Alekos Panagulis: ricordando un poeta, Alekos zi, zi, zi... Alekos vive !

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Alekos Panagulis: ricordando un poeta




panagulis


Sono nato senza che sapessi il perché
Piangendo ho affrontato il mondo
Ora muoio sapendo il perché
senza piangere


(Gennaio 1972)





La maggior parte degli italiani conosce il nome di Alekos Panagulis per via del meraviglioso libro che la sua compagna, Oriana Fallaci, scrisse dopo la sua morte, avvenuta a Glyfada il 1 maggio del 1976.

Chi era Alekos Panagulis?
Un politico? Un rivoluzionario? Un uomo qualunque? In una vecchia intervista che Oriana Fallaci, ancora priva dei segni che il cancro lasciò in seguito sul suo viso di donna altera e forte, rilasciò ad un anno dalla morte del suo uomo, la scrittrice di “Lettera ad un bambino mai nato” (storia del loro figlio, mai nato) parlò di Alekos Panagulis come di un poeta, il cui eroismo non era altro che la diretta conseguenza della propria poesia. Effettivamente basta imbattersi nelle meravigliose poesie che Alekos scrisse durante la sua vita di idealista passionale e travagliato o in alcuni aneddoti che lo riguardano per rendersi conto di quanto ogni sua azione, iniziando da quelle compiute per mettere su carta il suo amore e il suo dolore di vivere e finendo con quelle il cui scopo era sabotare la dittatura che si era impadronita del suo paese, fosse riconducibile al concetto ineffabile e meraviglioso di “poesia”.

Un poeta non è uno che è bravo a scrive poesie, né uno che pensa in rima, né uno che sa come far pendere dalle proprie labbra i propri interlocutori. Un poeta è uno che fa poesia, il che significa che chiedere a qualcuno cosa sia un poeta sarebbe come domandagli di descrivere il colore rosso senza poter portare esempio alcuno.

Il 5 maggio del 1976, giorno dei funerali di Alekos Panagulis, il popolo greco scese in massa nelle strade e gridò ad una bara farcita di poesia “Zi, zi, zi”, “Vive, vive, vive”; Oriana Fallaci racconta con estrema perizia quel momento nel libro che ha seguito la morte del suo Alekos: “Un uomo”.(i libri che raccolgono le poesie di Alekos sono due: Altri seguiranno (1972) e Vi scrivo da un carcere in Grecia (1974).


Alekos Panagulis era nato nel 1939 ad Atene, studiava ingegneria al politecnico quando il colpo di stato di Papadopulos, cambiò per sempre la sua vita. Il 13 Agosto 1967 organizza ed esegue un attentato contro il dittatore, che però fallisce. Viene arrestato immediatamente dopo, condotto all’ Esa, il palazzo della polizia speciale, il palazzo delle torture, e qui seviziato, torturato di ogni tortura possibile per tre lunghi mesi, infine condannato a morte in un processo farsa durante il quale, in una memorabile apologia, da accusato diventa accusatore della dittatura, rivendica l’attentato contro Papadopulos e si rammarica di aver fallito, sollecitando lui stesso la pena che gli verrà inflitta e poi commutata in carcere: la fucilazione… La sentenza non viene eseguita forse per paura che la sua morte lo trasformi in un eroe, simbolo della lotta contro il Potere, della lotta contro il tiranno. Ma simbolo diviene comunque, anche da vivo. Trascorre cinque anni e mezzo rinchiuso, murato vivo in una tomba (come altro chiamare una cella di un metro e mezzo per tre?). Poi, grazie alle fortissime pressioni internazionali, Papadopulos, il tiranno, gli concede la grazia. Una volta caduta la Giunta, viene eletto come deputato in Parlamento, ma la sua lotta contro il Potere non è ancora finita: perché in Grecia non si può ancora parlare di democrazia. Non dà requie a nessuno, meno che mai al ministro della di Difesa Averoff: uomo che col passato regime ha tenuto rapporti non chiari.

Alekos sa che esistono documenti in grado di provare l’ex collaborazionismo del ministro. Due giorni prima della presentazione in Parlamento di quei documenti, mercoledì 5 Maggio 1976, Alekos rimane ucciso in un incidente d’auto. Difficile pensare ad una semplice coincidenza. Ai suoi funerali partecipa un milione e mezzo di persone: Πάνήγύρις (adunanza solenne di tutto il popolo). Il gregge, il popolo muto, il popolo indifferente, si era infine svegliato e gridava dietro quella bara, Alekos zi, Alekos zi, zi, zi. Alekos vive. La sua storia è narrata da Oriana Fallaci, sua compagna per tre anni, nel libro “Un uomo”.




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“Dinanzi a te c’era un baratro. Così largo, così fondo, così vuoto che il solo percepirlo ti dava la nausea, la voglia di vomitare. E questo baratro era lo spazio, lo spazio aperto. Dentro il sepolcro avevi dimenticato che cosa fosse lo spazio, lo spazio aperto. Era una cosa terribile. Perchè era una cosa che non era: senza un muro che lo limitasse, senza un soffitto che lo tappasse, senza una porta che lo chiudesse, senza un lucchetto, senza sbarre!
Si spalancava dinanzi a te e intorno a te come un oceano misterioso, insidioso, e l’unico riferimento era la terra che si stendeva giù per la vallata e per le colline, appena interrotta da ciuffi d’erba o da alberi: allucinante. Ma la cosa peggiore era il cielo. Dentro il sepolcro aveva dimenticato anche cosa fosse il cielo. Era un vuoto sopra un vuoto, una vertigine sopra la vertigine: così azzurro, no, così giallo, no, così bianco. Così cattivo. Bruciava le pupille più di un acido, più di un fuoco. Chiudesti gli occhi per non accecare, allungasti le braccia per non cadere. E subito il pensiero della tua cella ti afferrò insieme a una nostalgia irresistibile, un desiderio irrefrenabile di tornarci, rifugiarti nel suo buio, nel suo ventre angusto e sicuro. La mia cella, ridatemi la mia cella. L’ufficiale che portava la borsa con i vocabolari e con le lime capì, ti raggiunse, ti toccò una spalla: “Coraggio”. Riapristi gli occhi, sbattendo le palpebre, facesti un passo, poi un altro, e poi un altro ancora. Ti fermasti di nuovo. Non era una questione di coraggio, era questione di equilibrio. Camminare in tutto quello spazio, quella luce, e da solo, non era come camminare lungo i viottoli della prigione, stretto da due guardie che ti sorreggono per i gomiti: era come brancolare sull’orlo di un precipizio. Perfino andare diritto era difficilissimo perchè in mancanza di pareti, ostacoli, non capivi dove fosse il diritto e l’obliquo, il davanti e l’indietro, capivi soltanto che c’era il sopra e il sotto, il cielo e la terra, il sole abbagliante. Però a poco a poco, mentre la nausea cresceva, e l’incertezza, e la paura, mentre tutto si allargava e ruotava e si rovesciava per farti ripetere la-mia-cella-ridatemi-la-mia-cella, ritrovasti te stesso. E scorgesti qualcosa. Cosa? V’erano ombre laggiù, macchie in movimento. Venivano verso di te fluttuando, agitando strane appendici che a momenti sembravano ali e a momenti sembravano braccia.
Uccelli o persone? Persone, perchè rumoreggiavano indefinibili suoni che dovevano essere voci: “Aleekoos! Aleekoos!” Che sforzo atroce dirigersi da quella parte. “Aleekoos! Aleekoos!”D’un tratto dalle macchie si staccò una macchia: una figura nera, tozza. E divenne una donna col vestito nero e le calze nere e le scarpe nere e il cappellino nero e gli occhiali neri. E ti corse incontro, con le mani tese, le dita tese. Tua madre. Le cadesti addosso. E allora tutti ti furono addosso, amici, e parenti, e giornalisti, per toccarti, abbracciarti, chiamarti affinchè tu non rimpiangessi più la tua cella, e infatti, di colpo, non la rimpiangevi più, ti sentivi inspiegabilmente felice; pur avendo un gran bisogno di piangere. Non avresti voluto piangere, avresti voluto dire qualcosa di importante, di storico. Ma più ti chiedevi cosa poteva essere questo qualcosa, più il bisogno di piangere cresceva, gonfiava, diventava un formicolio alla gola, una cortina d’acqua sugli occhi.
Perchè lo smarrimento che avevi provato vedendo quel baratro ora si traduceva in un’intuizione precisa, anzi nella consapevolezza che la libertà sarebbe stata per te un’altra sofferenza, un altro dolore.
E questo era l’uomo che l’indomani avrei finalmente incontrato, per cozzare contro di lui come un treno che percorre all’inverso lo stesso binario.”(Oriana Fallaci - Un uomo)

