| Intervista ad ASSANGE: "CABLE SU ITALIA E PREMIER"
BUNGAY - Davanti al camino con Julian Assange per due ore. Una lunga chiacchierata nella casa di campagna del suo amico giornalista Vaughan Smith. A Ellingham, Bungay, 230 km a est di Londra, nella campagna inglese, è agli arresti domiciliari in vista del processo che domani deciderà sulla richiesta di estradizione da parte della Svezia sulla base di un’accusa per stupro. È la prima volta che incontra giornalisti italiani, con noi Francesco Piccinini di Agoravox (qui l'intervista). Assange ci perquisisce personalmente. Poi accende il fuoco e si siede in poltrona. Indossa un completo blu e una camicia bianca. Scapigliato e pallido come sempre. Magrissimo.
Da quale parte dell'Australia viene? «Da molti posti. I miei genitori lavoravano nel teatro, quindi ho vissuto ovunque, come un nomade, da Darwin fino a Merlbourne».
Preoccupato per il processo? «No. Qualsiasi sarà la sentenza, faremo appello sia noi sia l'accusa. Quindi ricomincerà tutto daccapo».
La lasceranno stare qua? «Dipende. Se perdiamo resterò in Inghilterra. Ma in prigione».
Meglio Ellingham Hall... «In realtà penso che al massimo andrò in carcere per qualche giorno, poi mi daranno gli arresti domiciliari. Del resto, non sono mica pericoloso».
Come ti trovi qui a Beccles? «Un posto molto tranquillo. Sono persone molto accoglienti, anche se sono responsabile dell’aumento della "criminalità" in questo luogo».
Wikileaks andrà avanti anche senza Assange? «Il problema è economico. Ci sono state bloccate le donazioni, avremmo potuto usare questa popolarità per finanziarci e migliorarci. Ci hanno bloccato i conti».
Una banca può arrivare fino a questo? «Sì, sono molto potenti. Tracciano tutte le operazioni delle persone. Visa, Bankamericard, registrano tutto ciò che facciamo ed è la ragione per la quale in Russia hanno la loro carta di credito interna nazionale. Non vogliono che gli Stati Uniti, attraverso i database delle carte di credito, possano monitorare i cittadini. Le banche inoltre monitorano chi fa commercio con chi».
I prossimi cable che pubblicherete riguarderanno l'universo bancario? «Sì, ma non posso dire di più, potrei essere denunciato per insider trading».
Berlusconi? «Non mi piace, ma agli italiani sì. Il problema Berlusconi non è tanto il suo potere politico ed economico, ma come l'ha usato per fare i propri interessi, corrompendo il sistema».
Cosa pensa del sistema dell'informazione italiana? «Da voi i grandi giornali non parlano delle storie di corruzione, soprattutto se riguardano le grandi compagnie. Nei cables sono uscite e usciranno molte cose che non useranno. Anche di interazioni delle grandi compagnie pubbliche con alcuni paesi stranieri. I giornali italiani si occupano solo di persone che sono già in carcere o sotto processo, ma non si occuperebbero mai di persone che non sono mai state indagate, anche se citate nei cable».
Secondo il ministro degli Esteri italiano lei è un terrorista che vorrebbe distruggere il mondo. «Il vostro ministro degli esteri? E come si chiama?».
Franco Frattini. «Mai sentito, non lo conosco».
Ci sono altri cable interessanti, per esempio sul rapporto tra Italia e Russia? «Ci sono riguardo i rapporti tra le compagnie petrolifere e gli Stati. Per esempio la British Petrolium fa affari con l'Iran. Questa è la grande ipocrisia: gli Stati si lamentano dell'Iran e poi ci fanno affari».
Avete chiesto finanziamenti a enti o fondazioni? "Sì, abbiamo bussato a varie porte. Ma le fondazioni non vogliono finanziare progetti che possono portare problemi. E questo è l’antitesi di quello che dovrebbe essere il lavoro di una fondazione».
Oltre le fondazioni, quali sono secondo lei gli altri problemi che crea questo sistema di tipo lobbistico? «I finanziamenti alla ricerca scientifica. Prendiamo l’esempio della malaria. Ogni giorno ci sono circa 15mila morti. Ogni giorno. Questo si potrebbe risolvere perché esiste una possibilità di modificare geneticamente la zanzara portatrice della malaria in modo che non trasporti il virus».
Perché non si fa nulla? «Dicono che il rischio è troppo alto, che ci possano essere delle modificazioni genetiche. Ma io credo che si possa fare almeno un periodo di test, si potrebbero salvare 15mila persone al giorno, la maggior parte bambini. E poi perché non sono vite importanti: a chi cerca di salvarle non viene dato sostegno».
