La storia dei colori

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LA STORIA DEI COLORI:
IL BIANCO





Esseri fantastici
1220 circa
Chiesa di San Giacomo (abside)
Kastelaz, Termeno, (Bolzano)


I colori usati per dipingere, ma anche per tingere i tessuti, sono da sempre ottenuti da materie reperibili in natura. Da queste si ricavavano i pigmenti in polvere che, dopo la miscelazione con sostanze leganti (acqua, olio, colla o altro a seconda dell’uso di destinazione e le epoche) costituiscono la base dell’attività artistica. Usato fin dall’epoca preistorica, il tipo di bianco più antico è quello a base di carbonato di calcio, ricavato da rocce sedimentarie come la creta e il calcare o da rocce metamorfiche come il marmo, ma anche dalla polverizzazione dei gusci di microscopici molluschi marini come i radiolari. la calce spenta, depurata ripetutamente con lavaggi in acqua, seccata, macinata e setacciata, è la base del pigmento più usato in pittura, il cosiddetto bianco di Sangiovanni. Impiegato soprattutto ad affresco è stabile alla luce; nelle scuole pittoriche del Nord Europa era adoperato non tanto come colore, ma per la preparazione delle tavole in sostituzione del gesso.

Altro fondamentale fornitore di bianco è il piombo. Il bianco di piombo (carbonato basico di piombo, pigmento detto anche cerussa o biacca) è una tinta artificiale, ottenuta esponendo, per circa un mese, lamine di piombo ai vapori dell’aceto contenuto in un recipiente di terracotta immerso nel letame. In questo modo l’anidride carbonica liberata dalla fermentazione si fissa sul piombo acetato, che forma una crosta bianca asportata poi meccanicamente, lavata ed infine macinata. Oltre ad essere molto tossico, il bianco di piombo non è adatto alla pittura ad affresco, perché scurisce rapidamente; per secoli è stato sfruttato soprattutto nella pittura ad olio. Del bianco di piombo non si è riusciti a trovare un sostituto meno velenoso almeno fino al 1750, quando cominciano ad essere utilizzati pigmenti a base di bario, zinco e stagno, poi sostituiti con l’attuale, innocuo bianco di titanio (1919).


Gli affreschi della Chiesa di San Giacomo




La Chiesa di San Giacomo sulla collina di Kastelaz sopra Termeno rappresenta uno dei santuari medievali più importanti dell’Alto Adige. Custodisce un ciclo di affreschi romani risalenti al 1220, in perfetto stato di conservazione: strane figure mitologiche, metà animali e metà umani, Ibridi uomo-animale e chimere popolano le pareti sopra l’altare. A queste si aggiungono figure come il centauro, l'uomo-cavallo della mitologia greca: esse rappresentano il peccato e si contrappongono alla serie di affreschi romanici posti al di sopra: i dodici apostoli e Cristo in Maestà dentro una mandorla. Nella navata laterale invece, si possono ammirare colorati murali gotici di Ambrosius Gander, che risalgono al 1441 e che raccontano, fra l'altro, il miracolo del gallo e della gallina e la leggenda dei pellegrini. (M.@rt)









 
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LA STORIA DEI COLORI:
IL BLU OLTREMARE





Pisanello
Madonna della quaglia
(Madonna with the Quail)
1420 circa
tempera ed oro su tavola
50 x 33 cm.
Verona,Museo di Castelvecchio


La storia dell’uso delle sostanze coloranti è spesso legata strettamente a materiali che nel tempo assumono aspetti quasi leggendari: è il caso del blu oltremare, colore fondamentale in pittura, da sempre unito al lapislazzuli, il minerale con il quale fin dal 4000 a. C. in Mesopotamia e in Egitto si preparava questa tinta. Il lapislazzuli è una roccia formata dall’associazione di vari minerali: lazulite che ne determina il colore, calcite, pirite, mica e altre sostanze. Essa viene estratto dalle miniere dell’Asia Centrale, in particolare dalle miniere afgane, le stesse descritte nel capitolo XXXV del Milione di Marco Polo, nel 1298.
Il prezioso materiale estratto in quelle terre lontane seguiva poi la Via della Seta, che passava da Samarcanda fino a Venezia, uno dei centri dove questo minerale veniva smerciato e dove veniva utilizzato per fabbricare il pigmento, il lapislazzuli non poteva essere usato come colore in pittura se non dopo un complesso trattamento, che aveva lo scopo di separare la componente blu (lazulite) dagli altri minerali che tendevano al grigio. Questo trattamento, documentato da vari trattati come il Libro dell’arte di Cennino Cennini, consisteva nel mescolare la polvere della pietra con oli, cera e resine, fino a formare una pasta morbida, che poi veniva trattata a lungo con liscivia, fino a separare il colore blu dalle impurità. In altri testi si consigliava di macinarlo con l’ausilio di aceto in modo da separare il pigmento dai residui di pirite e parti sulfuree. Nella storia dei pigmenti, il blu oltremare naturale è da sempre uno dei colori più costosi, sia per il fatto di essere materiale di importazione, sia per il complesso procedimento di purificazione. A causa del costo, proibitivo per gli artisti, spesso la qualità e il prezzo dell’oltremare era stabilito per contratto, con il committente dell’opera. L’ultramarino migliore costava più del suo peso in oro nel Medioevo e quindi era usato con parsimonia. Dipingere estesamente con questo colore, come fece Giotto nella Cappella degli Scrovegni, era un lusso. Inoltre questo colore rendeva al meglio nelle stesure a tempera, mentre con i leganti oleosi tendeva a scurirsi eccessivamente; per questo erano preferibili toni azzurri di altro tipo come l’azzurrite.





Giotto, Cappella degli Scrovegni, Padova (dettaglio)


I minerali come l’azzurrite e malachite sono ottimi pigmenti: il primo più bluastro, il secondo invece con una tinta verde. Entrambi hanno solo bisogno di essere macinati e mescolati con un legante liquido. Nel Medioevo come legante si usava generalmente il tuorlo d’uovo per dipingere sui pannelli di legno e bianco il d’uovo (chiamato “glair”) per lavorare sui manoscritti. L’azzurrite di buona qualità non era economica, ma c’erano depositi di questo minerale in tutta Europa. Per gli inglesi (che non avevano fonti locali) la scelta cadeva sul blu tedesco, che i tedeschi chiamavano blu di montagna. Un blu più economico era l’estratto vegetale dell’indaco, usato come colorante fin dai tempi antichi. A differenza della maggior parte dei coloranti organici - quelli estratti da piante e animali - non si scioglie in acqua, ma può essere essiccato e macinato in polvere come un pigmento minerale, e poi mescolato con agenti leganti standard (come gli oli) per farne una vernice. Dà un blu scuro, a volte violaceo, a volte schiarito con il bianco di piombo; il nome latino “indicum” ne indica la provenienza dall’ Oriente, sebbene una forma di indaco poteva essere estratta dalla pianta di guado, coltivata in Europa.
Un altro blu del Rinascimento e del Barocco va sotto il nome di smalto. Le sue origini sono oscure, ma potrebbero derivare dalla tecnologia vetraria; il cobalto si trova nelle miniere d’argento, ed è tossico in dosi elevate. Veniva prodotto semplicemente macinandolo, ma non troppo finemente, perché poi il blu diventava pallido. Lo smalto era quindi un materiale granuloso e non era facile da usare per gli artisti.