L’OMBRA

Amai tanto la luce
Che riuscii ad accendere una candela
ma sprecai quella piccola luce
Ma prima di provarne gioia
disperato ebbi la sensazione
di proiettare anche altrove un buio pesante
Perché la stessa luce che io trattenevo
con l’ombra del mio corpo
colmava di buio le mie strade

(Febbraio 1971)



orianapanagulis

“Ti ho amato al punto di non poter sopportare l'idea di ferirti pur essendo ferita, e amandoti ho amato i tuoi difetti, i tuoi errori, le tue bugie, le tue bruttezze, le tue contraddizioni, il tuo corpo. E forse il tuo carattere non mi piaceva, nè il tuo modo di comportarti, però ti ho amato di un amore più forte del desiderio, più cieco della gelosia: a tal punto implacabile, a tal punto inguaribile, che ormai non potevo più concepire la vita senza te. Ne hai fatto parte quanto il mio respiro, le mie mani, il mio cervello e rinunciare a te è stato come rinunciare a me stessa, ai miei sogni, alle mie illusioni, alle mie speranze, alla vita! E quest’amore è stato una malattia, e di tale malattia potevo elencare tutti i segni, tutti i fenomeni. Un amore simile non è stato nemmeno una malattia... è stato un cancro!
Un cancro che a poco a poco invade gli organi interni col suo moltiplicarsi di cellule, il suo plasma vischioso di male, e più cresci e più diventi cosciente che nessuna medicina può arrestarlo, nessun intervento chirurgico può asportarlo, forse sarebbe stato possibile quando era un granellino di sabbia, un chicco di riso, una vocina che grida, un amplesso mentre il vento fruscia tra i rami d'olivo, ora invece non è possibile perchè ti ruba ogni organo, ti divora a tal punto che non sei più te stessa ma un impasto fuso con lui, un unico magma che può disfarsi solo con la morte, la sua morte che sarebbe anche la tua morte, così tu mi hai invaso e così tu mi stavi divorando”.
(Oriana Fallaci - Un uomo)


PROMESSA

Le lacrime che dai nostri occhi
vedrete sgorgare
non crediatele mai
segni di disperazione
Promessa sono solamente
Promessa di lotta

(Febbraio 1972)




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L’abitudine è la più infame delle malattie perché ci fa accettare qualsiasi disgrazia, qualsiasi dolore, qualsiasi morte. (…) La sera in cui avevi rinunciato a tentare di nuovo la fuga era successo ben questo. Era successo cioè quel che non avresti mai creduto possibile: gli spazi aperti e il verde e l’azzurro e la gente non ti mancavano più. (…)

E tuttavia esisteva qualcosa che l’abitudine al buio, alla mancanza di spazio, alla monotonia non avevano spento: la tua capacità di sognare, di fantasticare, e di tradurre in versi il dolore, la rabbia, i pensieri. Più il tuo corpo si adeguava, si atrofizzava nella pigrizia, più la tua mente resisteva e la tua immaginazione si scatenava per partorire poesie. Avevi sempre scritto poesie, fin da ragazzo, ma fu in quel periodo che la tua vena creativa esplose: incontenibile. Decine e decine di poesie. Quasi ogni giorno una poesia, magari breve. Le scrivevi anche se Zakarakis ti sequestrava la carta e la penna, perché allora afferravi una lametta che tenevi da parte per questo, ti incidevi il polso sinistro, inzuppavi nella ferita un fiammifero o uno stecchino, e scrivevi col sangue su ciò che capitava: l’involucro di una garza, un pezzetto di stoffa, una scatola vuota di sigarette. Poi aspettavi che Zakarakis ti restituisse la carta, la penna, copiavi con calligrafia minutissima, attento a non sprecare un millimetro di spazio, piegavi il foglio ricavandone strisce sottili, e lo mandavi nel mondo a raccontare la fiaba di un uomo che neanche nell’abitudine cede. Gli stratagemmi erano vari: buttare i nastrini di carta nella spazzatura perché una guardia amica li raccogliesse, infilarli nelle cuciture dei pantaloni che mandavi a casa per lavare, farli scivolare addosso a tua madre quando veniva a trovarti. Prima però imparavi i versi a memoria, onde prevenirne lo smarrimento o la distruzione, e che battibecchi quando Zakarakis pretendeva di leggerli per censurarli o approvarli. “Dove li hai messi? Dammeli! Non lo sai che in carcere il direttore deve censurare qualsiasi scritto?” “ Lo so ma non posso darteli, Zakarakis. Li ho chiusi nel mio magazzino.” “Quale magazzino?! Voglio vedere il magazzino!” “Eccolo qui, Zakarakis” E indicavi la testa. “ Non ci credo, fottuto bugiardo, non ci credo!” Avrebbe dovuto, al contrario, perché in quel magazzino avremmo trovato, anni dopo, tutte le poesie perdute o distrutte: per pubblicarle in un libro che molti pensavano fosse l’inizio di una carriera letteraria.”(Oriana Fallaci - Un uomo)


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SCENE - MEMORIE

Legato mani e piedi
a un letto di ferro
e le catene
costringono il corpo all’immobilità

Corvi attorno a me
vogliono straziarmi
Sono schiavi dei tiranni
e hanno sembianze umane

Con legni percuotono le piante dei miei piedi
mi spengono sigarette sul corpo
sul mio viso insanguinato
appoggiano le canne delle loro pistole
e urlano senza fine

Mi insultano e gridano minacce
Loro che hanno disertato
chiamano me disertore
Loro che hanno tradito
dicono a me traditore

Loro su cui il Popolo sputerà domani
sputano su di me
Mi chiamano puttana
incapaci di vedere
la forza interiore e la verità
nelle ingiurie e nell’ira di me incatenato

Mi chiamano puttana
e la frusta
lascia segni sul mio corpo
ferite nuove
ferite che si spalancano incredule

Sulla camicia di carne
i rivoli di sangue
cambiano colore
Ma continuano a picchiare
e ogni tanto
con nuove torture cercano
di gonfiare il dolore

Le mani che mi tappavano
il naso e la bocca
le mordevo
Ma adesso
che una coperta mi avvolge la testa
il cielo
scende sui miei occhi
colmo di stelle

E sul mio petto
crollano montagne
sirene allucinanti
fischiano nelle orecchie.