Perché ha iniziato il progetto Wikileaks? «La mia storia viene da lontano. Non è che un giorno mi sono svegliato e ho fatto Wikileaks. Avevo iniziato in Australia una pubblicazione online contro Scientology. Ho scritto vari programmi di elaborazione di immagini, e ho iniziato a interessarmi alla matematica e alla fisica meccanica: per capire le tecnologie bisogna essere capaci di guardare in molte direzioni».
Quindi è stato anche hacker. «Per un periodo, in Australia, con uno pseudonimo che neanche ricordo più».
Poi ha deciso di dedicarsi alla diffusione delle informazioni. «Ho iniziato perché troppo spesso i giornalisti hanno rinunciato al loro ruolo di guidare il dibattito pubblico, sollevare delle tematiche, diventando semplicemente delle persone che lo seguono, piuttosto che guidarlo».
È vero che teme Israele? «Sì, mi sembra ovvio perché».
Non è ovvio. «All'inizio non avevamo tanti file su Israele (presupponendo che altri file siano arrivati dopo l'inizio della pubblicazione dei cable, ndr) e avevamo paura di attacchi che venivano dall'Est Coast degli Usa (il grande bacino del Giudaismo americano, ndr). Se fossimo partiti subito con cable su Paesi più caldi sarebbe stato più facile affondarci. Quello che temevamo di più è che durante il primo periodo potesse accadere qualcosa di brutto a qualcuno di noi o alle nostre fonti. Fortunatamente non è successo. Anche se abbiamo ancora questo timore».
La spaventano di più gli Stati Uniti o Israele? «È la combinazione di questi due a spaventarci. Anche perché c'è stata una convergenza dei loro interessi sulla guerra in Iraq, sulla vendita di armi, e Bush ha supportato le posizioni di Israele assieme a tutti i suoi amici petrolieri, facendo guadagnare loro più soldi».
Poi perché ha deciso di dedicarsi alla diffusione delle informazioni? «Ho iniziato anche perché troppo spesso i giornalisti hanno rinunciato al loro ruolo di guidare il dibattito pubblico, sollevare delle tematiche, diventando semplicemente delle persone che lo seguono, piuttosto che guidarlo. Quello che abbiamo fatto noi e di Wikileaks invece è probabilmente una cosa che nessun altro avrebbe mai fatto. I giornalisti non capiscono il potere che poche persone hanno, il poter guidare un dibattito».
Insomma ce l'ha con i giornalisti. «Non tutti, ce ne sono molti in gamba, ma raramente occupano posti di comando. Altri sono proprio disgustosi. Prendi per esempio di Bill Keller del New York Times. Ha scritto un articolo su di me dicendo che quando mi ha incontrato avevo la maglietta sporca, le scarpe da ginnastica, che ero una persona trasandata, che puzzavo. Era il momento in cui ero ricercato, scappavo da un posto all’altro, non dormivo da giorni. Ha raccontato solo questo te di tutto quello che gli ho raccontato. Stessa ha fatto Eric Smith, sempre del New York Times. Tutto questo è indegno, hanno voluto solo screditarmi.
Perché giornalisti del più grande giornale del mondo dovrebbero comportarsi così? «Lo fanno per giustificarsi agli occhi di Washinghton, quasi per riparare al fatto che il New York Times ha collaborato con Wikileaks. E' come se volessero dire alla Casa Bianca: non ci stiamo esponendo contro di voi, ma stiamo lavorando per voi».
Ma allora perché lei si è rivolto a loro? «Avevamo bisogno di un giornale americano perché le nostre fonti (usa il plurale, ndr) erano americane, per un aspetto legale. Avendo un giornale americano, avremmo potuto tutelarle. Nel caso fossero state incriminate, avrebbero avuto un editore che le tutelasse in tribunale».
Quindi avete proposto a loro i cable per primi? «Sì. All'inizio hanno accettato ma poi incredibilmente hanno detto no. Hanno detto: pubblicate voi prima. Come diavolo è possibile, il New York Times rinuncia alla più grossa serie di scoop per farli pubblicare a un piccolo sito Internet? E' successo qualcosa di paradossale che ha capovolto i loro istinti di concorrenza, perché avevano talmente tanta paura del governo Usa che se noi non avessimo pubblicato, loro non avrebbero mai dato alle stampe nulla».
Come fa a dire una cosa del genere? «Abbiamo saputo che appena abbiamo consegnato loro l'intero archivio dei cable, hanno incontrato la Cia e l'Nsa e hanno detto loro: questo è quanto ci hanno dato».