Nel corso dei secoli, gli artisti hanno utilizzato anche un altro blu. Intorno al 1704 un alchimista berlinese, stava tentando di fare un pigmento di lago rosso quando scoprì di aver prodotto qualcosa di molto diverso: un colore blu profondo. Aveva usato un lotto di alcali potassico contaminato con olio animale, presumibilmente preparato col sangue. Il ferro reagì con il materiale nell’olio e creò un di colore blu, che venne denominato blu di Prussia.
Nel 1802 si ideò un pigmento fortemente colorato con una costituzione chimica simile: l’alluminato di cobalto, che dava diversi altri colori oltre al blu profondo. Negli anni 1850 un pigmento giallo a base di cobalto chiamato aureolina divenne disponibile in Francia, seguito poco dopo da un pigmento viola chiamato viola di cobalto. Da un composto di cobalto e stagno si ottenne un pigmento blu cielo chiamato blu ceruleo.
Nel 1828, si ottenne un modo per fare il blu partendo da argilla, soda, carbone, sabbia e zolfo; questo ultramarino costava un decimo del costo del pigmento naturale. Nel 1955 mescolando il blu oltremare con una resina sintetica fissativa si ottenne un pigmento che dava alla superficie della pittura una consistenza opaca e vellutata.



Madonna della quaglia



La Madonna della Quaglia è un’opera giovanile di Pisanello. La tavola rappresenta una Madonna col Bambino che viene incoronata da due angeli in volo, seduta in un roseto, all’interno del quale figurano alcune specie vegetali e volatili, tra cui una quaglia in primo piano, che dà il titolo all’opera.



La Vergine ha un incarnato a tinte morbide e delicate, che ricorda quello delle principesse cortesi; il panneggio ha i colori tradizionali dell’iconografia mariana: veste rossa con manto blu, l’umano che si copre del divino. La veste è impreziosita da alcuni dettagli dorati, che si affiancano alle elaborate aureole-corone indossate da entrambe le figure, richiamando fortemente le opere dell’oreficeria, arte cardine del periodo gotico.

Madre e bambino creano tra loro una struttura compositiva circolare, che ne avvicina i volti e le mani in una sorta di intreccio dalle linee curve, a cui si uniscono anche quelle create dalle ali degli angeli nel piano superiore della tavola.

Le due figure sono inserite all’interno di una ambientazione paradisiaca, accentuata dal fondo in lamina d’oro: si tratta di un roseto, un “giardino conclusus” (recintato), simbolo della verginità di Maria.

Altro simbolo della Vergine è proprio la rosa, tipica peraltro dello stile tardogotico, mentre la quaglia potrebbe rimandare all’immortalità dell’anima, in quanto metafora di Cristo, o all’umiltà, virtù con cui la Madonna si appresta a ricevere dagli angeli l’incoronazione. Particolare attenzione è data alla resa degli elementi della flora e della fauna, ritratti con il gusto erudito tipico dei pittori del “gotico fiorito”: sono presenti diverse specie floreali, e uccelli simili a tortore o colombe. (M.@rt)








Edited by Milea - 21/11/2022, 10:31
 
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LA STORIA DEI COLORI:
IL ROSSO






Martin Schongauer
Madonna del Roseto
(Madonna and Child in a Rose Arbour)
1473
pala d’altare, olio e foglia oro su pannelli di conifere
200 × 114,5 cm.
Colmar (Francia), Chiesa di San Martino


Nonostante sia sempre stato un colore difficile da ottenere, l’uomo ha cercato di riprodurlo sia sulle stoffe che nell’arte: nel Paleolitico, nella Grotta di Blombos, sulla costa del Sudafrica, sono stati rinvenuti macine e martelli per frantumare un pigmento naturale di ocra rossa e conchiglie di abalone, da mescolare con grasso animale e urina per ottenere una vernice che sarebbe stata poi usata per decorare corpi e le pareti delle grotte. Per le pitture realizzate a Chauvet, Lascaux e Altamira quegli uomini usarono i colori che avevano a portata di mano: carbone per il nero, gesso e ossa macinate per il bianco, i rossi e i gialli terrosi dell’ocra, una forma minerale di ossido di ferro.



Ai tempi dei Fenici le coste del Mediterraneo erano ricche di conchiglie di “Murex Brandaris”, il cui mollusco possiede una piccola ghiandola, che, se aperta, secerne una sostanza vischiosa biancastra, che alla luce muta il proprio colore, dapprima gialla, poi verde, poi viola per assumere infine uno splendido tono rossastro dalle sfumature violacee.
Alternative meno costose esistevano, ma nessuna aveva la brillantezza delle stoffe ottenute dai murici; si poteva ricorrere alla cocciniglia, il “Kermes Ilicis”: il pigmento, ottenuto dall’essiccamento delle cocciniglie femmine, conteneva l’acido carminio, che produce il tipico colore omonimo. Nelle pitture murarie si continuava a usare l’ocra rossa: un mirabile esempio di quest’uso si trova a Pompei, nella Villa dei Misteri, dove vivaci e realistiche raffigurazioni di un colore rosso unico che, dalla scoperta della villa nel 1909, venne chiamato “Rosso Pompeiano”.

Ma i classici pigmenti rossi non si basano su minerali ferrosi, la cui tonalità è più vicina al colore della terra che al rosso vivo. Per molti secoli, il rosso della tavolozza proveniva da composti di altri due metalli: piombo e mercurio. Il pigmento conosciuto come “piombo rosso” era creato dapprima corrodendo il piombo con fumi di aceto, poi rendendo la sua superficie bianca, e infine riscaldando quel materiale all’aria.
Per Plinio, qualsiasi rosso brillante era chiamato “minium”, ma nel Medioevo il termine latino era più o meno sinonimo di piombo rosso, molto usato nell’illustrazione dei manoscritti. Dal verbo miniare (dipingere in minium) si ottiene il termine “miniatura”. Il minio di Plinio era un altro pigmento rosso, chiamato cinabro, un minerale naturale (solfuro di mercurio).

Nel Medioevo, gli artigiani erano in grado di ottenere artificialmente il solfuro di mercurio, combinando il mercurio liquido e lo zolfo giallo in forma minerale, riscaldandoli in un recipiente sigillato. Questo processo dava un pigmento di qualità superiore a quella del cinabro naturale. Questo “cinabro artificiale” divenne noto con il nome di vermiglio; l’etimologia deriva dal latino vermiculum (“piccolo verme”), poiché un tempo si estraeva un rosso brillante da una specie di insetto schiacciato. Non un pigmento quindi, ma un colorante traslucido di colore scarlatto, che derivava da una sostanza organica a base di carbonio che producono gli insetti. Tali coloranti erano anche conosciuti come “kermes”, la radice etimologica del cremisi.

Il costo del colore rosso era talmente elevato che ben presto divenne simbolo di ricchezza e potere. I coloranti rossi erano associati alla maestà, all’opulenza, allo status elevato e all’importanza del personaggio: era utilizzato per le vesti dei cardinali. L’aumento della richiesta di verosimiglianza nel Rinascimento significava che la tonalità arancione del piombo rosso o del vermiglio non era più adeguata.



