La luna e i falò, Cesare Pavese, Analisi e PDF

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view post Posted on 8/10/2013, 21:04     +4   +1   -1
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TUTTO CAMBIATO EPPURE UGUALE

( da La Luna e i falò- 1950)



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Dall'America dove ha fatto fortuna, Anguilla, ritorna per una breve vacanza alle sue Langhe, dove ha trascorso una misera infanzia di trovatello. Su questa “situazione” si innesta il motivo di fondo del romanzo: la ricognizione – fatta con l'animo dell'esule, dell'espatriato – dei luoghi dell'infanzia, paesaggi geografici e paesaggi dell'anima nel contempo, la ricerca dei colori e del senso di una terra mitica – la collina, i poderi, la stalla e le bestie – che nella anonima e disumana vita di espatriato l'”americano si è portato nel sangue.

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Ma il ritorno a quella terra, l'onda di memorie che i luoghi rivisti suscitano approda alla elegia e nel contempo alla tragedia: Certe volte mi chiedevo perchè, di tanta gente viva, non restassimo che io e Nuto, proprio noi... Ero tornato, ero sbucato, avevo fatto fortuna... la le facce, le voci e le mani che dovevano toccarmi e riconoscermi, non c'erano più. Da un pezzo non c'erano più... non sapevo che crescere vuol dire andarsene, invecchiare, veder morire, ritrovare la Mora com'era adesso.

Nemmeno i luoghi della memoria quindi sfuggono all'inesorabile legge del tempo. E a questa legge – amara ma pur naturale – dell'irrimediabile fine delle cose si aggiunge ancora dell'altro: la violenza della recente storia, i cadaveri che ancora affiorano in quella terra tra fango e pietre. L'ingresso brutale della storia distrugge il mito dei luoghi dell'infanzia che l'espatriato Anguilla-Pavese ha vagheggiato. (Milea)


La luna e i falò PDF


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Il ragazzo ci ascoltava appoggiato al muro, e mi accorsi che non era che ridesse - aveva le mascelle sporgenti e i denti radi e quella crosta sotto l'occhio -, sembrava che ridesse, e stava invece attento.

Dissi alle donne: - Allora vado a cercare il Valino -. Volevo starmene solo. Ma le donne gridarono al ragazzo: - Muoviti. Va' a vedere anche tu.

Così mi misi per il prato e costeggiai la vigna, che tra i filari adesso era a stoppia di grano, cotta dal sole. Per quanto dietro la vigna, invece dell'ombra nera dei noccioli, la costa fosse una meliga bassa, tanto che l'occhio ci spaziava, quella campagna era ben minuscola, un fazzoletto. Cinto mi zoppicava dietro e in un momento fummo al noce. Mi parve impossibile di averci tanto girato e giocato, di lì alla strada, di esser sceso nella riva a cercare le noci o le mele cadute, aver passato pomeriggi intieri con la capra e con le ragazze su quell'erba, avere aspettato nelle giornate d'inverno un po' di sereno per poterci tornare - neanche se questo fosse stato un paese intiero, il mondo. Se di qui non fossi uscito per caso a tredici anni, quando Padrino era andato a stare a Cossano, ancor adesso farei la vita del Valino, o di Cinto.

Come avessimo potuto cavarci da mangiare, era un mistero. Allora rosicchiavamo delle mele, delle zucche, dei ceci. La Virgilia riusciva a sfamarci. Ma adesso capivo la faccia scura del Valino che lavorava lavorava e ancora doveva spartire. Se ne vedevano i frutti - quelle donne inferocite, quel ragazzo storpio.

Chiesi a Cinto se i noccioli li aveva ancora conosciuti. Piantato sul piede sano, mi guardò incredulo, e mi disse che in fondo alla riva ce n'era ancora qualche pianta. Voltandomi a parlare, avevo visto sopra le viti la donna nera che ci osservava dall'aia. Mi vergognai del mio vestito, della camicia, delle scarpe. Da quanto tempo non andavo più scalzo? Per convincere Cinto che un tempo ero stato anch'io come lui, non bastava che gli parlassi così di Gaminella. Per lui Gaminella era il mondo e tutti gliene parlavano cosi. Che cosa avrei detto ai miei tempi se mi fosse comparso davanti un omone come me e io l'avessi accompagnato nei beni? Ebbi un momento l'illusione che a casa mi aspettassero le ragazze e la capra e che a loro avrei raccontato glorioso il grande fatto.

Adesso Cinto mi veniva dietro interessato. Lo portai fino in fondo alla vigna. Non riconobbi più i filari; gli chiesi chi aveva fatto il trapianto. Lui cianciava, si dava importanza, mi disse che la madama della Villa era venuta solo ieri a raccogliere i pomodori. - Ve ne ha lasciati? - chiesi. - Noi li avevamo già raccolti, - mi disse.

