Mauthausen per ogni pidocchio cinque bastonate, 27 gennaio, il Giorno della Memoria

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La caccia agli ultimi aguzzini di Auschwitz

Il Centro per l'individuazione dei crimini nazisti vuole aprire
l'ultimo grande processo contro gli ultimi criminali nazisti rimasti in vita




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La Germania sta dando la caccia a 50 aguzzini di Auschwitz ancora in vita. Sulla base del caso gui-da di John Demjanjuk ora gli inquirenti hanno ricostruito prove a sufficienza per istruire un nuovo processo.

50 AGUZZINI
- A 68 anni dal crollo del nazismo gli inquirenti tedeschi sono riusciti ad identificare 50 ex guardiani del campo di concentramento di Auschwitz che sono ancora in vita. Westdeutsche Allgemeine Zeitung (Waz), uno dei maggiori quotidiani tedeschi, ha rivelato oggi la nuova scoperta fatta dal “Centro per l’individuazione dei crimini nazisti”. L’istituzione di Ludwisburg ha infatti compilato un elenco di 50 presunti boia del campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau, che nelle prossime settimane saranno incriminati per concorso in omicidio. Il procuratore generale Kurt Schrimm ha confermato che il suo ufficio è in possesso dei dati riguardanti l’identità e il luogo di residenza dei 50 ex aguzzini, che vivono in varie località sparse per tutta la Germania.

John-Demjanjuk-540x304

L’età dei sospettati si aggira intorno ai 90 anni, e le condizioni di salute di alcuni sarebbero anche incerte. Il procuratore capo del Centro per l’individuazione dei crimini nazisti ritiene possibile che sia aperto un processo, anche in mancanza di testimonianze che possano confermare una diretta partecipazione degli accusati all’Olocausto degli ebrei occorso quasi settant’anni fa.

CASO GUIDA - Le speranze del procuratore Kurt Schrimm risiedono soprattutto nel processo intentato a John Demjanjuk era stato condannato a 5 anni di carcre nel 2011 per aver contribuito all’uccisione di oltre 20 mila persone. Il “boia di Sibibor” era stato processato a molti decenni dal compimento dei fatti, e nonostante l’assenza di testimonianze dirette era stato punito con grande severità. Demjanjuk, un soldato dell’Armata Rossa diventato boia nazista dopo esser stato catturato dall’esercito tedesco, era stato ritenuto colpevole dei massacri compiuti nel campo di sterminio di Sibibor, in Polonia, dove avevano trovato la morte oltre 300 mila ebrei.

La condanna di Demjanjuk era arrivata dopo un lunghissimo iter di ricerche sui suoi crimini. Il “boia di Sibibor”, trasferitosi negli Stati Uniti dopo la fine della II guerra mondiale, era stato prima condannato a morte da un tribu-nale israeliano, per poi esser assolto per un presunto scambio di persona. La Germania però non si era data per vinta, e dopo anni di ulteriori ricerche il criminale nazista era stato assicurato alla giustizia. Demjanjuk è poi morto un anno dopo la sua condanna, all’età di 91 anni.

COLPA GRAVE
- Il boia di Sibibor era stato condannato per aver partecipato all’apparato di di-struzione sistematica allestito dai nazisti. Questa era stata la base della motivazione del tribunale di Monaco di Baviera, che era stata sufficiente per spiccare una pena significativa. A differenza che in passato ogni attività in un campo di concentramento è diventata sufficiente per poter condannare una persona per concorso in omicidio.

Il Centro per l’individuazione dei crimini nazisti ha finora condotto 7845 procedimenti. Oltre ai 50 aguzzini, gli inquirenti di Ludwigsburg sono sicuri che esistano altri colpevoli nascosti all’estero. In questo momento Schrimm ha confermato che le indagini si stanno concentrato sui documenti che certifichino le migrazioni verso il Brasile. Auschwitz Birkenau è stato il campo di sterminio dove hanno trovato la morte il maggior numero di persone uccise dai nazisti. 900 mila ebrei sono stati eliminati nelle camere a gas, mentre altre 200 mila sono perite per fame o per mano delle SS.


