Federico García Lorca e la Spagna: le poesie, La sua eroina fu la terra andalusa

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La Spagna di Federico García Lorca






E dagli allevamenti
Venne un vento di voci segrete
Che gridavano ai tori celesti,
mandriani di pallida nebbia.
(da Il sangue versato)









La sua eroina fu la terra andalusa.

Un binomio indissolubile, quello fra Federico García Lorca e la Spagna, un legame più che affettivo fra l’uomo e la sua terra, impregnata di tradizioni e contraddizioni complesse, violente, esasperate. Pochi poeti sono stati più di lui così intimamente immersi nell’anima del loro Paese, pochi hanno saputo coglierne ed interpretarne meglio l’essenza.

Eppure García Lorca non si esaurisce nella Spagna, supera i confini geografici per assumere rilievo universale. “ Canto la Spagna e la sento fino in fondo”, diceva con orgoglio, “ma prima di tutto sono cittadino del mondo e fratello di tutti”.

E supera anche i confine del tempo, resiste alle mode, alle ideologie, alle infatuazioni improvise e agli improvvisi abbandoni. La sua popolarità è in continuo crescendo, si spande a macchia d’olio soprattutto tra i giovani, anche se è fatta di una poesia solo apparentemente facile e immediate.
Trentotto anni sono pochi per esprimere compiutamente una personalità. García Lorca ci è riuscito, con prepotenza, senza porsi nè tappe obbligate nè traguardi, senza arrendersi al successo, ma vivendo umile nel suo mondo, giorno per giorno, l’occhio teso alla ricerca di nuove sensazioni da far sgorgare musicalmente con un’originale purezza di immagini.

E queste sensazioni non andava a cercarle lontano: gliele offrivano il paesaggio andaluso – un uliveto, un fiume, una Chiesa- e la gente andalusa, col suo folklore e i suoi canti, le sue miserie e le sue grandezze, il suo “dolor del al alegría”, che sfocia in tragedia.

Quasi un presentimento del poeta per il proprio destino, che verrà coinvolto subito, fra le prime vittime, nel marasma della guerra civile. Nato in provincia di Granada, in provincia di Granada Federico García Lorca sarà fucilato dai franchisti all’alba del 19 agosto 1936 in circostanze misteriose e per misteriosi motivi. Avrebbe potuto mettersi in salvo, sottrarsi alle cannonate, all’odio, alla caccia all’uomo.

Di politica non si era mai occupato, se non per soffrire con gli umili ed esaltarne la lotta: la sua , diceva, era “una comprensione simpatica dei perseguitati. Del gitano, del negro, dell’ebreo, del moro che tutti noi portiamo dentro.”

Pochi giorni prima di essere assassinato, a un amico che lo pregava di riparare all’estero, rispondeva semplicemente ”Io sono un poeta. Non uccideranno i poeti “ ed era tornado a Granada, nella casa del padre e delle sue prime scoperte, fra i gitani e i loro canti d’amore e di morte. Il suo corpo, come migliaia di altri, riposa ancora da qualche parte sotto un ulivo.



Edited by Milea - 20/7/2022, 10:27
 
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Paesaggio



Il campo
di ulivi
s'apre e si chiude
come un ventaglio.
Sull'oliveto
c'è un cielo sommerso
e una pioggia scura
di freddi astri.
Tremano giunco e penombra
sulla riva del fiume.
S'increspa il vento grigio.
Gli ulivi
sono carichi
di gridi.
Uno stormo
d'uccelli prigionieri
che agitano lunghissime
code nel buio.






Un uliveto nella provincia di Jaén, in Andalusia






Edited by Milea - 21/7/2022, 09:54
 
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Le tre morettine

(Canzone popolare del XV secolo)



Tre morettine m’ innamorano
a Jaén:
Axa, Fatima eMarién.

Tre morettine leggiadre
andavano a cogliere olive,
e trovavanle finite
a Jaén:
Axa, Fatima eMarién.

E trovavanle finite
e tornavano avvilite
con le facce impallidite
a Jaén:
Aixa e Fátima e Marién.

Tre morettine proprio fresche
andavano a cogliere mele
e trovavanle già prese
a Jaén:
Aixa e Fátima e Marién.