Il corpo sussulta senza speranza
per un po’ d’aria
Immerso nel sudore
Per un po’ d’aria
Per un po’ d’aria
un po’ d’aria soltanto…
suoni e risate
insulti miserabili e vili

Ma perché?
Palpano i coglioni dell’Incatenato
Senza avere fretta…

Mi spiegano cosa faranno
senza avere fretta…
Aprono cassetti
ne estraggono aghi
senza avere fretta…

Qualcuno di loro
(come sempre)
mi… consiglia
(recita la parte da buono)
Ma ormai non lo ascolto neanche
e così cominciano

Mi infilano dentro l’uretra un ago
(sottilissimo, di ferro)
Brividi in tutto il corpo
l’altro estremo dell’ago
ora lo riscaldano…

I lamenti
le risate sommesse
Le risate ascoltate
le loro risate…

Senza voce, stanchi, sudati
incapaci di inventarsi altro
Tutti insieme
mi colpiscono gridando…

Una macchina vicino muggisce
e solo una voce umana
s’ascolta nel tumulto
Una radio
Come impazziti mi percuotono
con le mani e con i piedi
Tutti insieme…

Sui muri e sul pavimento
si proiettano fiori di fuoco
Fiamme di un altro mondo
Ballano ritmi sfrenati
tutto gira
e presto si perde…

Mi ritrovo in un’altra stanza
piccolo il cambiamento
le catene mi fanno ancora compagnia
Le facce sfocate
spine d’odio
si piegano verso di me
Cresce il tono delle loro voci

E nuove facce con quelli
Ma tutte uguali le espressioni
E uguali le uniformi
cos’è che si trova
sul risvolto dell’uniforme
qualche antico simbolo?

Di Ippocrate
Hanno dimenticato il giuramento…
Scene di vita
Ombre nere
scene che ho vissuto
Ma quale ricordare per prima?
La memoria dolore
La solitudine?
Dolore anch’essa
Dolore compagno del dolore
È la nostra vita

(Dicembre 1971)





Edited by Milea - 24/7/2021, 16:41
 
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Alessandro Panagulis

Da Intervista con la storia, 1974



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Atene, settembre 1973
Quel giorno aveva il volto di un Gesù crocifisso dieci volte e sembrava più vecchio dei suoi trentaquattro anni. Sulle sue guance pallide si affondavano già alcune rughe, tra i suoi capelli neri spiccavano già ciuffi bianchi, e i suoi occhi eran due pozze di malinconia. O di rabbia? Anche quando rideva, non credevi al suo ridere. Del resto era un ridere forzato e che durava poco: quanto lo scoppio di una fucilata. Subito le sue labbra tornavano a serrarsi in una smorfia amara e in quella smorfia cercavi invano il ricordo della salute e della gioventù. La salute l’aveva persa, insieme alla gioventù, il momento in cui era stato legato per la prima volta al tavolo delle torture e gli avevano detto: «Ora soffrirai tanto che ti pentirai d’essere nato». Ma capivi subito che non si pentiva d’essere nato: non se n’era mai pentito e non se ne sarebbe mai pentito. Capivi subito che era uno di quegli uomini per cui anche morire diventa una maniera di vivere, tanto spendono bene la vita. Né le sevizie più atroci, né la condanna a morte, né tre notti trascorse in attesa della fucilazione, né il carcere più disumano, cinque anni dentro una cella di cemento di un metro e mezzo per tre, l’avevano piegato. Due giorni prima, uscendo da Boiati con la grazia che Papadopulos aveva concesso insieme all’amnistia per trecento prigionieri politici, non aveva detto una sola parola che gli servisse ad esser lasciato in pace. Anzi aveva dichiarato, sprezzante: «Non l’ho chiesta io, la grazia. Me l’hanno imposta loro. Io son pronto a tornare in prigione anche subito». Infatti chi gli voleva bene temeva per la sua incolumità quanto e più di prima. Fuori del carcere era troppo scomodo pei colonnelli. Le tigri in libertà sono sempre scomode. Alle tigri in libertà si spara. Oppure gli si tende una trappola per richiuderle in gabbia. Quanto a lungo sarebbe rimasto all’aria aperta? Ecco la prima cosa che pensai quel giovedì 23 agosto 1973 vedendo Alessandro Panagulis.

Alessandro Panagulis. Alekos per gli amici e per la polizia. Nato nel 1939 ad Atene da Atena e Basilio Panagulis colonnello dell’esercito e pluridecorato nella guerra dei Balcani, nella prima guerra mondiale, nella guerra contro i turchi in Asia Minore, nella guerra civile fino al 1950. Secondogenito di tre fratelli straordinari, democratici e antifascisti. Fondatore e capo di Resistenza Greca, il movimento che i colonnelli non riuscirono mai a distruggere. Autore dell’attentato che per un pelo, il 13 agosto 1967, non costò la vita a Papadopulos e la fine della Giunta. Per questo lo arrestarono, lo seviziarono, lo condannarono a morte: pena da lui stesso sollecitata in un’apologia che per due ore tenne i giudici col fiato sospeso. «Voi siete i rappresentanti della tirannia e so che mi manderete dinanzi al plotone di esecuzione. Ma so anche che il canto del cigno di ogni vero combattente è l’ultimo singulto dinanzi al plotone di esecuzione.» Quel processo indimenticabile. Non s’era mai visto un accusato trasformarsi in accusatore, così. Giungeva in aula con le mani ammanettate dietro la schiena, i poliziotti gli toglievano le manette e lo serravano in una morsa cieca agguantandolo alle spalle, alle braccia, alla vita, ma lui balzava in piedi lo stesso, con l’indice teso, a gridare il suo sdegno. Non lo giustiziarono per non farne un eroe. E va da sé che lo divenne ugualmente perché morire, a volte, è più facile che vivere come viveva lui. Lo trasportavano da una prigione all’altra dicendo: «Il plotone di esecuzione ti aspetta». Entravano nella sua cella e lo massacravano di botte. E per undici mesi lo tennero ammanettato, giorno e notte, malgrado i polsi gli fossero andati in putrefazione. A periodi, poi, gli impedivano di fumare, di leggere, di avere un foglio e una matita per scrivere le sue poesie. E lui le scriveva lo stesso, su minuscoli fogli di carta velina, usando il suo sangue per inchiostro. «Un fiammifero per penna / sangue gocciolato in terra per inchiostro / l’involto di una garza dimenticata per foglio / Ma cosa scrivo? / Forse ho solo il tempo per il mio indirizzo / Strano, l’inchiostro s’è coagulato / Vi scrivo da un carcere / in Grecia.» Riusciva anche a mandarle fuori dalla prigione, quelle belle poesie scritte col sangue. Il suo primo libro aveva vinto il Premio Viareggio ed era ormai un poeta riconosciuto, tradotto in più di una lingua, e sul quale si scrivevano saggi, analisi concettose da storia della letteratura. Ma più che un poeta era un simbolo. Il simbolo del coraggio, della dignità, dell’amore per la libertà. E tutto questo mi turbava, ora che me lo trovavo dinanzi. Come si saluta un uomo che è appena uscito da una tomba? Come si parla a un simbolo? E mi mordevo le unghie, nervosa: me ne ricordo perfettamente. Me ne ricordo perché di quel giovedì 23 agosto ricordo tutto. Lo sbarco ad Atene. Il timore di non trovarlo sebbene gli avessi fatto annunciare il mio arrivo. La ricerca di via Aristofanos, nel quartiere di Glifada, dov’era la sua casa: il tassista che finalmente scorge la villetta e si mette a gridare facendosi il segno della croce. Il pomeriggio afoso, i miei vestiti appiccicati al corpo. La folla dei visitatori che gremisce il giardino, la terrazza, ogni angolo della villetta. Gli altri giornalisti, le voci, le spinte. E lui che siede nel mezzo del caos con quel volto di Cristo.