KZ-Auschwitz-Birkenau
Fonte




 
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Le lacrime di Petro Mischtschuk :
il sopravvissuto 87enne torna a Buchenwald




In occasione delle celebrazioni per il 68esimo anniversario della liberazione di Buchenwald, nella Germania centrale, il sopravvissuto ucraino Petro Mischtschuk è tornato nell'ex campo di concentramento. L'anziano si è commosso ripercorrendo gli spazi della struttura, oggi diventata un museo della memoria.




 
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Tears of a concentration camp survivor
on 68th anniversary of Buchenwald liberation
where Nazis killed 56,000 men



Ceremony held for anniversary of liberation outside Weimar, Germany. At least 56,000 men, including 11,000 Jews, died there from 1937-1945. Around 250,000 people from across Europe were kept in Buchenwald. Forced labour source for Nazis who carried out medical experiments


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Emotional: Former Nazi concentration camp survivor Petro Mischtschuk, 87,
cries while holding roses in his hand during a commemoration for the 68th anniversary
of the liberation of Buchenwald in Germany



With tears in his eyes as he holds roses in his left hand, Petro Mischtschuk poignantly stands on the grounds of a Second World War concentration camp where more than 50,000 people lost their lives.
The 87-year-old Ukrainian survivor of the appalling Buchenwald yesterday laid flowers at a ceremony marking the 68th anniversary of the liberation of the camp outside Weimar, eastern Germany.
Jews, non-Jewish Poles and Slovenes, religious and political prisoners, Roma and Sinti, Jehovah's Witnesses, criminals, homosexuals, and prisoners of war died in the camp between 1937 and 1945.

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Survivor: Former detainee Wiktor Karpus, from Kiev, lays down a white rose
at the memorial site for the Buchenwald concentration camp
near Weimar in central Germany yesterday




Some 21,000 prisoners were freed by U.S. forces in April 1945 - but 28,000 were evacuated by the Germans in the days prior to the liberation, a third of whom died from exhaustion or being shot.
Around 250,000 people from across Europe were kept in Buchenwald from when it opened in July 1937 until the liberation on April 11 in 1945, according to the U.S. Holocaust Memorial Museum.
It was one of the largest concentration camps in Germany, although women were not taken there until late 1943. It was surrounded by an electrified barbed-wire fence, watchtowers and sentries.
Most of the early inmates were political prisoners, but following the Kristallnacht attacks in 1938 almost 10,000 Jews were sent to Buchenwald and subjected to astonishingly cruel treatment.


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Roses laid: More than 50.000 prisoners - Jews, non-Jewish Poles and Slovenes, religious and political
prisoners, Roma and Sinti, Jehovah's Witnesses, criminals, homosexuals, and prisoners of war - died there



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Commemorative: A white rose lies on a memorial stone at the site of Buchenwald concentration camp




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Remembrance: A red carnation on the gate of the memorial site
for Buchenwald concentration camp



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In respect: Mr Mischtschuk lays flowers during a ceremony
to mark the anniversary of the camp's liberation



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Walking away: Mr Mischtschuk cries after laying down a rose during commemoration ceremonies yesterday



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Never forgotten: Mr Mischtschuk (left) lays flowers during a ceremony
marking the anniversary of liberation




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Memories: Mr Karpus stands in observance during a ceremony marking
he 68th anniversary of the liberation




Medical experiments were carried out on inmates from 1941 - some of which in-volved testing the effectiveness of vaccines and attempting to ‘cure’ homosexuali-ty through hormonal transplants.
There were 112,000 prisoners there by February 1945 and it became an impor-tant source of forced labour for the Nazis, who opened a rail siding connected to enable the movement of war supplies.
The SS shot prisoners in the stables and hanged others in the crematorium. Shocking scenes were witnessed by U.S. forces when they entered the camp in April, finding starving survivors and corpses.
It is thought the SS killed at least 56,000 male prisoners at Buchenwald, 11,000 of whom were Jews.