Dissi: “Chi siete, signore belle,
ladre della mia vita?
“Cristiane una volta more
a Jaén:
Aixa e Fátima e Marién”.



Las-morillas-de-Jaen




Las morillas de Jaén


Tres morillas m'enamoran
en Jaén:
Axa y Fátima y Marién.

Tres morillas tan garridas
iban a coger olivas,
y hallábanlas cogidas
en Jaén:
Axa y Fátima y Marién.

Y hallábanlas cogidas
y tornaban desvaídas
y las colores perdidas
en Jaén:
Axa y Fátima y Marién.

~ ~ ~

Tres morillas m'enamoran
en Jaén:
Axa y Fátima y Marién.

Tres morillas tan lozanas,
tres morillas tan lozanas
iban a coger manzanas
en Jaén:
Axa y Fátima y Marién.

Díjeles: ¿Quién sois, señoras,
de mi vida robadoras?
Cristianas que éramos moras
en Jaén:
Axa y Fátima y Marién.

~ ~ ~

Tres morillas m'enamoran
en Jaén:
Axa y Fátima y Marién.


 
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Romanza sonnambula



Verde que te quiero verde
Verde vento, verdi rami
La barca sul mare
e il cavallo sulla montagna
Con l'ombra alla vita,
ellaa sogna al suo balcone
verde carne, capelli verdi,
gli occhi d’argento fgelato.

Verde que te quiero verde.
Sotto la luna gitana
le cose la stanno guardando
ed ella non può guardarle.

Verde que te quiero verde.

Grandi stelle di brina
Vengono col pesce d’ombra
che apre la strada dell’alba.
Il fico raschia il vento
con la squama dei suoi rami,
e il monte, gatto sornione,
arriccia le sue agavi acri.
Ma chi verrà? e da dove?
Lei è sempre al davanzale,
verde carne, verde chioma,
sognando l’amaro mare.

- Compare, voglio barattare
il mio cavallo con la tua casa,
la mia sella col tuo specchio,
il mio coltello con questa coperta.
Compare, arrivo sanguinante
dai monti di Cabra.
– Se potessi, caro amico,
questo contratto si farebbe.
Ma io non sono più io,
né la mia casa è più la mia casa.

– Compare, voglio morire
decorosamente nel mio letto.
Molle d’acciaio, se possibile,
con i lenzuoli d’Olanda.
Non vedi che ferita ho
dal petto fino alla gola?

– Trecento rose brune
sulla tua camicia bianca.
Il tuo sangue zampilla e odora
alla fascia della tua cintura.
Ma io non sono più io,
né la mia casa è più la mia casa.

– Lascia almeno che salga
fino alle alte balaustre;
lascia che salga, lascia,
alle verdi balaustre.
Ringhiere della luna
da dove l’acqua rimbomba.

Già salgono i due compari
alle alte balaustre.
Lasciando una traccia di sangue.
Lasciando una traccia di lacrime.
Tremavano sulle tegole
lanternine di latta.
Mille cembali di cristallo
ferivano le luci dell’alba.

Verde que te quiero verde
verde vento, verdi rami.
I due compari salivano.
Il lungo vento lasciava
in bocca uno strano sapore
di fiele, di menta e basilico.
– Dove sta, dimmi, compare!
Dove, la tua ragazza amara?
– Quante volte t’ha aspettato!
Quante volte t’aspettò,
viso fresco, nera chioma,
a questo verde balcone!

Sulla faccia della cisterna
la gitana si dondolava.
Verde carne, chioma verde
con occhi d’argento gelato.
Un ghiacciolo di luna
la sorregge sull’acqua.
La notte si fece intima
come una piccola piazza.
Guardie civili ubriache
alla porta bussarono.
Verde que te quiero verde.
Verde vento. Verdi rami.
La barca sul mare.
E il cavallo sulla montagna.

(2 agosto 1924)






Il fiume Cubillas nei pressi di Fuentevaqueros

 
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Congedo



Quando morirò,
lasciate il mio balcone aperto.

Il bambino mangia arance.
(Dal mio balcone lo vedo).

Il mietitore taglia il grano.
(Dal mio balcone lo sento).

Quando morirò,
lasciate il mio balcone aperto.