Dov'eravamo, dietro la vigna, c'era ancora dell'erba, la conca fresca della capra, e la collina continuava sul nostro capo. Gli feci dire chi abitava nelle case lontane, gli raccontai chi ci stava una volta, quali cani avevano, gli dissi che allora eravamo tutti ragazzi. Lui mi ascoltava e mi diceva che qualcuno ce n'era ancora. Poi gli chiesi se c'era sempre quel nido dei fringuelli sull'albero che spuntava ai nostri piedi dalla riva. Gli chiesi se andava mai nel Belbo a pescare con la cesta.

Era strano come tutto fosse cambiato eppure uguale. Nemmeno una vite era rimasta delle vecchie, nemmeno una bestia; adesso i prati erano stoppie e le stoppie filari, la gente era passata, cresciuta, morta; le radici franate, travolte in Belbo - eppure a guardarsi intorno, il grosso fianco di Gaminella, le stradette lontane sulle colline del Salto, le aie, i pozzi, le voci, le zappe, tutto era sempre uguale, tutto aveva quell'odore, quel gusto, quel colore d'allora.

Gli feci dire se sapeva i paesi intorno. Se era mai stato a Canelli. C'era stato sul carro quando il Pa era andato a vendere l'uva da Gancia. E certi giorni traversavano Belbo coi ragazzi del Piola e andavano sulla ferrata a veder passare il treno.

Gli raccontai che ai miei tempi questa valle era più grande, c'era gente che la girava in carrozza e gli uomini avevano la catena d'oro al gilè e le donne del paese, della Stazione, portavano il parasole. Gli raccontai che facevano delle feste - dei matrimoni, dei battesimi, delle Madonne - e venivano da lontano, dalla punta delle colline, venivano i suonatori, i cacciatori, i sindaci. C'erano delle case - palazzine, come quella del Nido sulla collina di Canelli - che avevano delle stanze dove stavano in quindici, in venti, come all'albergo dell'Angelo, e mangiavano, suonavano tutto il giorno. Anche noi ragazzi in quei giorni facevamo delle feste sulle aie, e giocavamo, d'estate, alla settimana; d'inverno, alla trottola sul ghiaccio.

La settimana si faceva saltando su una gamba sola, come stava lui, su delle righe di sassolini senza toccare i sassolini. I cacciatori dopo la vendemmia giravano le colline, i boschi, andavano su da Gaminella, da San Grato, da Camo, tornavano infangati, morti, ma carichi di pernici, di lepri, di selvaggina. Noi dal casotto li vedevamo passare e poi fino a notte, nelle case del paese, si sentiva far festa, e nella palazzina del Nido laggiù - allora si vedeva, non c'erano quegli alberi - tutte le finestre facevano luce, sembrava il fuoco, e si vedevano passare le ombre degli invitati fino al mattino.

Cinto ascoltava a bocca aperta, con la sua crosta sotto l'occhio, seduto contro la sponda
- Ero un ragazzo come te, - gli dissi, - e stavo qui con Padrino, avevamo una capra. Io la portavo in pastura. D'inverno quando non passavano più i cacciatori era brutto, perchè non si poteva neanche andare nella riva, tant'acqua e galaverna che c'era, e una volta - adesso non ci sono più - da Gaminella scendevano i lupi che nei boschi non trovavano più da mangiare, e la mattina vedevamo i loro passi sulla neve. Sembrano di cane ma sono più profondi. Io dormivo nella stanza là dietro con le ragazze e sentivamo di notte il lupo lamentarsi che aveva freddo nella riva...

- Nella riva l'altr'anno c'era un morto, - disse Cinto.
Mi fermai. Chiesi che morto.
- Un tedesco, - mi disse. - Che l'avevano sepolto i partigiani in Gaminella. Era tutto scorticato...
- Così vicino alla strada? - dissi.
- No, veniva da lassù, nella riva. L'acqua l'ha portato in basso e il Pa l'ha trovato sotto il fango e le pietre...


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Edited by Milea - 14/7/2021, 20:45
 
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view post Posted on 8/10/2013, 22:07     +4   +1   -1
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Il falò del Valino

( da La Luna e i falò- 1950)



Libri



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Collegabile al precedente, questo brano in modo più esemplare testimonia il duplice piano, di elegia e di tragedia, sul quella si sviluppa quella ricognizione del luoghi della memoria che costituisce il motivo portante de La luna e i falò.