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Free: Inmates of the concentration camp Buchenwald near Weimar, Germany,
march to receive treatment at an American hospital after the camp is liberated
by General Patton's 3rd U.S. Army troops, in April 1945

Source






Edited by Milea - 15/4/2013, 20:06
 
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Francesco Lotoro: “Salvo la
musica dei campi di concentramento”


"Ci hanno lasciato dei testamenti, la memoria è un dovere"



Music from the Camps: il musicista di Barletta da 24 anni raccoglie spartiti e documenti sulla musica scritta nei Lager. La Musikstrasse ha prodotto un cofanetto di 24 cd con questo materiale di grande interesse storico e musicale, una vera e propria "Enciclopedia della musica concentrazionaria". ”Vorrei creare un centro studi”; la sua iniziativa ha conquistato una pagina di Le Monde


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Quattromila opere sono già state trascritte su pentagramma, ma ce sono ancora tredicimila da decifrare. Si tratta di musicassette, fotografie e trascrizioni arrangiate di musica composta nei campi di concentramento nazisti, in quelli giapponesi di Manciuria o semplicemente nelle prigioni politiche di mezza Europa, che Francesco Lotoro sta cercando di salvare.



Lotoro è un ebreo di Puglia, responsabile culturale della comunità ricostituita a Trani nel 2004 partendo dalla sinagoga di Scolanova.
Lui la chiama «musica composta in cattività»
, perché non è solo musica scritta da ebrei vissuti nei lager, ma da chiunque sia vissuto in stato di detenzione tra il 1933 e dopo il 1945, cioè anche dopo la fine della seconda guerra mondiale. A questo lavoro Lotoro si dedica da 24 anni, girando per archivi della Shoà, biblioteche, case private e qualunque altro luogo dove questa musica è ancora conservata in Europa, Stati Uniti e Israele. Lotoro ha conquistato anche una pagina di Le Monde.

“Di notte trascrivo le opere, di giorno le studio”
, spiega il musicista barlettano. Un lavoro immane che, oltretutto, lui autofinanzia. «Mai avuto un aiuto nemmeno dalla comunità ebraica italiana, che in questo momento ha altre priorità», dice. «Gli unici aiuti mi sono arrivati dalla Regione Puglia, attraverso l’assessorato al Mediterraneo. È grazie a questi contributi che ho potuto realizzare il primo volume dell’enciclopedia Thesaurus musicae concentrationariae, che contiene quaranta partiture in quattro lingue e allegato anche un disco con la musica incisa».

Questo è solo il primo passo per rendere «fruibile» una musica che, diversamente, andrebbe perduta. Il volume, per ora, viene donato da Lotoro a studiosi, biblioteche o altri enti che abbiano un qualche interesse nel settore. Per il resto la musica già salvata è custodita nella sua casa di Barletta, nella zona industriale della città. «Purtroppo non esiste un archivio fruibile a tutti – prosegue il musicista ebreo – ma continuo a inseguire il sogno che questo accada. E, spero, che questo si possa realizzare a Barletta, cui sono legato per ovvie ragioni, o a Trani, che sarebbe il luogo ideale in quanto culla dell’ebraismo».



Di un archivio della musica concentrazionaria Lotoro ha già parlato all’amministrazione comunale di Trani, la stessa che di recente ha rinnovato la concessione (in comodato d’uso gratuito) della sinagoga alla comunità. E sempre con il Comune, Lotoro ha cominciato a parlare di università ebraica. In attesa che questi sogni diventino realtà, il lavoro del musicista si svolge tutto nella sua casa.

Qui ha recuperato persino la musica scritta sulla carta igienica da Rudolf Karel, prigioniero politico della resistenza polacca. «In quanto detenuto per motivi politici – spiega Lotoro – Karel non avrebbe potuto comporre nulla durante la prigionia. Ma lui era un dissenterico e, per questo, aveva a disposizione grandi quantità di carta igienica e di carbonella vegetale. E, con quelle, è riuscito a scrivere». Karel ha lasciato un’opera in cinque atti e 660 pagine che Lotoro ha recuperato quasi interamente. «Mancano solo alcune parti - spiega - di cui c’erano i titoli ma non i pentagrammi perché, in alcuni casi, aveva dovuto usare la carta igienica per le sue necessità fisiologiche».