 
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Alba


Campane di Cordova
all'alba.
Campane mattutine
a Granada.
Vi ascoltano le ragazze
che piangono la tenera
soleá abbrunata.
Le ragazze
di Andalusia alta
e bassa.
Le ragazze di Spagna
dal piede piccolo
e le gonne frementi,
che riempiono di luci
i crocicchi.
Oh, campane di Cordova
all'alba,
oh, campane mattutine
a Granada!





 
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La monaca gitana



Silenzio di calce e mirto.
Malve fra le graminacee.
La monaca ricama violaciocche
sopra una tela color paglia.
Volano nella lumiera grigia,
sette uccelli del prisma.
La chiesa digrigna lontana
come un orso pancia all’aria.
Come ricama bene! con che grazia!
Sulla tela color paglia,
ella vorrebbe ricamare
fiori di sua fantasia.
Che girasole! che magnolia
di lustrini e di nastri!
Che zafferani e che lune,
sulla tovaglia della messa!
Cinque cedri si addolciscono
nella attigua cucina.
Le cinque piaghe di Cristo
aperte in Almerìa.
Negli occhi della monaca
galoppano due cavalieri.
Un rumore ultimo e sordo
le scioglie la camicia,
e al guardare nubi e monti
nelle deserte lontananze,
si spezza il suo cuore
di zucchero ed erbaluisa.
Oh che ripida pianura
con venti soli in cima.
Che fiumi in piedi
scorge la fantasia!
Ma continua coi suoi fiori,
mentre in piedi, nella brezza,
la luce gioca sugli scacchi
alti della grata.







 
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Lamento per Ignacio Sànchez Mejìas







1
Il cozzo e la morte
Alle cinque della sera.
Eran le cinque in punto della sera.
Un bambino portò il lenzuolo bianco
alle cinque della sera.
Una sporta di calce già pronta
alle cinque della sera.
Il resto era morte e solo morte
alle cinque della sera.
Il vento portò via i cotoni
alle cinque della sera.
E l’ossido seminò cristallo e nichel
alle cinque della sera.
Già combatton la colomba e il leopardo
alle cinque della sera.
E una coscia con un corno desolato
alle cinque della sera.
Cominciarono i suoni di bordone
alle cinque della sera.
Le campane d’arsenico e il fumo
alle cinque della sera.
Negli angoli gruppi di silenzio
alle cinque della sera.
Solo il toro ha il cuore in alto!
alle cinque della sera.
Quando venne il sudore di neve
alle cinque della sera,
quando l’arena si coperse di iodio
alle cinque della sera,
la morte pose le uova nella ferita
alle cinque della sera.
Alle cinque della sera.
Alle cinque in punto della sera.
Una bara con ruote è il letto
alle cinque della sera.
Ossa e flauti suonano nelle sue orecchie
alle cinque della sera.
Il toro già mugghiava dalla fronte
alle cinque della sera.
La stanza s’iridava d’agonia
alle cinque della sera.
Da lontano già viene la cancrena
alle cinque della sera.
Tromba di giglio per i verdi inguini
alle cinque della sera.
Le ferite bruciavan come soli
alle cinque della sera.
E la folla rompeva le finestre
alle cinque della sera.
Alle cinque della sera.
Ah, che terribili cinque della sera!
Eran le cinque a tutti gli orologi!
Eran le cinque in ombra della sera!