Un’alternativa era quella di trasformare i coloranti in un pigmento: con un processo chimico utilizzando l’allume minerale si otteneva una polvere rosso scuro. Il pigmento era chiamato “lago”, dalla parola (lac o lack) usata per una resina rossa che secernono degli insetti indigeni dell’India e del sud-est asiatico. Uno dei migliori laghi rossi del tardo Medioevo e Rinascimento nasceva da un colorante estratto dalla radice della pianta della robbia, tipica dell’area del Mediterraneo, da cui si ricava il colore detto “garanza” o “alizarina”, che mescolato con allume creava gli accesi colori di lacca rossa ideali per le raffinate miniature.
Quando la fabbricazione dei “laghi” fu perfezionata, artisti come Tiziano e Tintoretto cominciarono a usare questi pigmenti mescolati con oli, ricavando una vernice leggermente traslucida che applicavano in molti strati per ottenere una profonda tinta rosso vino che, in combinazione col blu, dava il viola.
Dal Medioevo fino ai tempi moderni, il rosso usato dai pittori è non è cambiato molto. Gli impressionisti alla fine del XIX° secolo usarono con avidità dei nuovi gialli, arancioni, verdi, viola e blu resi possibili dai progressi della chimica, ma i loro rossi non erano molto diversi da quelli di Raffaello e Tiziano. Solo all’inizio del ventesimo secolo un nuovo e vibrante rosso entrò nella tavolozza artistica. La scoperta del cadmio , nel 1817 produsse dei nuovi pigmenti gialli e arancioni, ma si ottenne un rosso, solo intorno al 1890. Nel 1910 il rosso di cadmio, un colore ricco e caldo, entrò nei mercati e la sua produzione divenne economica solo quando l’azienda chimica Bayer modificò il metodo di produzione nel 1919.



Madonna del roseto



Due ante traforate in arabeschi e dorate racchiudono il dipinto. Il vestito della Madonna occupa quasi interamente la parte inferiore del quadro; si eleva a piramide lasciando apparire ai lati il roseto tra le cui foglie, su uno sfondo d'oro, appaiono i fiori rossi. La donna e il bambino sembrano emergere dal sontuoso panno rosso del vestito.
La Madonna siede all’interno di un giardino fiorito in un pergolato di rose rosse e bianche, dipinte minuziosamente, tra cui si annidano i cardellini. È la “Virgo humilis”: ha il volto pallido, lo sguardo assorto, i capelli biondi sparsi sulle spalle. Maria trattiene con le mani dalle dita affusolate il Bambino, che si aggrappa al suo abito e ai suoi capelli, circondandole il collo con il braccio, come nelle icone bizantine delle “Madonne della Tenerezza”: dietro di loro si erge un gazebo di rose rosse e bianche. La Vergine indossa un immenso manto di color rosso vermiglio. È il trionfo di un colore prezioso, smaltato, anche nei due angeli in blu che reggono la corona gotica sopra il capo di Maria. La Madonna e il Bambino guardano in direzioni opposte: le teste inclinate e i tratti austeri dell'arte gotica sono sorprendentemente attenuati, se non cancellati, dal rosso brillante delle labbra dei due personaggi.



Schongauer combina i motivi della “Vergine dell'Umiltà”, seduta su una semplice panca di legno, del giardino recintato e della Rosa Mystica, adottando uno stile chiaramente influenzato dai maestri fiamminghi. La pittura religiosa medievale era piena di simbolismo: nella pala di altare le spine dei cespugli di rose personificano le spine sulla corona della passione di Gesù e la rosa rossa stessa è un fiore tradizionale della Vergine Maria (nei Salmi la Madre di Dio è spesso paragonata a un roseto o un fiore); la rosa bianca secondo la leggenda medievale, è un simbolo di morte, quindi personifica la futura Passione di Cristo. I fiori bianchi simboleggiano la purezza e l’innocenza dell'Immacolata Concezione; il trifoglio di fragole indica la trinità di Dio e le bacche rosse rappresentano il sangue di Cristo.
L’opera trasmette una sottile ansia: il viso pallido di Maria sembra congelato in una calma spirituale, ma le sue dita sottili mostravano tensione, una premonizione del dramma. Madre e Figlio hanno uno sguardo malinconico, ma nella tela è racchiuso anche un messaggio di speranza: i cardellini rappresentano non solo il dolore ma anche l’anima che sopravvive alla morte, per cui la tavola è un inno alla immortalità, alla protezione della Vergine contro le pestilenze ricorrenti. Era l’anno 1473 e l’amore per la Madonna si esprimeva in tutta l’Europa con queste Vergini racchiuse in un giardino meraviglioso, anticipo del Paradiso.



Laboratorio Schongauer
copia della Madonna del roseto
XVI° secolo
44,3 × il 30,5 cm.
Boston, Isabella Stewart Gardner Museum


L'opera originariamente era più grande (255 × 165 cm.), ma è stata ritagliata, per nascondere i danni probabilmente causati da una caduta. Una copia di dimensioni ridotte (44.5 × il 30,7 cm.), datata ai primi anni del XVI° secolo può dare un'idea del dipinto originale. Così scomparvero la parte superiore raffigurante Dio Padre e la colomba (di cui solo i raggi raggiungono la corona), le estremità del mantello e la veste della Vergine, nonché le piante rappresentate sui bordi del dipinto, tagliate a destra e a sinistra, e gran parte del letto di fragole, mostrato nella parte inferiore.
Agli inizi del XX° secolo, la tavola divenne un nuovo quadro in forma di pala duplice. Le facce esterne di queste sono state poi dipinte con un'”Annunciazione”, dall'artista alsaziano Charles Martin Feuerstein. L'opera di Schongauer, che ora costituisce il pannello centrale di questa pala d'altare, è collocata all'interno di una cornice lignea policroma ad arco acuto, scolpita da Alfred Klem con fogliame e sette angeli musicali. (M.@rt)






 
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LA STORIA DEI COLORI:
IL ROSSO PORPORA






Foglio purpureo di Zanten
VI secolo
Bruxelles, Bibliothèque Royal Albert Ier


Tra le numerose attività artigianali come la lavorazione del vetro, dell'avorio delle pietre dure e preziose che alimentavano la grande vocazione commerciale delle città-stato della Fenicia, una delle più importanti e leggendarie è quella legata alla lavorazione e al commercio della porpora, un’attività così rilevante da identificare con il colore del prodotto anche il nome dei Fenici stessi (phoinix, fenicio, significa rosso). I Fenici esportavano questo colorante ovunque ve ne fosse richiesta, traendone grandi profitti.


Il porpora è un bel colore rosso che poteva andare dal rosso scarlatto al rosso cupo fino al violaceo, ed è da sempre associato ai simboli di regalità e sacralità. La tintura in porpora è indelebile, perciò particolarmente pregiata; veniva usata per le stoffe di lino e di lane prodotte localmente o importate dal vicino Egitto. I Fenici fabbricavano il pigmento a partire dalla raccolta dei murici, un particolare genere di molluschi monovalvi, un tempo reperibili in grandi quantità sui fondali bassi di tutte le coste del bacino del Mediterraneo.