Aveva un’aria molto stanca, anzi esausta. Però appena mi vide si alzò, col balzo di un gatto, e corse ad abbracciarmi come se mi conoscesse da sempre. Se non mi conosceva da sempre, del resto, ci conoscevamo già. Nei periodi in cui gli consentivan di leggere qualche giornale, mi avrebbe narrato, gli avevo fatto compagnia coi miei articoli. E lui mi aveva fatto coraggio col semplice fatto di esistere, essere ciò che era. Così la preoccupazione di dover fronteggiare un simbolo anziché un uomo svanì. Restituii l’abbraccio dicendo «ciao», lui replicò «ciao» e non vi furono altre parole di benvenuto o felicitazione. Semplicemente aggiunsi: «Ho ventiquattr’ore per stare ad Atene e preparar l’intervista. Subito dopo devo partire per Bonn. C’è un angolo dove si possa lavorare tranquilli?». Annuì in silenzio e poi, solcando la folla dei visitatori, mi condusse in una stanza dov’eran molte copie di un mio libro in greco. Oltre a quelle c’era un mazzo di rose rosse che mi aveva mandato fino all’aeroporto e che poi erano tornate indietro perché l’amico incaricato di ricevermi non m’aveva trovato. Commossa, ringraziai bruscamente. Ma lui capì il tono brusco perché, per un attimo, la malinconia gli scomparve dagli occhi e le sue pupille ebbero un lampo di divertimento che mi smarrì di nuovo. Era un lampo che ti faceva intuire una selva di tenerezze e furori in contrasto fra loro, un’anima senza pace. Sarei riuscita a capire quell’uomo?

Cominciammo l’intervista. E immediatamente mi colpì la sua voce che era seducentissima, dal timbro fondo, quasi gutturale. Una voce per convincer la gente. Il tono era autorevole, calmo: il tono di chi è molto sicuro di sé e non ammette repliche a ciò che dice in quanto non ha dubbi su ciò che dice. Parlava, ecco, come un leader. Parlando fumava la pipa che praticamente non staccava mai dalla bocca. Così avresti detto che la sua attenzione era concentrata su quella pipa, non su di te, e questo gli conferiva una certa durezza che intimidiva perché non si trattava di una durezza recente, cioè maturata dagli strazi fisici e morali, bensì di una durezza nata con lui: grazie alla quale aveva potuto vincere gli strazi fisici e morali. Allo stesso tempo era premuroso, gentile, e restavi come smarrito quando, con virata improvvisa, sai la virata di un motoscafo che procede dritto e di colpo si gira per tornare indietro, tanta durezza si rompeva in dolcezza: struggente come il sorriso di un bimbo. Il modo in cui ti versava la birra, ad esempio. Il modo in cui ti toccava una mano per ringraziarti di un’osservazione. Ciò gli cambiava i lineamenti del volto che, non più doloroso, diventava indifeso. Di volto non era bello: con quegli occhi piccoli e strani, quella bocca grande e ancora più strana, quel mento corto, infine quelle cicatrici che lo sciupavano tutto. Alle labbra, agli zigomi. Eppure ben presto ti sembrava quasi bello: di una bellezza assurda, paradossale, e indipendente dalla sua anima bella. No, forse non lo avrei mai capito. Decisi da quel primo incontro che l’uomo era un pozzo di contraddizioni, sorprese, egoismi, generosità, illogicità che avrebbero sempre chiuso un mistero. Ma era anche una fonte infinita di possibilità e un personaggio il cui valore andava oltre quello del personaggio politico. Forse la politica rappresentava solo un momento della sua vita, solo una parte del suo talento. Forse, se non lo avessero ammazzato presto, se non lo avessero rimesso in gabbia, un giorno avremmo sentito parlare di lui per chissà quali altre cose.

Quante ore restammo nella stanza coi libri e coi fiori a parlare? È l’unico particolare che non ricordo. Non ti accorgi del tempo che passa se ascolti ciò che narrava lui. La storia delle torture, anzitutto, l’origine delle sue cicatrici. Ne aveva dappertutto, mi disse. Mi mostrò quelle sulle mani, sui polsi, sulle braccia, sui piedi, sul costato.
Qui stavano esattamente dove stanno le ferite di Cristo: all’altezza del cuore. Gliele avevano inflitte alla presenza di Costantino Papadopulos, il fratello di Papadopulos, con un tagliacarte scheggiato. Però me le mostrava con distacco, nessuna autocommiserazione: lo irrigidiva un autocontrollo eccezionale, quasi crudele. Tanto più crudele quando ti accorgevi che i suoi nervi non erano usciti intatti dai cinque anni d’inferno. E questo lo raccontavano i suoi denti quando mordeva la pipa, lo raccontavano i suoi occhi quanto si appannavano in lampi di odio o di muto disprezzo. Pronunciando il nome dei suoi seviziatori, infatti, si isolava in pause impenetrabili e non rispondeva nemmeno a sua madre che entrava chiedendo se volesse ancora una birra o un caffè. Sua madre entrava spesso. Era vecchia, vestita di nero come le vedove che in Grecia non abbandonano il nero, e il suo viso era una ragnatela di rughe profonde come i suoi dolori. Il marito morto di crepacuore mentre Alekos era in prigione. Il figlio maggiore scomparso. Il terzo figlio in prigione. Del resto era stata in prigione anche lei, per quattro mesi e mezzo. Ma nemmeno lei eran riusciti a piegare. Né con le minacce né con i ricatti. In una lettera a un giornale di Londra, una volta aveva scritto dei figli: «Gli alberi muoiono in piedi». Gli alberi erano i suoi figli. Un albero era morto quasi sei anni prima: Giorgio.