2
Il sangue versato
Non voglio vederlo!
Di’ alla luna che venga,
ch’io non voglio vedere il sangue
d’Ignazio sopra l’arena.
Non voglio vederlo!
La luna spalancata.
Cavallo di quiete nubi,
e l’arena grigia del sonno
con salici sullo steccato.
Non voglio vederlo!
Il mio ricordo si brucia.
Ditelo ai gelsomini
con il loro piccolo bianco!
Non voglio vederlo!
La vacca del vecchio mondo
passava la sua triste lingua
sopra un muso di sangue
sparso sopra l’arena,
e i tori di Guisando,
quasi morte e quasi pietra,
muggirono come due secoli
stanchi di batter la terra.
No.
Non voglio vederlo!
Sui gradini salì Ignazio
con tutta la sua morte addosso.
Cercava l’alba,
ma l’alba non era.
Cerca il suo dritto profilo,
e il sogno lo disorienta.
Cercava il suo bel corpo
e trovò il suo sangue aperto.
Non ditemi di vederlo!
Non voglio sentir lo zampillo
ogni volta con meno forza:
questo getto che illumina
le gradinate e si rovescia
sopra il velluto e il cuoio
della folla assetata.
Chi mi grida d’affacciarmi?
Non ditemi di vederlo!
Non si chiusero i suoi occhi
quando vide le corna vicino,
ma le madri terribili
alzarono la testa.
E dagli allevamenti
venne un vento di voci segrete
che gridavano ai tori celesti,
mandriani di pallida nebbia.
Non ci fu principe di Siviglia
da poterglisi paragonare,
né spada come la sua spada
né cuore così vero.
Come un fiume di leoni
la sua forza meravigliosa,
e come un torso di marmo
la sua armoniosa prudenza.
Aria di Roma andalusa
gli profumava la testa
dove il suo riso era un nardo
di sale e d’intelligenza.
Che gran torero nell’arena!
Che buon montanaro sulle montagne!
Così delicato con le spighe!
Così duro con gli speroni!
Così tenero con la rugiada!
Così abbagliante nella fiera!
Così tremendo con le ultime
banderillas di tenebra!
Ma ormai dorme senza fine.
Ormai i muschi e le erbe
aprono con dita sicure
il fiore del suo teschio.
E già viene cantando il suo sangue:
cantando per maremme e praterie,
sdrucciolando sulle corna intirizzite,
vacillando senz’anima nella nebbia,
inciampando in mille zoccoli
come una lunga, scura, triste lingua,
per formare una pozza d’agonia
vicino al Guadalquivir delle stelle.
Oh, bianco muro di Spagna!
Oh, nero toro di pena!
Oh, sangue forte d’Ignazio!
Oh, usignolo delle sue vene!
No.
Non voglio vederlo!
Non v’è calice che lo contenga,
non rondini che se lo bevano,
non v’è brina di luce che lo ghiacci,
né canto né diluvio di gigli,
non v’è cristallo che lo copra d’argento.
No.
Io non voglio vederlo!!



3
Corpo presente
La pietra è una fronte dove i sogni gemono
senz’aver acqua curva né cipressi ghiacciati.
La pietra è una spalla per portare il tempo
Con alberi di lagrime e nastri e pianeti.
Ho visto piogge grigie correre verso le onde
alzando le tenere braccia crivellate
per non esser prese dalla pietra stesa
che scioglie le loro membra senza bere il sangue.
Perché la pietra coglie semenze e nuvole,
scheletri d’allodole e lupi di penombre,
ma non dà suoni, né cristalli, né fuoco,
ma arene e arene e un’altra arena senza muri.
Ormai sta sulla pietra Ignazio il ben nato.
Ormai è finita. Che c’è? Contemplate la sua figura:
la morte l’ha coperto di pallidi zolfi
e gli ha messo una testa di scuro minotauro.
Ormai è finita. La pioggia entra nella sua bocca.
Il vento come pazzo il suo petto ha scavato,
e l’Amore, imbevuto di lacrime di neve,
si riscalda in cima agli allevamenti.
Cosa dicono? Un silenzio putrido riposa.
Siamo con un corpo presente che sfuma,
con una forma chiara che ebbe usignoli
e la vediamo riempirsi di buchi senza fondo.
Chi increspa il sudario? Non è vero quel che dice!
Qui nessuno canta, né piange nell’angolo,
né pianta gli speroni né spaventa il serpente:
qui non voglio altro che gli occhi rotondi
per veder questo corpo senza possibile riposo.
Voglio veder qui gli uomini di voce dura.
Quelli che domano cavalli e dominano i fiumi:
gli uomini cui risuona lo scheletro e cantano
con una bocca piena di sole e di rocce.
Qui li voglio vedere. Davanti alla pietra.
Davanti a questo corpo con le redini spezzate.
Voglio che mi mostrino l’uscita
per questo capitano legato dalla morte.
Voglio che mi insegnino un pianto come un fiume
ch’abbia dolci nebbie e profonde rive
per portar via il corpo di Ignazio e che si perda
senza ascoltare il doppio fiato dei tori.
Si perda nell’arena rotonda della luna
che finge, quando è bimba dolente, bestia immobile;
si perda nella notte senza canto dei pesci
e nel bianco spineto del fumo congelato.
Non voglio che gli copran la faccia con fazzoletti
perché s’abitui alla morte che porta.
Vattene, Ignazio. Non sentire il caldo bramito.
Dormi, vola, riposa. Muore anche il mare!