La pesca era probabilmente effettuata tramite nasse contenenti esche. Dopo la raccolta, i molluschi venivano conservati per un breve periodo in capaci vasche poste ai margini dell’abitato. In questa fase veniva rotta la conchiglia che racchiudeva il mollusco e, dopo la macerazione in acqua, i resti calcarei delle conchiglie venivano eliminati. Il pigmento concentrato, ottenuto dai molluschi macerati, veniva poi diluito con acqua marina, in base all’intensità del colore che si voleva ottenere ed era pronto per essere utilizzato nelle operazioni di tintura delle stoffe.

L’attività della preparazione della porpora era così sviluppata che a ricordo rimangono ancor oggi enormi banchi di gusci infranti, collocati in posizione periferica rispetto agli antichi centri urbani a causa del cattivo odore emanato dal prodotto durante la macerazione. (M.@rt)

 
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LA STORIA DEI COLORI:
IL ROSSO POMPEIANO




Vittoria-con-tripode-P

Vittoria con tripode
età flavia
Murecine, Pompei.


Riguardo alle tecniche della pittura romana ci forniscono molte informazioni sia Plinio che Vitruvio: entrambi gli autori descrivono la preparazione dell'intonaco per la pittura ad affresco. Vitruvio nel “De architectura” scrive in proposito: “(...) riguardo ai colori accuratamente applicati sull'intonaco umido, essi non si staccheranno mai, ma resteranno sempre”. In realtà, secondo gli studiosi, nel caso delle pitture di Pompei non si tratta di veri e propri affreschi, perché non sono visibili i raccordi che delimitano le varie parti del lavoro e le tinte utilizzate sono instabili alle reazioni chimiche che avvengono nell'intonaco durante l'asciugatura dell'affresco. Si tratta quindi di una specie di decorazione a tempera, realizzata con pigmenti sciolti in calce idrata e saponificata, addizionata a materie grasse atte a neutralizzarne la causticità. Le fonti antiche sono molto chiare riguardo i colori utilizzati nelle pitture: Plinio suddivide i colori in due categorie, “colores floridi” e “colores austeri” ( i primi trasparenti, i secondi coprenti). I più preziosi tra questi ultimi sono il minio e il cinabro. Il minio, chiamato anche cerussa usta, è un pigmento rosso aranciato, di origine artificiale (protossido di piombo), ottenuto tramite la cottura del piombo in presenza di aria. Un tono di rosso più intenso e scuro è il cinabro, un pigmento di origine minerale (solfuro di mercurio), ricavato dal cenabrio, un minerale rintracciabile nelle miniere dell'Amiata in Toscana. Minio e cinabro, entrambi molto coprenti, erano mescolati per ottenere il no rosso intenso che prende il nome di rosso pompeiano.
Oltre alla calce idrata e saponificata usata come legante, i colori sono ulteriormente protetti dalla finitura encausticata, ossia lucidata tramite una stesura finale di uno strato di cera. Lo strato più superficiale dell'intonaco, quello a contatto coni colori, è realizzato con una leggerissima polvere di marmo e alabastro. Il risultato finale produce un effetto straordinariamente lucente e compatto, conservatosi sino ai giorni nostri. (M.@rt)




 
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LA STORIA DEI COLORI:
IL GIALLO






Cavallo selvatico
(Yellow Horse)
Pittura rupestre
18.000-16.000 a.C ca
Grotte di Lascaux
Perigord, Montignac, Dordogne, Francia



Uno dei primi colori utilizzati nell’arte fu il pigmento giallo ocra e tutte le sue varie sfumature, anche perché era ampiamente disponibile e semplice da impastare. Le ocre utilizzate dagli artisti della preistoria offrivano loro non solo dei rossi rugginosi, ma anche una specie di giallo naturale. Fin dall’antichità si ottenevano dei gialli più brillanti con composti sintetici di stagno, antimonio e piombo. Gli antichi egizi si dedicarono in modo strutturato e sistematico alla preparazione di colori per la pittura; sapevano come combinare il piombo con l’antimonio, e una forma naturale di questo composto giallo (l’antimonato di piombo) era usata anche come materiale per le opere d’arte.

Il nome significa semplicemente “pigmento d’oro” e gli egizi lo ricavavano macinando un raro minerale giallo. Si poteva trovare anche sulle pendici vulcaniche del Vesuvio, ed è per questo che è stata associato a Napoli: dal XVII secolo un giallo composto da stagno, piombo e antimonio era spesso chiamato “Giallo di Napoli” .
Il tono accesso, che ricorda la brillantezza dell’oro, fu molto apprezzato per tutta l’antichità, soprattutto quando si scoprì come ricavarlo dall’orpimento, un cristallo di solfuro di arsenico, dal quale si produceva un giallo puro e brillante, superiore per consistenza e intensità a qualsiasi ocra. Veniva utilizzato in pittura nell'antico Egitto come colore complementare del blu egiziano. Il nome deriva dai termini latini “aurum” e “pigmentum” perchè gli alchimisti del mondo antico pensavano, erroneamente, che il colore contenesse davvero dei frammenti del minerale prezioso. L'orpimento aveva un costo notevole e per questo motivo il suo impiego avveniva prevalentemente per realizzare dipinti dall'elevato valore simbolico. Nella tomba di Tutankhamon è stata trovata una piccola scatola di colori con pigmento di orpimento. L’orpimento è caduto in disuso completamente soltanto nel secolo scorso.

Nella Grecia antica il giallo e il rosso erano i colori dominanti e a Roma emblemi, raffigurazioni e decorazioni erano spesso in tono di rosso su sfondo giallo. I pigmenti che usavano erano ossidi di ferro (per ottenere quattro varietà di ocra gialla, che chiamavano “sil”), l’orpimento o “aurum pigmentum” (un cristallo di solfuro di arsenico, tossico, che ricavavano dalle miniere d’oro), e un pigmento giallo a base di piombo, chiamato “spuma argenti” perché ricavato dalle miniere d’argento.




Dea Roma (cosiddetta Dea Barberini)
affresco, IV sec. d.C.
1990 × 2400 cm.
Roma, Museo nazionale romano di Palazzo Massimo alle Terme


Si tratta di un frammento di un affresco, raffigurante la dea Roma o Venere; poiché fu esposto per la prima volta a Palazzo Barberini, gli fu dato il nome di Dea Barberini. Proviene da un ambiente scavato presso il Battistero di S. Giovanni in Laterano. Si tratta di una monumentale figura femminile, assisa su un trono riccamente decorato; sui braccioli sono raffigurati due cigni. La ricchezza degli abiti, degli ornamenti (collana, orecchini e bracciale) e degli attributi (scettro, scudo, ma non l'elmo che è frutto di un'arbitraria integrazione secentesca) consente di riconoscere in questa figura una dea, probabilmente Venere.