Da quasi sei anni nessuno sapeva più nulla di Giorgio, il fratello maggiore che aveva seguito la carriera del padre raggiungendo il grado di capitano. Nell’agosto del 1967 Giorgio aveva rifiutato di restar nell’esercito greco e, come Alekos, aveva disertato. Attraverso il fiume Evros era fuggito in Turchia dove aveva raggiunto Istanbul per cercare asilo presso l’ambasciata italiana. Per nostra vergogna, l’ambasciata italiana gli aveva negato l’asilo: tergiversando sulla necessità di informare il governo turco, poi il governo italiano, poi non si sa chi. Giorgio era fuggito di nuovo, stavolta in Siria, e a Damasco s’era ancora rivolto all’ambasciata italiana che s’era comportata nello stesso modo. Tuttavia un’ambasciata più degna, un’ambasciata scandinava, lo aveva ospitato e qui era rimasto un mese: fino al giorno in cui era uscito per strada e la polizia siriana lo aveva scoperto senza passaporto. Fuggito anche alla polizia siriana, aveva raggiunto il Libano. Dal Libano avrebbe voluto imbarcarsi per l’Italia, ma non lo aveva fatto perché i paesi arabi riconoscevano la Grecia dei colonnelli. Aveva preferito entrare in Israele, paese che con la Grecia dei colonnelli non aveva rapporti diplomatici, per recarsi in Italia imbarcandosi a Haifa. E a Haifa, invece, gli israeliani lo avevano arrestato. Giorgio s’era fidato di loro, aveva detto chi era, e loro lo avevano arrestato: per consegnarlo al governo greco. Non gli avevano dedicato nemmeno un processo. Semplicemente, lo avevano caricato su una nave greca che faceva la spola tra Haifa e il Pireo: l’Anna Maria. E a questo punto si perdevano le sue tracce. Sembra che Giorgio fosse ancora nella cabina prima che la nave entrasse nel tratto di mare compreso tra Egira e il Pireo. Ma, quando la nave s’era avvicinata al porto, la cabina era vuota. Fuggito saltando giù dall’oblò? Scaraventato da qualcuno fuori dall’oblò? Il suo corpo non sarebbe stato mai ritrovato. Ogni tanto il mare restituiva un cadavere, le autorità convocavano Atena per vedere se lo riconoscesse, e Atena rispondeva: «No, non è mio figlio Giorgio».



A una certa ora della notte interrompemmo l’intervista. La folla dei visitatori s’era dispersa e Atena m’aveva offerto ospitalità per la notte. Aveva preparato anche il pranzo, sulla tovaglia migliore. Alekos appariva meno teso, meno solenne, e presto schiuse una porta delle sue infinite sorprese: lasciandosi andare a una conversazione scherzosa. Definiva la sua cella, ad esempio, “la mia villa di Boiati”, e la descriveva come una villa lussuosissima, con piscine aperte e scoperte, campi da golf, cinema privati, scintillanti saloni, uno chef che comprava il caviale fresco in Iran, le odalische che danzavano e lucidavano le manette. In un tal paradiso, una volta, aveva fatto lo sciopero della fame “perché il caviale non era fresco e non era grigio”. E poi, con lo stesso tono, illustrava la sua “arcinota amicizia” con Onassis, Niarcos, Rockefeller, Henry Kissinger, o descriveva i “suoi jet personali”, lo yacht che il giorno avanti aveva “prestato ad Anna d’Inghilterra”. Ed io non credevo ai miei occhi, ai miei orecchi. Possibile che nella tomba di cemento egli fosse riuscito a salvare il suo humour, la capacità di ridere? Possibile, anzi indiscutibile. Però, quando dopocena riprendemmo a parlare per l’intervista, Alekos tornò ad essere serio ed a mordere nervosamente la pipa.

Parlammo, stavolta, fino alle tre del mattino e, alle tre e mezzo, caddi esausta sul letto che m’avevano preparato nel soggiorno. Sopra il letto c’era la fotografia di Basilio, nella sua uniforme di colonnello, e la cornice grondava medaglie d’oro, d’argento, di bronzo: testimonianza delle varie campagne combattute fino al 1950. Accanto al letto, invece, una fotografia di Alekos quando era studente di ingegneria al Politecnico e membro del Comitato centrale della Federazione giovanile del partito «Unione di Centro». Un visino intelligentissimo e arguto, a quel tempo privo di baffi, che non mi aiutava a penetrare un mistero. Allora ricordai d’aver visto, nella stanza accanto, le fotografie dei due fratelli bambini. Mi alzai e le studiai. Quella di Giorgio raccontava un bambino elegante e compunto, educatamente seduto su un velluto rosso. Quella di Alekos invece mostrava un tigrotto dal cipiglio arrabbiato e che, ritto sul velluto rosso, in un annuncio di indipendenze anarchiche, sembrava dire: “No e poi no! Seduto su quel coso io non ci sto!”. Il costumino di maglia pendeva sbrindellato a dimostrare che del suo aspetto esteriore lui se ne fregava dunque era inutile che la mamma lo rimproverasse, lo pregasse, lui faceva lo stesso ciò che voleva. E, quasi a dimostrare ogni rifiuto ai consigli, agli ordini, agli interventi altrui, la manina destra si appoggiava, con orgoglio e provocazione, sul fianco; la sinistra reggeva i pantaloncini nel punto in cui un bottone era schizzato via.

Quanto rimasi a studiare quelle fotografie? Questo, davvero non lo ricordo. Però ricordo che a un certo punto la mia attenzione fu attratta da un’altra cosa: un oggetto rettangolare e coperto di polvere. E lo presi in mano con la sensazione di penetrare un segreto, e scoprii che era una Bibbia del seicento, con un documento che ne attribuiva la proprietà ad Alekos Panagulis. Ma era un documento vecchio di trecent’anni e questo Alekos era un bisnonno che aveva combattuto come guerrigliero contro i turchi. Avrei saputo più tardi che, dal 1600 al 1825, la famiglia Panagulis non aveva fornito che eroi. Alcuni si chiamavano Jorgos, cioè Giorgio, come il giovane Jorgos che era morto nella battaglia di Faliero nel 1823. Ma la maggior parte di essi si chiamava Alekos.
L’indomani partii per Bonn. E va da sé che non fu una partenza definitiva. Accompagnandomi all’aeroporto, Alekos m’aveva fatto promettere che sarei tornata e, pochi giorni dopo, quando lui era ricoverato all’ospedale, tornai: scoprendo cose che aiutavano un poco a diradare i segreti della sua inafferrabile personalità. La lunga poesia, anzitutto, che m’avrebbe dedicato. Si intitolava Viaggio e narrava di una nave partita per un viaggio senza soste, una nave che non cedeva mai alla tentazione o al bisogno di attraccare in un porto, di avvicinarsi a una riva, di gettare l’àncora insomma. La ciurma lo reclamava, a volte lo implorava, ma il comandante le resisteva come alla tempesta: continuando a inseguire una luce. La nave era lui, Alekos. Ed anche il comandante era lui, anche la ciurma. Il viaggio era la sua vita. Un viaggio che si sarebbe concluso soltanto con la morte perché l’àncora non sarebbe mai stata gettata. Né l’àncora degli affetti, né l’àncora dei desideri, né l’àncora di un meritato riposo. E nessun ragionamento, nessuna lusinga, nessuna minaccia avrebbe potuto indurlo al contrario. Così, se credevi a quella nave, se tenevi a quella nave, non dovevi cercar di trattenerla, fermarla col miraggio di sponde verdi, paradisi terrestri. Dovevi lasciarla andare per il pazzo viaggio che s’era scelto e che, nella selva delle sue contraddizioni, era il punto fermo di una coerenza assoluta.