4
Anima assente
Non ti conosce il toro né il fico,
né i cavalli né le formiche di casa tua.
Non ti conosce il bambino né la sera
perché sei morto per sempre.
Non ti conosce il dorso della pietra,
né il raso nero dove ti distruggi.
Non ti conosce il tuo ricordo muto
perché sei morto per sempre.
Verrà l’autunno con conchiglie,
uva di nebbia e monti aggruppati,
ma nessuno vorrà guardare i tuoi occhi
perché sei morto per sempre.
Perché sei morto per sempre,
come tutti i morti della Terra,
come tutti i morti che si scordano
in un mucchio di cani spenti.
Nessuno ti conosce. No. Ma io ti canto.
Canto per dopo il tuo profilo e la tua grazia.
L’insigne maturità della tua conoscenza.
Il tuo appetito di morte e il gusto della sua bocca.
La tristezza che ebbe la tua coraggiosa allegria.
Tarderà molto a nascere, se nasce,
un andaluso così chiaro, così ricco d’avventura.
Io canto la sua eleganza con parole che gemono
e ricordo una brezza triste negli ulivi.

(Alla cara amica Encarnación López Júlvez, 1935)






Pablo Picasso
Corrida: la morte del torero, 1979
Paris, musée Picasso

 
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Banderuola



Vento del sud,
bruno, ardente,
scendi sulla mia carne
e porti semi
di sguardi
brillanti col profumo
d’aranceti.
Fai arrossire la luna
e singhiozzare
i pioppi prigionieri, ma vieni
troppo tardi!
Ho già deposto la notte del mio racconto
nello scaffale.
Senza vento,
credimi,
gira, cuore;
gira, cuore.
Vento del nord,
orso bianco del vento!
Scendi sulla mia carne
tremante d’aurore
boreali
col tuo strascico di spettri
capitani
e ridendo
di Dante.
O pulitore di stelle!
Ma vieni
troppo tardi.
La casa dell’anima è coperta di muschio
e ho perso la chiave.
Senza vento,
credimi,
gira, cuore;
gira, cuore
Brezze, gnomi e venti
di nessun luogo.
Zanzare della rosa
di petali a piramide.
Alisei filtrati
fra gli alberi rudi,
flauti nella burrasca
lasciatemi!
Il mio ricordo
trascina pesanti catene
e l’uccello è prigioniero
quando disegna di trilli
la sera.
Le cose che se ne vanno non tornano più,
tutti lo sanno,
e fra l’illustre moltitudine dei venti
è inutile lamentarsi.
Non è vero, pioppo, maestro di brezza?
È inutile lamentarsi.
Senza vento,
credimi,
gira, cuore;
gira, cuore.




 
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Ballata della Guardia Civile Spagnola



Coperti di nero i cavalli.
Nere le ferrature.
Sui mantelli rilucono
macchie d'inchiostro e cera.
Hanno di piombo i crani
per questo non piangono.
Con l'anima di lacca
camminano nella rotabile.
Gobbi e notturni,
per dove spronano impongono
silenzi di gomma oscura,
paure di fine sabbia.
Se voglion passare, passano,
e occultano nelle teste
d'astratte pistole
una vaga astronomia.


Oh città dei gitani!
Agli angoli bandiere.
La luna e la zucca
con le amarene in conserva.
Oh città dei gitani!
Chi t'ha vista e non ti ricorda?
Città di dolore e di muschio,
con le torri di cannella.



Quando cadeva la notte.
notte di notte, notturna,
i gitani nelle fucine
forgiavano soli e frecce.
Un cavallo a morte ferito
bussava a tutte le porte.
Galli di vetro cantavano
per Jerez de la Frontera.
Ignudo il vento volta
la cantonata dell'agguato,
nella notte argentonotte
notte di notte, notturna.