Altre metodi per ricavare un giallo simile suggerivano di mescolare gli ossidi di piombo e stagno, ma quando i pittori medievali italiani si riferiscono al “giallorino”, non si è certi se intendessero un pigmento di piombo-stagno o di piombo-antimonio; è molto probabile che i pittori non conoscessero la differenza. Nell’Europa del Medioevo e del Rinascimento il giallo ebbe alterne fortune, fino ad essere riscoperto come un colore dal valore spirituale.
L’orpimento era importato in Europa dall’Asia Minore e più tardi dalla Cina attraverso il grande centro commerciale di Venezia: alcuni orpimenti erano ottenuti artificialmente, dalle manipolazioni chimiche degli alchimisti.
Dal XVII secolo i dipinti olandesi cominciarono a utilizzare un pigmento noto come “giallo indiano”, importato dalle navi commerciali dell’Olanda; arrivava sotto forma di palline di un verde-giallastro sporco, brillante e lucido, con il gusto acre dell’urina.
Fino alla fine del XVIII secolo, i nomi dei pigmenti potevano riferirsi alla tonalità indipendentemente dalla composizione o dall’origine, o viceversa. Nel Medioevo, i pericoli dell’orpimento erano ben noti. L’artista italiano Cennino Cennini scrisse nel suo manuale “Il libro dell’arte”, alla fine del XIV secolo, che è “veramente velenoso”, e consiglia di “stare attenti a sporcarsi la bocca con esso”, perché nel composto chimico era presente il solfuro di arsenico.




Casa di Livia
Parete affrescata del tablino
30 a.C
Palatino, Roma


Iuliae Augustae: queste parole scritte su una tubatura di piombo rinvenuta durante gli scavi ottocenteschi hanno permesso di attribuire a Livia, terza e ultima moglie di Augusto, una ricca domus situata sulla sommità del Palatino. Costruita all’inizio del I sec a.C., quando il colle era disseminato di abitazioni private dell’aristocrazia senatoria, la casa fu ristrutturata intorno al 30 a.C. e decorata con gli affreschi ancora oggi in parte conservati. In quell’occasione fu probabilmente trasformata in un appartamento riservato a Livia all’interno del complesso abitativo augusteo”. La parete si presenta decorata come una scenografia teatrale, delimitata in alto dal cielo e ai lati dalla quinta che poggia su un podio, preceduta da due colonne centrali che tripartiscono la parete e che sorreggono una cornice. Al centro vi è un’edicola che raffigura il mito di Io e Argo. Altre colonne in secondo piano servono a rendere chiara la prospettiva architettonica. Sfingi, candelabri e figure alate arricchiscono ulteriormente la scena e un calice di foglie decora la colonna scanalata.

Dal XVIII secolo era comune riferirsi a questo orpimento artificiale come giallo del re. Il colore si otteneva anche da piante gialle come la saldatura o lo zafferano, che però sbiadivano facilmente, o composti di stagno, piombo e antimonio con una qualità piuttosto pallida. Nel 1797 il chimico francese Nicolas Louis Vauquelin scoprì di poter produrre un materiale di un giallo vibrante attraverso l’alterazione chimica di un minerale della Siberia chiamato “crocoite”.

Questo materiale era di per sé rosso, poiché conteneva del piombo, ma Vauquelin scoprì un altro elemento metallico che chiamò cromo; ricostituì questo composto artificialmente in laboratorio e scoprì che poteva assumere il colore giallo brillante e altri vari colori, da un pallido giallo primula a una tonalità più profonda, fino all’arancione.
Il pigmento era costoso e tale rimase anche quando furono scoperti depositi di crocoite anche in Francia, Scozia e Stati Uniti. Il cromo poteva fornire anche i verdi, in particolare il pigmento che divenne noto come viridiano.
Nel 1817, il chimico tedesco Friedrich Stromeyer notò che la fusione dello zinco produceva un sottoprodotto di colore giallo nel quale scoprì un altro elemento, che prese il nome dal termine arcaico dello zinco, cadmia: lo chiamò cadmio. Inoltre scoprì che se si combinava con lo zolfo generava un giallo particolarmente brillante o, con qualche modifica al processo, un arancione. Verso la metà del secolo, questi materiali vennero venduti agli artisti come giallo cadmio e arancione cadmio.



Vincent van Gogh
Campo di grano con mietitore
1889 (fine giugno - inizi settembre)
olio su tela - 72 x 92 cm.
Otterlo, Kröller-Müller Museum


Van Gogh ha saputo declinare in tutte le possibili accezioni il colore giallo. Dai papaveri ai campi di grano, ha regalato a questa tonalità un’espressività senza precedenti. L’opera “Campo di grano con mietitore” è un’esplosione di luce, un sole talmente pieno e abbagliante da sentirne quasi il calore. Ma nonostante l’impressione positiva che trasmette la tela, nel 1889, l’anno prima della morte, Van Gogh pervaso dal pessimismo scrive al fratello Theo: “In quel mietitore, una figura vaga che sgobba come un mulo per finire il lavoro, vidi allora l’immagine della morte, nel senso che l’umanità è il grano che viene mietuto. Così se vuoi è il contrario del seminatore che ho già provato (a dipingere) un po’ di tempo fa. Ma in quella morte non si nasconde nulla di triste, avviene in pieno giorno, sotto un sole che immerge tutto in una luce d’oro.” (M.@rt)


 
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I COLORI SINTETICI





Frédéric Bazille
Lo studio di Rue La Condamine
(L'atelier de Bazille)
1870
olio su tela -128,5 x 98 cm
Parigi, Musée d’Orsay


Il passaggio dalla realizzazione artigianale dei pigmenti artistici alla loro produzione industriale è un fatto estremamente importante per la storia europea dell’Ottocento. ciò avviene quando gli scienziati attribuiscono una formula chimica alle singole sostanze, riuscendo quindi a riprodurle in laboratorio. Fra la fine del Settecento e i primi dell’Ottocento, isolati dai materiali di provenienza, vengono individuati nuovi elementi chimici, lo zinco, il cobalto, il cromo e il cadmio, usati anche nella sintetizzazione dei coloranti. Se si esclude il blu di Prussia, realizzato nel 1704, il bianco di zinco nel 1782 è il primo pigmento sintetico, che sostituisce il velenoso bianco di piombo, impiegato in pittura per le sue proprietà coprenti. Il bianco di zinco, ideale nelle tempre ad acqua e ad acquerello, era però inadatto per la pittura a olio, per la quale si continua ad utilizzare l’antico pigmento fino al 1916, quando viene sostituito dal bianco di titanio. Il primo colore prodotto industrialmente è però il blu di cobalto, ottenuto nel 1802 dal chimico francese Louis Jacques Thénard, che studiando l’ossido di cobalto azzurro usato nelle manifatture di Sévres, riproduce un composto da poter adoperare come pigmento pittorico. Il blu cobalto diviene dunque il sostituto del costosissimo azzurro oltremare naturale, ottenuto da lapislazzulo.

La gamma di azzurri si allarga ulteriormente con l’oltremare artificiale o francese (1828) e con il blu ceruleo (1860). Gli studi si concentrano anche sui verdi, tra i quali il verde di Schweinfurt, creato nel 1814 dal chimico tedesco Justus von Liebig, che lo ottiene sciogliendo il verderame in aceto, aggiungendo una soluzione calda di triossido di arsenio. Questa tinta, brillante e stabile, viene commercializzata a partire dal 1822 con il nome di verde smeraldo o verde Veronese. grazie agli studi di Louis Nicolas Vauquelin, chimico e farmacista francese, intrapresi fin dal 1809 sul cromo, si ottiene una notevole gamma di pigmenti gialli, arancioni e rossi così che dal 1870si diffonde il giallo cadmio, mentre per il rosso cadmio si deve attendere il 1910.