Qual è la storia più scioccante pubblicata da Wikileaks secono lei? «Quella sull'Unità militare 373, che operava in Afghanistan, dove ha ucciso circa 2mila persone messe su una lista. Un'unità talmente potente che addirittura quando il fratello di Karzai è uscito dal seminato (fa riferimento al cable che parla di un coinvolgimento del fratello di Karzai in traffici di droga ndr), il generale Usa ha detto: Sbaglia ancora e ti metto sulla lista. Il governo afghano si è lamentato di questa cosa perché anche se sei uno spacciatore, anche se aiuti i talebani, certamente non possono esistere operazioni, come quella dell'Unit 373, che vanno al di fuori della legge. Quando abbiamo raccontato questa storia a Keller e Smith non hanno voluto pubblicarla. L'informazione non fa il proprio dovere».
In che rapporto siete col Guardian? «Problematico. Quando tu dai le informazioni al Guardian, a chi le stai dando? Alla redazione o alla The Guardian Corporation, che è collegata a tutta una serie di interessi economici? E qui non voglio dire che tutti quelli che lavorano là siano cattive persone o cattivi giornalisti, ci sono anche buone persone, allora d'ora in poi preferiamo parlare direttamente con queste buone persone».
Perché avete deciso di dare le informazioni a cinque giornali (Nyt, Der Spiegel, Le Monde, The Guardian, El Pais)? «Perché se un giornale non la dà, come successo, ce ne può essere un altro che ne fa una storia di copertina».
Siete soddisfatti di questa sinergia con i giornali che avete scelto come partner? «Assolutamente no. Cambieremo strategia. Prima non potevamo fare uno sforzo a livello redazionale, ora invece sì. Abbiamo un network di persone che ci sostiene. Anche perché se i bravi giornalisti diventaranno più importanti diventeranno un argine a quelli che fanno male il proprio lavoro. Siamo stati obbligati a chiamare in causa i giornali perché dovevamo fare le cose in maniera molto più veloce di quanto avremmo voluto».
Perchè? «Avevamo scelto The Guardian come unico partner, ma hanno rotto gli accordi. Gli abbiamo dato tutti i file, gli unici a cui abbiamo dato l'archivio completo, non potevano pubblicarli, né metterli su un pc collegato a Internet. Potevano solo leggerli. E loro hanno rotto ogni singolo punto di questo contratto. Volevano pubblicarli, li hanno messi anche su un pc collegato al Web: chi lo sa se ora per esempio la Cina non abbia trafugato tutti i 250mila cable?».
Poi cosa è successo? «Siamo andati dagli avvocati per cercare di avere un mese di tempo in più per evitare la pubblicazione, perché saremmo stati sotto attacco nel momento in cui sarebbero stati pubblicati. E l'abbiamo ottenuto. Abbiamo poi scelto di non pubblicare nulla su Israele la prima settimana, perché questo ci avrebbe creato grossi problemi».
Qual è il rapporto che hai con gli altri media inglesi? «Non dei migliori. La Bbc è uno dei più grandi nostri oppositori, accusandoci anche di collaborare con gli antisemiti come Israel Shamir (un giornalista scrittore che ha rinnegato il giudaismo israeliano, diventando pro palestinese, ndr). La Bbc è andata da ogni singola persona che ce l’aveva con noi per intervistarla».
Perché la Bbc ce l’avrebbe con voi? «Vogliono metterci in cattiva luce davanti all’opinione pubblica proprio in questi giorni in cui ci sarà il processo. Siamo venuti a conoscenza che la moglie del produttore di uno dei programmi che più ci attacca, Panorama di John Sweeney, è uno degli elementi di maggior spicco del movimento sionista a Londra».
Cosa pensa degli attacchi hacker che si sono scatenati in vostra difesa? Secondo alcuni stiamo per vivere la Terza Guerra Mondiale online? «Lo spero».
Come lo spera: è impazzito? «Al contrario. Intendo dire: auspico una rivoluzione non violenta, senza vittime. Il supporto che abbiamo avuto mi ha colpito. E stiamo diventando sempre più forti. Per esempio, nei giorni più caldi della rivolta in Egitto, siamo riusciti a tenere collegato il 6% della popolazione attraverso un satellite di una grande multinazionale, a loro insaputa ovviamente».
A proposito di Egitto: che idea si è fatto di quello che sta accadendo? «Soltanto recentemente Mubarak è stato definito un dittatore e ancora oggi Blair se ne è uscito dicendo: è un grande uomo. Servono commenti?».
Volete fomentare la rivolta nei Paesi del Nord Africa? «Quello che stiamo cercando di fare è un approccio macroregionale, per cui se anche al posto di Mubarak verrà messo un pupazzo dall’Occidente, questo dovrà necessariamente migliorare le condizioni di vita della popolazione per governare e questo spingerà ad esempio la Tunisia a chiedere di migliorare anche le proprie condizioni di vita. Questo in una spirale positiva».