La Vergine e San Giuseppe
perdettero le loro nacchere,
e vanno cercando i gitani
per veder se le ritrovano.
La Vergine viene vestita
d'un abito di sindachessa
di stagnola per cioccolato,
con i vezzi di mandorle.
San Giuseppe muove le braccia
sotto il mantello di seta.
Dietro va Pedro Domecq
con tre sultani di Persia.
La mezzaluna sognava
un'estasi di cicogna.
Lampioncini e stendardi
invadono le terrazze.
Negli specchi singhiozzano
ballerine senza fianchi.
Acqua e ombra, ombra e acqua
per Jerez de la Frontera.


Oh città dei gitani!
Agli angoli bandiere.
Spegni le verdi tue luci,
arriva la benemerita.
Oh città dei gitani!
Chi t'ha vista e non ti ricorda?
Lasciatela lungi dal mare,
senza pettini per la riga.


Avanzano per due
dentro la città della festa.
Un rumore di semprevivi
invade le loro cartucciere.
Avanzano dentro per due.
Notturno rintocco di tela.
Il cielo sembra loro
una vetrina di speroni.


La città libera da paura
moltiplicava le porte.
Quaranta guardie civili
vi passano per saccheggiarla.
Gli orologi si fermarono
e il cognac nelle bottiglie
si mascherò da novembre
per non destare sospetti.
Un volo di lunghi gridi
ascese alle banderuole.
Le sciabole tagliano brezze
dagli zoccoli travolte.
Nelle strade di penombra
le vecchie gitane in fuga
coi cavalli addormentati
e gli orcioli di monete.
Nelle strade inerpicate
le cappe sinistre salgono,
lasciandosi dietro fugaci
mulinelli di forbici.


Nel Portico di Betlemme
i gitani si radunano.
San Giuseppe crivellato
acconcia una fanciulla morta.
Aspri fucili implacabili
echeggiano tutta la notte.
La Vergine sana i bambini
con dolce saliva di stella.
Ma la Guardia Civile avanza
seminando falò,
dove l'immaginazione
giovane e nuda avvampa.
Rosa de los Camborios geme
seduta sulla sua porta
con le due poppe recise
sopra un vassoio posate.
Ed altre ragazze correvano,
dalle loro trecce inseguite,
in un'aria dove deflagrano
rose di polvere nera.
Quando solchi nella terra
divennero tutti i tetti,
dondolò l'alba le spalle
in lungo profilo di pietra.



Oh città dei gitani!
La Guardia Civile dilegua
sotto un tunnel di silenzio
mentre le fiamme t'accerchiano.
Oh città dei gitani!
Chi t'ha vista e non ti ricorda?
Cercatela sulla mia fronte.
Gioco di luna e di sabbia.





 
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La sposa infedele



E io che me la portai al fiume
credendo che fosse ragazza,
invece aveva marito.
Fu la notte di S. Giacomo
e quasi per obbligo,
si spensero i fanali
e si accesero i grilli.
Alle ultime svolte
toccai i suoi seni addormentati,
e di colpo mi s'aprirono
come rami di giacinti.
L'amido della sua gonnellina
suonava alle mie orecchie,
come un pezzo di seta
lacerato da dieci coltelli.
Senza luce d'argento sulle cime
sono cresciuti gli alberi,
e un orizzonte di cani
abbaia lontano dal fiume.
Passati i rovi,
i giunchi e gli spini,
sotto il cespuglio dei suoi capelli
feci una buca nella fanghiglia.
Io mi levai la cravatta.
Lei si tolse il vestito.
Io la cintura e la rivoltella.
Lei i suoi quattro corpetti.
Non hanno una pelle così fine
le tuberose e le conchiglie,
né i cristalli alla luna
risplendono di tanta luce.
Le sue cosce mi sfuggivano
come pesci sorpresi,
metà piene di brace,
metà piene di freddo.
Corsi quella notte
il migliore dei cammini,
sopra una puledra di madreperla
senza briglie e senza staffe.
Non voglio dire, da uomo,
le cose che ella mi disse.
La luce dell'intendimento
mi fa essere molto discreto.
Sporca di baci e di sabbia,
la portai via dal fiume.
Con la brezza si battevano
le spade dei gigli.
Agii da quello che sono,
da vero gitano.
Le regalai un grande cestino
di raso paglierino,
e non volli innamorarmi
perché avendo marito
mi disse che era ragazza
mentre la portavo al fiume.




 
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view post Posted on 20/7/2022, 18:37     +3   +1   -1
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Sono così tanti a zoppicare che chi cammina dritto, pare in difetto!