Per i pigmenti rossi assumono importanza la mauveina (1856) e l’ alizarina (1856 circa), coloranti organici simili alle costose lacche di cocciniglia e di garanza. Sono disponibili inoltre pigmenti violetti, ottenuti sovrapponendo una velatura di lacca rossa su una stesura densa di oltremare naturale. a partire dal 1868 vengono messi in commercio infatti il violetto di cobalto e il violetto di manganese.



Lo studio di Rue La Condamine




Nato in una famiglia importante a Montpellier, Bazille si trasferì a Parigi nel 1862 per studiare medicina, prima di dedicarsi alla pittura. Mentre era nello studio di Charles Gleyre, divenne amico di Monet, Renoir e Sisley che condividevano la sua ammirazione per Manet.
Lo studio di Bazille lascia intravedere le relazioni e l'intimità che univano questi artisti precursori. La scena è ambientata nello studio di rue de la Condamine che Bazille condivise con Renoir dal 1° gennaio 1868 al 15 maggio 1870. A destra, al pianoforte, il musicista Edmond Maître; sopra di lui, una natura morta di Monet ricorda che Bazille lo aiutò economicamente, acquistando la sua opera.




Emile Zola, sulle scale, parla con Renoir, appoggiato a un tavolino. Bazille è al centro con la tavolozza in mano: mostra la Veduta di Villaggio a Manet (col cappello) e a Monet. Pare che la figura di Bazille sia stata dipinta da Manet, come scrisse in una lettera al padre: “Manet mi ha dipinto”; si può infatti leggere lo stile vigoroso di Manet nella figura alta e snella del giovane.




Circondando Manet e i suoi ammiratori con alcuni dei suoi quadri rifiutati dal Salon, come ”La toilette” (Montpellier, Musée Fabre ) sopra il divano, e ”Pescatore con rete” (Zürich, Fondation Rau) più in alto a sinistra, e ancor più realisticamente il “Paesaggio con due persone” di Renoir rifiutato al Salon del 1866 (la grande tela incorniciata a destra della finestra), Bazille esprime la sua critica all'Accademia e afferma la sua visione dell'arte. Lo studio di rue La Condamine era un vero e proprio centro culturale, dove pittori, musicisti e letterati si riunivano per scambiarsi le proprie opinioni. La sua morte in combattimento qualche mese dopo, durante la guerra franco-prussiana, fece di quest'opera un commovente testamento. (M.@rt)





 
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LA STORIA DEI COLORI:
L'INCHIOSTRO






Tommaso da Modena
Sala del Capitolo dei domenicani
1352
Treviso, Convento di San Nicolò


Oggigiorno l’inchiostro è una miscela di sostanze chimiche prodotte industrialmente, ma nel passato, come tutti i colori veniva estratto da sostanze coloranti di origine naturale. L’inchiostro è una sostanza fluida di colore scuro, costituita da una parte solida, il pigmento, da un fissante e da una parte acquosa. Fin dall’antichità il nero era ricavato da vari prodotti carboniosi, il più diffuso era il nero fumo, chiamato anche atramento. Tale termine che si ritrova in Plinio, in Vitruvio e nella trattatistica medievale, indicava l’inchiostro per scrivere, la cui base era il nerofumo (detto anche nero di fiamma), una polvere leggera e soffice di un nero profondo. Esso si ricavava in due modi: dalla combustione degli oli delle lucerne, condensando il fumo su una superficie fredda, oppure dalla combustione di radici di conifere o del residuo della distillazione della trementina. Alcune ricette consigliavano di bruciare ulteriormente queste polveri finissime per eliminare completamente le componenti grasse.

Oltre al nerofumo nel Medioevo si usavano due varietà principali di inchiostro: il carbone e i cosiddetti inchiostri metallo-gallici. Questi ultimi, utilizzati fin dal XII° secolo, si ricavavano dalle galle prodotte su diverse specie di quercia. Le galle sono escrescenze provocate dalla puntura di alcuni insetti, che vi depongono le uova fecondate: questi “tumori delle piante” hanno un tessuto spesso duro, dall’aspetto spugnoso, particolarmente ricco di tannino. Dopo la raccolta, le galle vengono frantumate e fatte bollire in acqua, per estrarne il tannino; il liquido ricavato viene successivamente mescolato con nerofumo e limatura di ferro. Questo composto, di un nero intenso e uniforme, aveva però il difetto di ossidarsi; inoltre, a causa della presenza di acido tannico e ossido di ferro, provocava anche la corrosione dei supporti.



Sala del Capitolo dei domenicani




Tommaso da Modena
Ritratti di illustri domenicani (dettaglio)


Tommaso da Modena, il cui vero cognome è Barisini, nacque a Modena tra il 1325 e il 1326 da Barisino de’ Barisini anch’egli pittore. Nel 1349, giovanissimo, compare con il titolo di “pictor” nella Marca Trevigiana, dove opererà per alcuni anni. Nel 1352 affresca le colonne della chiesa di S. Nicolò raffigurando i santi San Gerolamo, San Giovanni Battista e Sant'Agnese, splendida immagine di vergine in abiti trecenteschi.



A lato della chiesa monumentale, nella serenità dei chiostri del Seminario Diocesano, si apre la Sala del Capitolo dei Domenicani, anch’essa magnificamente affrescata da Tommaso da Modena con i ritratti di quaranta illustri frati domenicani tra cui studiosi, vescovi, teologi, un papa e il cardinale francese Hugues de Saint-Cher, che inforca un paio di occhiali, prima rappresentazione pittorica di questa protesi.




Gli affreschi, alti circa 150 cm, sono dipinti appena sotto il soffitto ligneo intorno a tutta la sala. L’originalità di Tommaso da Modena sta nell’aver colto i personaggi non in atteggiamento di preghiera, ma mentre sono intenti alle loro attività quotidiane di studio e di copiatura dei testi sacri. L'artista li descrive nei tratti fisionomici con grande capacità di osservazione, facendo trasparire in modo estremamente realistico i loro stati d’animo, i loro pensieri, i loro umori. (M.@rt)




Sant’ Alberto Magno
altezza 150 cm.





Hugues de Saint-Cher
altezza 150 cm.



 
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LA STORIA DEI COLORI

LA SANGUIGNA





Leonardo da Vinci
Autoritratto (Ritratto di uomo)
1515-1516 circa
Sanguigna su carta bianca ingiallita con minuscole ossidazioni
33,3 x 21,3 cm.
Biblioteca Reale di Torino


La sanguigna è un’ocra rossa usata per creare pastelli da disegno, particolarmente popolare nel Rinascimento e nell'età barocca. Il colore, simile al sangue, si ricavava da un tipo di argilla ferruginosa,
l’ematite, che deriva dal termine greco haimatites lithos, cioè pietra rosso sangue. La polvere di ematite fa parte delle cosiddette terre o ocre ed è forse il pigmento più antico usato in pittura, nella tintura dei tessuti e nel disegno. La miscela di ematite veniva modellata per formare bastoncini appuntiti con i quali era possibile tracciare segni sulla carta. Oltre alla sanguigna, reperibile in natura, fin dal IV° secolo era ottenuta anche grazie alla calcinazione dell’idrossido di ferro (ocra gialla).