E’ convinto che sia davvero spirale positiva? «I regimi si supportano l’un l’altro, così anche i dimostranti si supportano l’un l’altro. Io non so come finirà la vicenda di Ben Ali in Tunisia, ma lo stesso problema si presenterà alla sostituzione di Gheddafi. Chi arriverà dopo di lui dovrà ricostruire il Paese. Ma se arriviamo a coinvolgere una macro regione intera, certamente non si potrà andare indietro».
Lei vuole scatenare la rivoluzione. «Noi vogliamo che migliorino le condizioni di vita delle persone. Il problema del Nord Africa è un problema tutto israeliano, anzi è un problema che riguarda Gaza».
Allora è vero, lei ce l’ha con Israele. «No, semplicemente se un domani sarà qualcun’altro a governare in Egitto, potrà aprire il confine con Gaza. Questo potrebbe rappresentare un pericolo per Israele perché da quel varco potrebbe passare di tutto e questo è qualcosa che Israele non vuole assolutamente. Inoltre se viene aperta una frontiera, Gaza diventa un vero Stato e un vero Stato, ha armi e un esercito per difendersi e Israele non vuole neanche questo».
L’Occidente chi sostiene? «Preferiscono Suleiman».
Per quale motivo? «El Baradei è una brava persona e ha lavorato con l’Ovest, ha studiato e lavorato nelle istituzioni occidentali. Certamente può essere d’aiuto, ma non quanto Suleiman».
La accusano dicendo che il vostro lavoro mette a rischio le persone, che cosa risponde? «Il rischio che qualcuno possa perdere la vita in relazione alla pubblicazione di questi file c’è. Un giorno non saremo gli unici proprietari di questi dati, ma fino a quel giorno dobbiamo essere cauti nella diffusione di quanto in nostro possesso».
Come decidete i tempi delle pubblicazioni dei cable? «Dobbiamo prima tutelarci da problemi politici, ogni volta potremmo essere incolpati della morte di qualcuno e quindi questa cosa sarebbe stata usata in maniera molto aggressiva contro di noi dicendo che abbiamo messo le nostre fonti o le persone citate nei cable in pericolo. Dobbiamo essere molto cauti, per questo abbiamo rallentato la pubblicazione di cable».
Per i regimi chi è il vero nemico: Julian Assange, Wikileaks, i nuovi cable? «Per gli Stati Uniti sono io il vero nemico».
Ha paura? «Molta, moltissima. Io sono a rischio, perché se non verrò punito diventerò un simbolo per tutte le persone che hanno detto no al regime degli Stati Uniti».
Il sospetto è che ci sia qualcuno dietro di lei, dietro Wikileaks: perché fate tutto questo? «Si vive una sola volta, e se stai lì a guardare la televisione la tua vita scivola via. Quindi è meglio muoversi».
Si sente minacciato dagli Usa? «Certamente, io sono a rischio, perché se non verrò punito io diventerò un simbolo per tutte le persone che hanno detto no al regime degli Stati Uniti. E allora tantissime persone potranno dire no, e non solo per le persone che vivono fuori dagli Stati Uniti, ma anche chi vive dentro gli Usa, che magari fanno parte dell’apparato governativo o militare. Mentre se verrò punito la cosa sarà: guarda Julian Assange è stato punito, se lui non ce l’ha fatta, perchè dovrei farcela io?».
Come resiste a tutta questa pressione? «Non è così difficile, non sto dicendo che sia facile, ma penso che sarebbe stato molto peggio se tutto fosse accaduto di colpo invece è una cosa che è cresciuta gradualmente. Ho imparato a resistere a questo tipo di pressioni. Ad esempio, la prima cosa che pubblicammo su Scientology c’è costata 4 anni e circa 100 cause, con un esercito di 22 avvocati».
La cosa che più spesso le rimproverano? «Quella di lavorare contro qualcuno. Invece noi non siamo contro nessuno. Se ci arriva qualcosa contro i talebani, pubblichiamo contro i talebani, se arriva qualcosa contro gli americani pubblichiamo contro gli americani. L’unica cosa di cui ci preoccupiamo è l’autorevolezza della fonte. In questo caso, trattandosi di documenti ufficiali, l’autorevolezza è garantita».
Assange gentilmente si congeda, ma prima mostra un quadro, poggiato sopra il camino. Raffigura una mongolfiera a forma di volto che gli assomiglia, c’è una dedica: "Noi, la gente di Ellingam, siamo con te". Seguono quattro firme. di Giorgio Scura, inviato ad Ellingham Fonte
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