panagulis

«Anche Ulisse alla fine si riposa. Raggiunge Itaca e si riposa» osservai dopo avere letto la poesia. E lui mi rispose: «Povero Ulisse». Poi mi porse un’altra poesia che incominciava così: «Quando sbarcasti a Itaca / quale infelicità avrai provato, Ulisse / Se altra vita avevi dinanzi / perché arrivare tanto presto?». Credo di essergli diventata veramente amica quel giorno, ascoltandolo all’ospedale. Infatti mi recai altre volte ad Atene e pazienza se, ogni volta, le autorità greche erano meno contente. Pur non osando negarmi il permesso di entrata, la polizia di frontiera riempiva per me fogli che non riempiva mai per nessuno e, durante il mio soggiorno ad Atene, si occupavano scrupolosamente della mia persona. Cosa non difficile, visto che abitavo nella casa di via Aristofanos dove il telefono era controllato e dove quattro poliziotti in uniforme, chissà quanti altri in borghese, sorvegliavano ogni porta, ogni finestra, la stessa strada, ventiquattro ore su ventiquattro.

Psicologicamente, era come se Alekos fosse ancora in prigione ed io ci fossi entrata con lui. Una volta mi accompagnò a Creta, per cinque giorni. E per cinque giorni fummo costantemente seguiti, spiati, provocati. Ad Heraclion, dov’eravamo andati per visitare Cnosso, le automobili della polizia ci tamponavano a mezzo metro di distanza. Entravamo in un ristorante a mangiare e loro si piazzavano lì, ad aspettarci. Entravamo in un museo e loro si piazzavano lì, ad aspettarci. Spesso, poi, ce le vedevamo venire incontro dalla direzione opposta perché eran forniti di radio e si davano il cambio. Un incubo. All’aeroporto di Xania venni insultata da un agente in borghese. Sull’aereo che ci riportava ad Atene fummo relegati negli ultimi due sedili e tenuti sotto controllo per l’intero viaggio. Di nuovo ad Atene, non potevamo permetterci il piacere di una cena al Pireo senza che un poliziotto ci raggiungesse, ben presto, per starci alle calcagna. Ci tormentarono perfino ai funerali di un ministro democratico morto per infarto cardiaco e, inutile dirlo, Papadopulos non mi concesse mai l’intervista che secondo l’ambasciata greca di Roma sembrava disposto a darmi. Peccato. Sarebbe stato divertente chiedere al signor Papadopulos cosa intendeva per democrazia. Ed anche per amnistia. Sarebbe stato ancor più divertente narrargli che, ovunque andasse, Alekos era accolto come un eroe nazionale. La gente lo fermava per strada abbracciandolo e magari tentando di baciargli la mano. I tassisti lo facevan salire anche nei punti proibiti. Gli automobilisti fermavano il traffico per salutarlo. E non di rado, nei bar, non volevano che pagasse il conto. Insomma erano tutti per lui e con lui, solo chi era al servizio dei colonnelli era contro di lui.

Ed io seguivo lo straordinario fenomeno comprendendo finalmente un poco la difficile creatura che ne era oggetto. Intuendone meglio, ad esempio, i disgusti e le infelicità, la sete di una pace che non sarebbe mai giunta e che si manifestava attraverso esplosioni di collera disperata e disperante, o inutili audacie, o telefonate rabbiose all’uomo forte del regime, Joannidis, per sfidarlo ad arrestarlo di nuovo. Oppure seguendone le astuzie da Ulisse, le fulminanti intuizioni da Ulisse cui assomigliava sempre di più in ogni senso. E le lacrime che gli riempivano gli occhi quando guardava l’Acropoli, simbolo per lui di tutto ciò in cui credeva. E i suoi silenzi cupi. E gli slanci di allegria che lo scuotevano tutto in una gioventù ritrovata per qualche ora, per qualche minuto. E le improvvise risate di fanciullo, gli imprevedibili scherzi subito cancellati da quei suoi voltafaccia d’umore. E il pudore esagerato, anzi puritano, che opponeva alle donne quando gli si offrivano con biglietti amorosi, inviti aperti, strattagemmi volpini. Del resto, sia delle sue avventure passate come dei suoi sentimenti presenti non confidava mai nulla a nessuno: “Un uomo serio non lo fa”. Timido, testardo, orgoglioso, era mille persone dentro una persona sola che non potevi mai rinunciare ad assolvere. Che gioia udirlo dire, a proposito del suo attentato: «Io non volevo uccidere un uomo. Io non sono capace di uccidere un uomo. Io volevo uccidere un tiranno».

Nel frattempo, egli aveva chiesto il passaporto. Ma nemmeno ottenere i documenti necessari alla richiesta gli era stato facile. A qualsiasi ufficio si rivolgesse trovava ostacoli sordi, kafkiani. Presso il comune di Glifada, ad esempio, non risultava che fosse nato. Improvvisamente il suo nome mancava dai registri. C’era il nome di Atena e il suo no. Lui ne rideva, con malcelata amarezza: «Non sono nato, vedi. Non sono mai nato». Ma una mattina tornò saltando di gioia e: «Sono nato! Sono nato!». Chissà perché avevan cambiato idea. Sette giorni dopo, era un lunedì, gli dettero il passaporto: valido per un solo viaggio di andata e ritorno. E tre ore più tardi partimmo, su un aereo dell’Alitalia, diretti a Roma. Ma nemmeno la partenza fu una partenza civile. Superata la dogana, la polizia di frontiera, la perquisizione, scendemmo nella sala d’attesa e immediatamente una nuvola di poliziotti in borghese ci circondò: provocatoria. Poi il volo venne chiamato e raggiungemmo la porta numero due. Porgemmo le nostre carte d’imbarco. Ci spinsero indietro. «Perché?» chiese Alekos. Silenzio. «Abbiamo un passaporto regolare e una carta di imbarco regolare. E abbiamo completato tutte le formalità.» Silenzio. Tutti gli altri passeggeri eran passati, saliti sull’autobus, scesi dall’autobus, entrati a bordo dell’aereo. L’aereo non aspettava che noi. E noi non potevamo avvicinarci nemmeno alla scaletta.

Quel che è peggio, non ci veniva data alcuna spiegazione, né veniva data agli impiegati dell’Alitalia che ci scortavano come VIP. Dieci minuti, quindici, venti, venticinque, trenta... Non ho ancora capito perché, trascorsi trenta minuti, ci permisero di andare a bordo. Forse avevano telefonato al capo della Pubblica Sicurezza. Forse costui aveva informato Papadopulos e Papadopulos aveva deciso che non conveniva, anche internazionalmente, commetter l’errore di impedirgli la partenza all’ultimo momento. Ma non ho capito un’altra cosa: non ho capito perché, chiusi gli sportelli, l’aereo fu bloccato per altri quaranta minuti lì sulla pista. Non c’erano problemi con la torre di controllo quel giorno. C’era soltanto un grande imbarazzo a bordo. Un imbarazzo che sparì, tuttavia, quando fummo in cielo. Il cielo più azzurro del mondo.
Fonte




VIAGGIO

alla mia amata Oriana Fallaci

Viaggio per inesplorate acque su una nave
che, come milioni di altre simili, peregrina
per oceani e mari
su rotte regolari
E altre ancora
(molte, davvero molte anche queste)
gettano l’ancora nei porti.