Il disegno eseguito con la sanguigna si diffuse soprattutto Rinascimento, in particolare a Firenze; Leonardo e i suoi seguaci lombardi furono i primi a farne un uso sistematico. La sanguigna poteva essere usata insieme alla matita nera; per facilitare l’uso di questi bastoncini di pietra colorata e friabile ed evitare di sporcare il disegno, un tempo si usava il “matitatoio”, un tubo di metallo o di canna, nel quale erano inserite, lasciando emergere solo la punta. Questo particolare ocra si può trovare in diversi gradi di compattezza, così da produrre tratti di diverso spessore e intensità: più chiari e delicati con le argille più dure, più caldi e intensi con quelle più morbide.

Queste differenze erano ottenute anche grazie alla diversa pressione esercitata dal disegnatore sulla carta. Il pigmento è anche facilmente “acquerellabile”: a volte gli artisti lo diluivano passandovi sopra un pennello bagnato, per creare un effetto più morbido e sfumato. Nel Seicento venne abbinato alla sanguigna un acquerello dello stesso colore, arricchendo così le possibilità di modulazione luministica. La scuola francese porta ad altissimi livelli l’uso di questa tecnica; in particolare nel Settecento con Jean-Honoré Fragonard e Hubert Robert.



Autoritratto di Leonardo




Il “Ritratto di uomo” è ampiamente, anche se non universalmente, accettato come autoritratto di Leonardo da Vinci, che si pensa lo abbia disegnato all’età di circa 60 anni. “Leonardus Vincius Ritratto di se stesso assai vechio” (Il Ritratto di lui stesso assai vecchio) è la scritta presente sul margine inferiore, aggiunta da mano successiva. L'immagine ritrae un uomo anziano dallo sguardo corrucciato: sul volto compaiono delle rughe profonde, i capelli sono lunghi, la folta barba è disegnata con grande precisione e sul cranio l'artista ha creato un effetto calvo, tracciando solamente poche linee. Giorgio Vasari scrisse che “Leonardo non lasciò mai di disegnare”: sono infatti moltissimi i disegni dell'artista conservati nelle maggiori biblioteche e raccolte nel mondo.

L'“Autoritratto” di Leonardo e altri dodici suoi disegni sono conservati nel caveau della Biblioteca Reale di Torino. L’opera ha da sempre suscitato grande interesse e fascino a partire dalla sua effettiva identità, dalla sua provenienza e dal suo autore. Sono sorte numerose perplessità rispetto alla scritta situata a sinistra del recto del foglio. Non è nota, infatti, la sua datazione, ma soprattutto l'artefice che la redasse, poiché la grafia non corrisponde a quella di Leonardo.

I disegni di Leonardo furono uno strumento utilizzato per le sue indagini scientifiche rivolte a numerosi campi del sapere. Inoltre, sebbene utilizzasse spesso strumenti monocromatici come l'inchiostro e la sanguigna, dimostrano l'abilità di Leonardo nel creare un senso di profondità e un realismo straordinario. Le sue figure compaiono sulla carta con una leggerezza e raffinatezza, attraverso i delicati passaggi tra luce e ombre.

“Chi osserva il disegno di Torino anche solo in riproduzione, non può fare a meno di riflettere sulla straordinaria potenza espressiva alla quale contribuisce lo stesso formato della carta, che è infatti maggiore di quello di qualsiasi altro ritratto disegnato da Leonardo” . (Carlo Pedretti, storico dell’arte). Recenti studi hanno dimostrato che lo stile con cui è realizzato il disegno corrisponde a quello di altri disegni del periodo finale della vita di Leonardo, come la serie del “Diluvio”, e altri del soggiorno francese. (M.@rt)




 
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L’ACQUERELLO




Joseph Mallord William Turner
Eu from the North
1845
grafite e acquarello su carta
(graphite and watercolour on paper)
23,1 × 32,5 cm.
Londra, Tate Gallery

Questo schizzo rappresenta uno di una serie di tre vedute di Eu da un’alta collina a nord della città. Una complessa stesura di acquarelli descrive la città in mezzo alla valle di Bresle e, oltre, il mare sotto un liquido cielo azzurro. Tra i punti di riferimento visibili spicca la massa blu scuro della “collegiata” medievale di Notre-Dame a destra e Saint-Laurent a sinistra. Verso il centro a destra c’è la lunga facciata del castello d’Eu, residenza estiva del re Luigi Filippo, il cui legame con Turner e con questo viaggio finale è illustrato nell’introduzione del tour. In primo piano in basso a destra, Turner ha inserito una nota per fargli notare il contadino e il suo cane che camminano in un campo di grano.

Per acquerello si intende una pittura ad acqua, in cui i pigmenti colorati, macinati finissimi, vengono mescolati all’acqua per essere stesi solitamente su supporti di pergamena, di carta, ma anche di porcellana e vetro. L’acqua però non scioglie completamente le polveri e non è sufficiente per fissarli definitivamente al foglio. Per evitare la polverizzazione e la perdita dei tratti, si aggiungono sostanze agglutinanti come la gomma arabica, cioè con resina d’acacia diluita in acqua pura o distillata, integrata, talvolta, con l’aggiunta di piccole parti di miele, zucchero o glicerina.



Anticamente vennero usati come acquerelli, vari tipi di inchiostro, come il bruno di seppia oppure polveri derivate da ossidi metallici, terre colorate e pietre.
Nell’antico Egitto, in Cina e in Giappone era noto e utilizzato l’uso dei colori stemperati in acqua. In Europa il termine acquerello, già in uso alla fine del secolo XIV, indicava in origine un procedimento di ombreggiatura di schizzi, disegni o bozzetti, anche a soggetto architettonico: il dipingere con colore steso a velature in soluzioni acquose serviva infatti per donare ai dipinti una particolare tonalità, per completare il chiaroscuro o per valutare l’esito cromatico nei disegni preparatori di opere maggiori, per tinteggiare i disegni d’architettura e per illustrare libri di argomento botanico e zoologico.



La caratteristica propria dell’acquerello è data dal fatto che tanto più gli strati di colore, stesi a velature, risultano acquosi e leggeri, tanto più contribuiscono a rendere trasparente il soggetto raffigurato; i toni chiari e le luminosità più intense si ottengono per trasparenza mettendo in evidenza il bianco e il chiaro del supporto pittorico.
Non tutti i colori idonei per la pittura ad olio lo sono egualmente per l’acquarello, per esempio il bianco d’argento e il verde di cobalto, mentre il bianco di bario, l’indaco, il seppia, il giallo indiano sono adatti per l’acquerello ma non per l’olio.



Nell’acquerello non si usa il colore bianco; per ottenere una zona chiara si lascia trasparire la carta, generalmente bianca. Per scurire i colori, non si usa mai il nero, che li rende sporchi, ma il bistro, che si ottiene mescolando un po’ di giallo di cadmio al blu oltremare, più il rosso carminio. Con il bistro diluito in vari modi si ottengono varie tonalità di grigio molto utile nella fase iniziale, appena completato il disegno a matita, passando il bistro nelle zone di ombra per conferire profondità.