Il motivo elegiaco anzi, in tutta la prima parte del brano ha forse esiti più felici di tutto il romanzo con quella struggente domanda iniziale - Di tutto quanto, della Mora, di quella vita di noialtri che cosa resta?- con quel susseguirsi di considerazioni che da quest’avvio si sviluppa.
Ma il brano si conclude con un tragico colpo di scena: il Valino, il colono che ora lavora sul podere Gaminella (dove Anguilla ha trascorso l’infanzia e che varie volte è tornato a contemplare quasi alla ricerca di una stagione della sua vita) dopo aver dato fuoco alla casa e alle bestie si è impiccato nella vigna. E’ Cinto, il povero ragazzo sciancato, ora unico superstite, a darne notizia: e con questo tragico falò si chiude il capitolo che si era aperto coi toni di una dolente elegia.

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Anguilla, in giro per il mondo, si è portato nella memoria il ricordo di ben altri falò: quelli che i contadini accendono sul gerbido per svegliare la terra, secondo un’arcaica consuetudine, o sulle colline per solennizzare le feste paesane. Ma a questi falò, emblemi di una secolare religione agricola e immagine, nella sua memoria, della terra da cui si è allontanato si sostituiscono ora, nella realtà presente, quelli nati dalla disperazione (come quello del Valino) o dalla tragica violenza della storia ( come quello nel quale bruciava Santina, la più giovane delle padroncine della Mora, giustiziata come spia dei partigiani). Per Anguilla-Pavese il vagheggiamento del mito della collina , della terra d’origine non è più possibile.

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Ma vale la pena sottolineare che mentre ne La casa in collina la sconsacrazione di questo mito lasciava ancora adito a problemi che avevamo legami con la storia degli uomini, qui il vuoto lasciato dal crollo di quel mito non può essere in alcun modo colmato. Col suicidio che seguì di qualche mese la pubblicazione di questo romanzo, Pavese confermava tragicamente questa impossibilità.(Milea)


Libri



XXVI.

Di tutto quanto, della Mora, di quella vita di noialtri, che cosa resta? Per tanti anni mi era bastata una ventata di tiglio la sera, e mi sentivo un altro, mi sentivo davvero io, non sapevo nemmeno bene perchè. Una cosa che penso sempre è quanta gente deve viverci in questa valle e nel mondo che le succede proprio adesso quello che a noi toccava allora, e non lo sanno, non ci pensano. Magari c'è una casa, delle ragazze, dei vecchi, una bambina - e un Nuto, un Canelli una stazione, c'è uno come me che vuole andarsene via e far fortuna -, e nell'estate battono il grano, vendemmiano, nell'inverno vanno a caccia, c'è un terrazzo - tutto succede come a noi. Dev'essere per forza così.

I ragazzi, le donne, il mondo, non sono mica cambiati. Non portano più il parasole, la domenica vanno al cinema invece che in festa, dаnno il grano all'ammasso, le ragazze fumano - eppure la vita è la stessa, e non sanno che un giorno si guarderanno in giro e anche per loro sarà tutto passato. La prima cosa che dissi, sbarcando a Genova in mezzo alle case rotte dalla guerra, fu che ogni casa, ogni cortile, ogni terrazzo, è stato qualcosa per qualcuno e, più ancora che al danno materiale e ai morti, dispiace pensare a tanti anni vissuti, tante memorie, spariti così in una notte senza lasciare un segno. O no? Magari è meglio così, meglio che tutto se ne vada in un falò d'erbe secche e che la gente ricominci. In America si faceva così - quando eri stufo di una cosa, di un lavoro, di un posto, cambiavi. Laggiù perfino dei paesi intieri con l'osteria, il municipio e i negozi adesso sono vuoti, come un camposanto.

Nuto non parla volentieri della Mora, ma mi chiese diverse volte se non avevo più visto nessuno. Lui pensava a quei ragazzi di là intorno, ai soci delle bocce, del pallone, dell'osteria, alle ragazze che facevamo ballare. Di tutti sapeva dov'erano, che cosa avevano fatto; adesso, quando eravamo alla casa del Salto e ne passava qualcuno sullo stradone, lui gli diceva con l'occhio del gatto: - E questo qui lo conosci ancora? - Poi si godeva la faccia e la meraviglia dell'altro e ci versava da bere a tutti e due. Discorrevamo. Qualcuno mi dava del voi. - Sono Anguilla, - interrompevo, - che storie. Tuo fratello, tuo padre, tua nonna, che fine hanno fatto? E' poi morta la cagna?

Non erano cambiati gran che; io, ero cambiato. Si ricordavano di cose che avevo fatto e avevo detto, di scherzi, di botte, di storie che avevo dimenticato. - E Bianchetta? - mi disse uno, - te la ricordi Bianchetta? - Sì che la ricordavo. - Si è sposata ai Robini, - mi dissero, - sta bene.

Quasi ogni sera Nuto veniva a prendermi all'Angelo, mi cavava dal crocchio di dottore, segretario, maresciallo e geometri, e mi faceva parlare. Andavamo come due frati sotto la lea del paese, si sentivano i grilli, l'arietta di Belbo - ai nostri tempi in quell'ora in paese non c'eravamo mai venuti, facevamo un'altra vita.