Per anni ho caricato questa nave
Con tutto quello che mi davano
e che prendevo con enorme gioia
E poi
(lo ricordo come fosse oggi)
la dipingevo a tinte sgargianti
e stavo attento
che non si macchiasse in nessun punto
La volevo bella per il mio viaggio
E dopo avere atteso tanto –proprio tanto
Giunse alla fine il momento di salpare
E salpai…

(Nave io e capitano
ed equipaggio per trovarti
fammi a pezzi
ma non farmi sanguinare il corpo)

Quando mi trovai in mare aperto
onde immense mi travolsero
e mi straziarono per rivelarmi
amare verità che ignoravo
Verità che dovevo imparare
Nell’abbraccio dell’oceano
con un lungo furente fragore
la solitudine
divenne per me faro del pensiero
indicando strade nuove

Il tempo passava e io
iniziavo a tracciare la rotta
ma non come mi avevano insegnato al porto
(anche se la mia nave mi sembrava diversa allora)
Così il mio viaggio
ora lo vedevo diverso
senza più pensare a porti e commerci
Il carico mi appariva ormai superfluo
Ma continuavo a viaggiare
conoscendo il valore della nave
conoscendo il valore della merce

E continuo ancora il viaggio
che scricchiolino incessantemente le giunzioni
sperando che non si spezzino
perché sono legni marci da anni
(secoli dovrei dire)
verniciati di recente ma senza
una forza nuova che li tenga uniti
la rotta sempre contro il tempo
nella stiva solo zavorra
Zavorra che mi dissero
merce preziosa, come quella
che di solito si compra nei porti
Ma se dicessi che mi hanno ingannato
non sarei onesto
osservo la bussola
senza sosta
con accanto la mappa
su cui studio la rotta
lontano dai porti che segnalano il passaggio
Quando poi succede che splendano
(che istanti difficili!)
all’orizzonte i porti della terra
l’equipaggio guarda le luci
(luci sirene
che promettono molto
che anche il cuore e la carne pretendono)
sempre aspettando che dica
al timoniere di far virare la nave
E attraccare almeno un poco
Mentre l’ora trascorre e io
osservo silenzioso la carta
tutt’intorno cresce il tumulto
Proposte subdole
vestite con idee
idee vendute che vogliono sempre
Adornare l’inazione con le parole
e minacce
che vogliono passare per consigli
e promesse
che tentano la bestia e la risvegliano…
Quelle sono ore difficili
Perché da ognuna di loro
Dipende l’intero viaggio
E continuo ancora il viaggio
Desideri radicati nell’anima
sono diventati bussola per la mia nave
la mia mappa
altrettanto misteriosa
Ci sono ore in cui credo
che sia stata fatta
per chi non voglia approdare in nessun porto
e altre ore in cui confido
che il viaggio avvenga perché
su questa carta bisogna trovare
qualche cosa che manca
Così vado alla ricerca
guardando la mappa la bussola il cielo
in cielo, rintracciare segnali
nuove prove che dimostrino
che la bussola non sbaglia nel segnare
Non stupirti, questo non significa
che io abbia dei dubbi sulla mia bussola
E’ solo un’abitudine- una vecchia abitudine
che per secoli accompagnava l’anima
questa compagna
preziosa per i tempi bui
quando c’erano soltanto i semi nell’anima
degli amori che ora sono fioriti

E vado alla ricerca
Guardando la mappa la bussola il cielo
Le onde immense sembra che cerchino
di fare il gioco di chi vuole
che attracchi da qualche parte per un po’
E’ ognuna
di quelle onde un Golgota
e pensa
che la tempesta imperversa ininterrotta
Ma mentre aumenta
temo sempre più
che la spaventosa furia del mare
mi conduca ad avvistare
porti là sulla costa
porti che la mia mappa non indica
Sono ostacoli e momenti difficili
l’abbiamo detto
l’equipaggio comincerà a ribollire
quando quei porti appariranno sulla costa

E continuo il viaggio
alla ricerca ancora
pur sapendo di essere
nell’infinito del tempo un istante
nell’abisso dello spazio un puntino

E continuo il viaggio
anche se sono tenebra
e tutto attorno a me è tenebra
e la tempesta lo rende più spaventoso

E continuo il viaggio
e mi basta
che io tenebra
abbia amato la luce.

(Dicembre 1971)



Edited by Milea - 24/7/2021, 16:48
 
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IL TUO DESTINO

In ogni ieri
l’insegnamento
grido d’esortazione

In ogni domani
la visione
sempre piena di promesse

Oggi
in ogni oggi
la lotta

Così sei andato avanti
Così andrai avanti
Questo è il tuo destino



RICORDA

Cella che i tuoi muri
Sono scritti con le scritte della Lotta
a quanti verranno dopo di me
ricorda
tutti gli istanti che ho vissuto qui dentro

Se i miei pugni adesso non piegano le sbarre
e se il sangue che gocciola è il mio sangue
Non è questo che mi fa vergognare
Non hanno sangue le sbarre
Diglielo tu
Le sbarre erano dure
deboli i miei pugni

E per i giorni che mi hai visto soffrire la fame
Tanti giorni
E per i miei occhi che hai visto piangere
e le mani contratte

E per quanto ho lottato contro la morte
(ospite così subdola nella mia cella)
E per le ore di solitudine infinita
E i giorni gelati dell’Inverno

E per gli scatti d’Ira
e soprusi e il dolore
E per i tanti sforzi
e i bruciori incessanti della febbre

E per il mio disprezzo
Che così evidente dimostro ai tiranni
Ricorda
Non c’è istante che voglio che si dimentichi
E non c’è un istante che mi vergogni

(Giugno 1971)


panagoulisontrial



LA TINTA

Ho dato voce ai muri
gli ho dato voci
perché mi facciano un po’ di compagnia
I secondini cercano e ricercano
dove ho trovato la tinta

I muri della cella
tengono il segreto
i mercenari frugano e rifrugano
E lo stesso non trovano la tinta

Non gli è venuto in mente
di frugarmi le vene

(Giugno 1971)



ANDIAMO AVANTI

Vestiti di ferite
-vecchie e nuove-
e caricati con le ferite dei morti
andiamo avanti

Invece di trombe
lamenti di dolore
invece di armi
ossa di amici uccisi

Nel sangue che battezza le bandiere
-simboli della lotta-
e sventolano al vento dell’ira
Nere ali di falchi neri
nascondono il sole

Indecifrabili grida
minacce e minacce nell’oscurità
E noi colpiamo l’oscurità
-ossa di amici le nostre armi-
e alle minacce
rispondono le ferite
sputando sangue
e andiamo avanti…

