l’identità, come sta accadendo a tanti musicisti di oggi, non solo di ambito jazz. È forse l’unico punto debole di un libro formidabile. Fonte





Edited by Milea - 23/7/2021, 13:52
 
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