Sotto la luna e le colline nere Nuto una sera mi domandò com'era stato imbarcarmi per andare in America, se ripresentandosi l'occasione e i vent'anni l'avrei fatto ancora. Gli dissi che non tanto era stata l'America quanto la rabbia di non essere nessuno, la smania, più che di andare, di tornare un bel giorno dopo che tutti mi avessero dato per morto di fame. In paese non sarei stato mai altro che un servitore, che un vecchio Cirino (anche lui era morto da un pezzo s'era rotta la schiena cadendo da un fienile e aveva ancora stentato più di un anno) e allora tanto valeva provare, levarmi la voglia, dopo che avevo passata la Bormida, di passare anche il mare.
- Ma non è facile imbarcarsi, - disse Nuto. - Hai avuto del coraggio.
Non era stato coraggio, gli dissi, ero scappato. Tanto valeva raccontargliela.

- Ti ricordi i discorsi che facevamo con tuo padre nella bottega? Lui diceva già allora che gli ignoranti saranno sempre ignoranti, perchè la forza è nelle mani di chi ha interesse che la gente non capisca, nelle mani del governo, dei neri, dei capitalisti... Qui alla Mora era niente, ma quand'ho fatto il soldato e girato i carrugi e i cantieri a Genova ho capito cosa sono i padroni, i capitalisti, i militari... Allora c'erano i fascisti e queste cose non si potevano dire... Ma c'erano anche gli altri...

Non gliel'avevo mai raccontata per non tirarlo su quel discorso che tanto era inutile e adesso dopo vent'anni e tante cose successe non sapevo nemmeno più io che cosa credere, ma a Genova quell'inverno ci avevo creduto e quante notti avevamo passato nella serra della villa a discutere con Guido, con Remo, con Cerreti e tutti gli altri. Poi Teresa s'era spaventata, non aveva più voluto lasciarci entrare e allora le avevo detto che lei continuasse pure a far la serva, la sfruttata, se lo meritava, noi volevamo tener duro e resistere.

Così avevamo continuato a lavorare in caserma, nelle bettole e, una volta congedati, nei cantieri dove trovavamo lavoro e nelle scuole tecniche serali. Teresa adesso mi ascoltava paziente e mi diceva che facevo bene a studiare, a volermi portare avanti, e mi dava da mangiare in cucina. Su quel discorso non tornava più. Ma una notte venne Cerreti a avvertirmi che Guido e Remo erano stati arrestati, e cercavano gli altri. Allora Teresa, senza farmi un rimprovero, parlò lei con qualcuno - cognato, passato padrone, non so, e in due giorni mi aveva trovato un posto di fatica su un bastimento che andava in America. Così era stato, dissi a Nuto.

- Vedi com'è, - disse lui. - Alle volte basta una parola sentita quando si è ragazzi, anche da un vecchio, da un povero meschino come mio padre, per aprirti gli occhi... Sono contento che non pensavi soltanto a far soldi... E quei compagni, di che morte sono morti?

- Andavamo così, sullo stradone fuori del paese, e parlavamo del nostro destino. Io tendevo l'orecchio alla luna e sentivo scricchiolare lontano la martinicca di un carro - un rumore che sulle strade d'America non si sente più da un pezzo. E pensavo a Genova, agli uffici, a che cosa sarebbe stata la mia vita se quel mattino nel cantiere di Remo avessero trovato anche me. Tra pochi giorni tornavo in viale Corsica. Per quest'estate era finita.

Qualcuno correva sullo stradone nella polvere, sembrava un cane. Vidi ch'era un ragazzo: zoppicava e ci correva incontro. Mentre capivo ch'era Cinto, fu tra noi, mi si buttò tra le gambe e mugolava come un cane.
- Cosa c'è?
Lì per lì non gli credemmo. Diceva che suo padre aveva bruciato la casa. - Proprio lui, figurarsi, - disse Nuto.
- Ha bruciato la casa, - ripeteva Cinto. - Voleva ammazzarmi... Si è impiccato... ha bruciato la casa...
- Avranno rovesciato la lampada, - dissi.
- No no, - gridò Cinto, - ha ammazzato Rosina e la nonna. Voleva ammazzarmi ma non l'ho lasciato... Poi ha dato fuoco alla paglia e mi cercava ancora, ma io avevo il coltello e allora si è impiccato nella vigna...

Cinto ansava, mugolava, era tutto nero e graffiato. S'era seduto nella polvere sui miei piedi, mi stringeva una gamba e ripeteva: - Il papà si è impiccato nella vigna, ha bruciato la casa... anche il manzo. I conigli sono scappati, ma io avevo il coltello... E’ bruciato tutto, anche il Piola ha visto...


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Edited by Milea - 27/6/2022, 20:34
 
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