(1971)



GLI INGRANAGGI

Che tristezza per coloro che accettarono
Di essere gli ingranaggi di una macchina
Credendo che fosse la loro voce
I monotoni rumori della macchina
Che orrore quando vedo
mani senza testa muovere la macchina
con movimenti ritmici, gli stessi,
che una voce di altri comanda
Che inaudito schifo
osservare occhi e bocca
di chi per conto di altri parla e guarda
anche loro ingranaggi della macchina
Che odio infinito
per chi uccide con mani altrui
quando con carne costruisce ingranaggi
scavando una fossa per la vita
Che amore, culto, ammirazione
verso coloro che si battono sempre
perché scoprano voce gli ingranaggi
e nella vita trovino uno scopo

(Luglio 1971)







Edited by Milea - 4/6/2015, 23:07
 
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Tempo di collera

Voi, tombe che camminano
insulti viventi della vita
asassini del vostro pensiero
fantocci in forme umane

Voi che avete invidia delle bestie
che offendete l’idea del creato
che chiedete rifugio all’ignoranza
che accettate per guida la paura

Voi che avete dimenticato il passato
che vedete il presente con occhi appannati
che non avete interesse per il futuro
che respirate solo per morire

Voi che avete mani solo per applaudire
e che domani applaudirete
con più forza di tutti come sempre
e come ieri e come oggi

Sappiate allora voi
scuse viventi di ogni tirannia
che i tiranni li odio tanto
tanto quanto ho schifo di voi

Alexandros Panagulis




 
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GREGGE

Sempre senza pensare
Senza una propria opinione
una volta gridando osanna
e l’altra al contrario
con foga crocifiggeteLo ora

(Dicembre 1971)



ANNAFFIALO

Non piangere per me
sappi che muoio
non puoi aiutarmi
Ma guarda quel fiore
quello che appassisce, ti dico
Annaffialo

(Settembre 1971)



COSTRUISCO

Istante non resta per riflettere
Giorno e notte
costruisco la Risurrezione
Costruisco abbattendo

(Ottobre 1969- scritta nei giorni in cui scavavo con un cucchiaio il muro della mia cella)



TRISTICO

Non dimenticare le pietre focaie
e ricorda sempre le fiaccole
Forse un giorno si spegneranno le luci

(1971)



VERRA’ IL TEMPO

Voci soffocate
occhi torbidi
pugni chiusi
Niente luce

Lampi da qualche parte
dentro i cuori
ma di luce non ne esce
tuoni singhiozzi

Fuoco si accenderà
verrà il tempo
da carne e sangue
nasce la luce.

(Agosto 1971)



LUCE IN NESSUN POSTO

Vuoto
Il terrore incerto vi si lancia
Silenzio per un poco
Grida lo affogano
Luce in nessun posto

(Aprile 1971)


alekos


SCINTILLE

Ogni scintilla
promessa di fuoco
E ci sono migliaia di scintille
Qualcuna di queste
accenderà il fuoco.

(Giugno 1973)



GLI SPETTATORI

Sacrifici vestiti
con begli inni
ignoranza nascosta
in tante conoscenze
bugie che amarono tutti gli uomini
Opera che fu recitata
da secoli e ora
le stesse parole
le stesse figure
e sono comparse
gli spettatori
Grano e olio e vino
luce e incensi
vesti d’oro e preghiere
Chiese e altari e simboli
e come comparse sempre
gli spettatori

(Natale 1971)



IL PROGRESSO

C’erano schiavi un tempo
Oggetti di carne
Animali con due piedi
che nascevano e morivano
servendo bestie con due piedi

c’erano schiavi un tempo
che in vita
li teneva la speranza
della Libertà
Anni e anni sono passati
e adesso
quegli schiavi non esistono più
Ma è nato
un nuovo genere di schiavi
Schiavi pagati
Schiavi saziati
Schiavi che ridono
Schiavi che vogliono
Rimanere schiavi
Questo è il Progresso!

(1972)



AVANTI I MORTI

Dedicata agli studenti e agli operai morti
Nella prima battaglia di Atene
Avanti i morti
Portabandiera senza fine della Lotta
e dopo di noi
Ansiosi di innalzare gli stendardi

Un intero popolo
Morti e vivi insieme
e un solo scopo
lo stesso sempre
che nebbia ai tempi oscuri
ci accese il primo fuoco
per entrare nel sentiero della Storia.

(Luglio 1971)



TUTTO E’ MORTO

Tutto è morto
e ciò che vedi agitarsi
non lo credere vivo
il vento trascina l’immondizia
la fa muovere
ma soltanto muovere
non vivere
Tutto quello che vedi agitarsi
è morto
Sono cose morte
morte e ancora soffrono…


IL MIO INDIRIZZO

Un fiammifero come penna
sangue colato sul pavimento come inchiostro
l’involucro dimenticato di una benda come pagina bianca
Ma cosa scrivo?
Forse ho solo tempo per il mio Indirizzo
Strano, l’inchiostro si è rappreso
Vi scrivo da in carcere
in Grecia.

(Giugno 1971)



QUARTINE D’AUTUNNO

E’ diventata dura la vita
non si riesce a trovare
neanche un Cristo
chi crocifiggeremo?

Alekos


SORPRESE

Ho guadagnato una vita
un biglietto per la morte
e viaggio ancora.

In certi momenti
ho creduto d’essere giunto
alla fine del viaggio.

Mi sbagliavo.
Erano solo imprevisti
del cammino


“Sembra una poesia” dissi.“Lo è. Una vecchia poesia scritta a Boiati due anni fa, quando scadde il termine per fucilarmi. Tre anni durava quel termine.” “ Ma è una poesia triste!” “Ogni proroga è triste quando sai che è una proroga.” “

(Oriana Fallaci- Un uomo)


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Delirio



Quando ravvivi nel pensiero i morti
non scordare che vissero anche loro
pieni di sogni e di speranze
proprio come i vivi ora

Dalla stessa strada che percorri essi passarono
e andando non pensavano alla tomba
Erano pochi come oggi a meditarla
I più credevano loro scopo la vita
nè mai riuscirono a pensare
che solo il passato è esistenza

Dissiparono il tempo in cui comparvero
vili e incapaci di trovare Dio
e credettero in idoli già eretti
da quanti erano vissuti prima

Quanti avevano creduto di trovare Dio
vestito in forme umane
perchè abbagliati dalla luce
dei pochi che volevano
trovare il balsamo della conoscenza

Quei pochi essi li credettero dei
ma non seppero avvertire
il dono che lasciavano alla vita

E quei pochi passarono e gli altri
sotto mentite spoglie li ricordano

Esistono quei pochi
e gli altri non lo sanno

I Pochi vengono ma
non li aspetta nessuno


E tu se vuoi trovarti tra quei Pochi
sappi
che diverrai compagno del deserto
che da solo parlerai piangerai ti arrabbierai
Più tardi
soltanto piangerai ti arrabbiera
Più tardi ancora
penserai solamente e piangerai

Quando sarai laggiù
sappi che dopo
troverai la verità o la follia

Forse sono due cose uguali
ma tu spera.


Febbraio 1971






 
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