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Canzone primaverile




Escono allegri i bambini
dalla scuola,
lanciando nell'aria tiepida
d'aprile tenere canzoni.
Quanta allegria nel profondo
silenzio della stradina!
Un silenzio fatto a pezzi
da risa d'argento nuovo.
Vado pel cammino della sera,
tra i fiori dell'orto,
lasciando sulla strada
l'acqua della mia tristezza.
Sul monte solitario
un cimitero di paese
sembra un campo seminato
di semi di teschi.
E sono fioriti cipressi
come teste giganti
che con orbite vuote
e chiome verdognole
pensosi e dolenti
l'orizzonte contemplano.
Divino aprile, che vieni
carico di sole e di essenze,
colma di nidi d'oro
i teschi fioriti!

(1919)





Il cimitero di Porcuna, tra Cordova e Jaén


 
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view post Posted on 20/7/2022, 19:50     +3   +1   -1
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Romanza della Madonna della Barca




Oh festa, festa, festa
della Vergine piccola
e della sua barca.

La Vergine era piccola
e la sua corona d'argento.
Gialli i quattro buoi
che nel carro la portavano.

Colombe di vetro spingevano
la pioggia sulla montagna.
Per le gole giungevano
tutti i morti della nebbia.

Vergine, lascia la tua faccia
negli occhi dolci delle vacche
e prendi sopra il tuo manto
i fiori funebri.

Per la testa di Galizia
già viene spuntando l’alba.
La Vergine guarda il mare
dalla porta della sua casa.

Oh festa, festa, festa
della Vergine piccola
e della sua barca!









 
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view post Posted on 20/7/2022, 20:22     +3   +1   -1
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Romanza della luna - luna



La luna venne alla fucina
col suo sellino di nardi.
Il bambino la guarda, guarda.
Il bambino la sta guardando.
Nell’aria commossa
la luna muove le sue braccia
e mostra, lubrica e pura,
i suoi seni di stagno duro.
Fuggi luna, luna, luna.
Se venissero i gitani
farebbero col tuo cuore
collane e bianchi anelli.
Bambino, lasciami ballare.
Quando verranno i gitani,
ti troveranno nell’incudine
con gli occhietti chiusi.
Fuggi, luna, luna, luna
che già sento i loro cavalli.
Bambino lasciami, non calpestare
il mio biancore inamidato.
Il cavaliere s’avvicina
suonando il tamburo del piano.
nella fucina il bambino
ha gli occhi chiusi.
Per l’uliveto venivano,
bronzo e sogno, i gitani.
le teste alzate
e gli occhi socchiusi.
Come canta il gufo,
ah, come canta sull’albero!
Nel cielo va luna
con un bimbo per mano.
Nella fucina piangono,
gridano, i gitani.
Il vento la veglia, veglia.
Il vento la sta vegliando.


( A Conchita García Lorca,1924
da “Romancero gitano” - Traduzione di Carlo Bo)






Nei pressi di questo ulivo pare sia sepolto García Lorca


 
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view post Posted on 21/7/2022, 08:40     +2   +1   -1
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Canzone minore




Le ali dell’usignolo
hanno gocce di rugiada,
gocce chiare della luna
bloccate dall’illusione.

Il marmo della fonte
ha il bacio dello zampillo,
sogno di stelle umili.

Le bambine dei giardini
mi dicono tutte addio
quando passo. Anche le campane
mi dicono addio.
E gli alberi si baciano
nel crepuscolo. Io
piango per la strada,
grottesco e senza soluzione,
con tristezza da Cyrano
e don Chisciotte, redentore
di impossibili infiniti
col ritmo dell’orologio.
E vedo appassire i gigli
al contatto della mia voce
macchiata di luce sanguinante
e nella mia lirica canzone
vesto abiti da pagliaccio
infarinato. L’amore
bello e pulito si è nascosto
sotto un ragno. Il sole
come un altro ragno mi nasconde
con le sue zampe d’oro.
Non sarò mai felice
perché sono come l’Amore
che ha le frecce di pianto
e la sua faretra è il cuore.

Darò tutto agli altri
e piangerò la mia passione
come un bambino abbandonato
in un racconto che s’è sbiadito.


(Granada, dicembre 1918 )








 
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