Albrecht Dürer
La Vergine col Bambino e una moltitudine di animali e piante
(Mary among a Multitude of Animals)
1503 circa
acquarello, penna e inchiostro bruno-nerastro
leggermente squadrato a matita nera
31,9 x 24,1 cm.
Albertina Museum, Vienna

L’immagine devozionale della Vergine col Bambino si contrappone a un racconto epico di scene, in un paesaggio panoramico tipico dell’arte olandese. Gli episodi della storia della Natività di Cristo si svolgono nei minimi dettagli in un’ambientazione rappresentata in modo sorprendentemente realistico. Rappresentando simbolicamente gli attributi associati alla Vergine e al Bambino, la flora e la fauna esprimono insieme il potere divino della creazione e il ruolo di Cristo come “Signore del mondo”. Lo scopo originale di questo disegno è sconosciuto, anche se la presenza di linee squadrate in gesso leggermente applicate suggerisce che doveva essere reso in un’altra tecnica, forse da un copista successivo.

Le notizie più sicure di questa tecnica all’acqua risalgono al 1400. I primi acquerelli in senso moderno furono quelli di Albert Dürer che lo usò per aggiungere un tocco di colore ai suoi disegni a penna e agli schizzi di viaggio. Nel Seicento i pittori fiamminghi ne sfruttarono la caratteristica trasparenza per rendere i particolari e le atmosfere degli ambienti.

Nel primo Settecento l’acquerello divenne una forma artistica propria ed autonoma, quando artisti come Constable e Turner iniziarono ad utilizzarlo come tecnica privilegiata per registrare gli infiniti cambiamenti della luce nella natura e nelle cose: il suo tratto incorporeo e allusivo divenne uno strumento ideale in mano ai pittori romantici, ma anche utile per la pittura en plein air del successivo periodo impressionista.




Joseph Mallord William Turner
Venezia, La foce del Canal Grande
Iscrizione in grafite, verso, in basso a sinistra:
“JMW TURNER : VENICE , THE MOUTH OF THE GRAND CANAL”
1840 circa
acquerello su carta velina media, leggermente ruvida, color crema
22,2 x 318 cm.
Yale Center for British Art, New Haven, Connecticut


A determinare inoltre la fortuna dell’acquerello fu, alla fine del Settecento, oltre all’immediatezza dell’esecuzione, anche la moda di decorare mobili, paraventi od oggetti di uso quasi quotidiano ed il diffondersi della pittura nell’educazione delle ragazze dei ceti borghesi. Gli artisti olandesi realizzarono i primi paesaggi su carta utilizzando colori diluiti in acqua e resina; gli Inglesi perfezionarono e usarono largamente l’acquerello per rappresentare vedute di città, di paesaggi marini e di nature morte. In Francia fu usato alla metà del 1700 da Fragonard, Watteau e Boucher. Nell’Ottocento Delacroix lo usava per schizzare e Corot per la ricerca degli effetti di luce. (M.@rt)




John Constable
Fattoria e chiesa a Houghton, Sussex
(A farmhouse and church at Houghton, Sussex)
1834
matita e acquerello su carta - 14 x 23,5 cm.
Victoria and Albert Museum, Londra

Tradizionalmente, l’acquerello è costituito da pigmenti trasparenti accumulati in delicati lavaggi su carta leggera. Al contrario, le immagini di Constable della campagna del Sussex sono vigorose e sperimentali e l’artista inizia ad utilizzare pigmenti opachi. Sperimenta anche pennelli a pelo ruvido (di pelo di maiale o simile) per produrre dettagli spessi e ombrosi. Usa anche l’estremità del manico del suo pennello per incidere e abradere la carta, rimuovendo la vernice e apportando sottili tocchi di luce alle aree scure, come si può vedere sul tetto della fattoria in “Una fattoria e una chiesa a Houghton, Sussex” .


 
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view post Posted on 9/2/2023, 10:49     +6   +1   -1
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IL DRIPPING E I COLORI ACRILICI





Jackson Pollock
Full Fathom Five
1947
Oil on canvas with nails, tacks, buttons, key, coins, cigarettes, matches, etc..
129.2x76.5
The Museum of Modern Art, New York


La tecnica pittorica del dripping consiste nel versare o “gocciolare” (to drip) i colori su una tela o su un cartone disposti per terra direttamente dal tubo o dal barattolo, in una disposizione affidata prevalentemente al caso e abolendo la stesura con il pennello. Nel 1943 fu il surrealista belga Max Ernst, già inventore dell’assemblage e del frottage, a sperimentare il dripping, ottenuto facendo oscillare con una corda un contenitore di pittura dal fondo forato, in modo che sul foglio o sulla tela comparissero sgocciolature casuali interpretabili come immagini secondo la fantasia dell’osservatore. L’Espressionismo Astratto nato nel secondo dopoguerra a New York, dove sono presenti oltre a Ernst artisti come Jackson Pollock, Mondrian, Léger, Tanguy, Hofmann e il poeta Breton, contribuì a diffondere negli Stati Uniti le teorie della pittura come trascrizione automatica dell’inconscio, in modo da creare opere che rappresentino autenticamente l’io dell’artista.



Per i surrealisti la pittura automatica serviva a proiettare immagini che trasfigurano il reale; ora però si preferisce abbandonare qualsiasi forma precostituita per approdare a una pittura casuale, fatta di linee, gocce, spruzzi di colore.

Questo modo di dipingere, genericamente indicato con il nome di “Espressionismo astratto”, è sintetizzato nel termine di “Action Painting” (pittura d’azione). La tecnica si applica generalmente su vaste superfici e comporta la partecipazione fisica del pittore che si muove in continuazione in modo rapido, non solo con la mano e il braccio, ma con tutto il corpo: l’artista “entra” nella tela, anche camminando su di essa e dipinge come in trance, per raggiungere l’automatismo puro.

Jackson Pollock, protagonista della “Action Painting” fece del dripping il segno caratteristico di gran parte delle composizioni realizzate dal 1947 in poi: cominciò a sperimentare tutte le potenzialità di questa tecnica soprattutto nella sua casa di Long Island acquistata grazie ad un prestito di Peggy Guggenheim.

Nel suo studio la superficie da dipingere, tela o cartone, talvolta di enormi dimensioni, veniva disposta a terra lasciando sufficiente spazio per girarvi intorno. Attraverso movimenti più o meno rapidi del braccio, e coinvolgendo tutto il corpo, l’artista faceva scendere, “liberava” da un pennello, da un bastone o direttamente dal barattolo, il colore, spesso smalto molto liquido, sfruttando il caso e producendo una pittura molto particolare.

Per questo tipo di pittura, la maggior innovazione tecnica è l’introduzione dei colori acrilici, apprezzati per le loro infinite possibilità materiche e per la velocità di essicazione. L’acrilico, a volte mescolato a pigmenti metallici, era il materiale ideale per esprimere il dinamismo nelle sue opere. Le grandi tele, sulle quali a volte fissava oggetti casuali, come bottoni, chiodi, sigarette e monete, non poggiate su di un cavalletto ma poste orizzontalmente, divenivano il luogo della performance dell’artista. Il risultato di questo lavoro di ispirazione immediata era una tessitura fitta e multicolore, dove i colori chiari venivano sgocciolati per ultimi e illuminavano un groviglio più scuro con effetti quasi fiammati. (M.@rt)


 
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