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Portrait of Dr. Francesco Lotoro, right, who is staying in Dahlan,
far left, and Honora Foah's Inman Park home


“Musica Concentrationaria”
alla ricerca della musica perduta





"A integrazione delle disposizioni dell'ordinanza del 24 gennaio 1939, nella quale La si incaricava di avviare la questione ebraica, mediante emigrazione o evacuazione, alla soluzione più favorevole in relazione alle circostanze, con la presente Le assegno l'incarico di predisporre tutte le necessarie mi-sure per preparare dal punto di vista organizzativo, pratico e materiale una soluzione globale della questione ebraica nell'area dell'Europa sotto influenza tedesca…”



Così scriveva il 31 luglio 1941 Hermann Göring al Gruppenführer delle SS Reinhard Heydrich, aprendo le porte al più grande orrore che la storia ricordi, la morte di 6 milioni di persone nei campi di concentramento nazisti. Tra i deportati ci furono insigni, meno noti e sconosciuti musicisti e compositori di cui, grazie alle testimonianze di alcuni sopravvissuti, si è venuti a conoscenza. Così come si è appreso dell’esistenza di brani musicali che, sia scritti spontaneamente che su ordine dei comandanti dei Campi, furono creati in quegli anni di orrore.

Con il progetto Musica Concentrationaria si vuole ricercare, studiare, approfondire, realizzare, catalogare e valorizzare questo vastissimo repertorio favorendo la conoscenza di quanto accaduto nei Campi di concentramento e in particolare del ruolo che la musica ha avuto nella vita dei deportati: una via di fuga temporanea dagli orrori e dall’incubo della realtà che li circondava.

Anni di ricerca, 2500 opere già reperite, altre 1500 partiture da verificare, indagini presso Memoriali, Musei, Archivi, Biblioteche, Librerie specializzate in Italia, Israele, Germania, Austria, Polonia, Repubblica Ceca. Collaborazione diretta con i principali musicisti di riferimento di questa produzione musicale (Joza Karas e Bret Werb negli USA, David Bloch in Israele, Robert Kolben e Gabriele Knapp in Germania, la recentemente scomparsa Blanka Cervinkova in Repubblica Ceca).

Segnalazioni da tutto il mondo di ulteriori opere (pianistiche, cameristiche, quintettistiche, liederisti-he, ecc.) che continuano settimanalmente ad arrivare con un continuo aggiornamento della ricerca. Brani scritti su mezzi di fortuna come carta igienica.
La grande mole di questo materiale musicale aiuta a farci capire come la Shoah sia rovinosamente caduta sulla storia umana come una meteora impazzita e abbia distrutto non soltanto la vita fisica di sei milioni di persone, bensì anche la brillante carriera di tanti uomini di cultura e di arte. Cosa avrebbero ancora potuto creare, quanti altri capolavori musicali avrebbero potuto produrre questi uomini se la Shoah non si fosse abbattuta su di loro?


Canto dei Deportati (Die Moorsoldaten) Fonte






Edited by Milea - 13/1/2015, 20:30
 
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In fondo al binario senza ritorno
L’ultima volta che io vidi papà


Da Liliana Segre una testimonianza dedicata ai ragazzi
(prefazione di Ferruccio de Bortoli) e un memoir



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Poi un giorno a tavola tuo padre ti dice che non puoi più frequentare la scuola, che non andrai in terza elementare. Hai 8 anni e non capisci. Ti dicono che ci sono «nuove leggi» e che per gli ebrei ora è così. E pazienza se per te essere ebrea fino a momento significa soltanto l’esonero dall’ora di religione.

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Ma c’è qualcosa di peggio del non poter più andare a scuola: è l’indifferenza degli altri, il silenzio, l’alzata di spalle della maestra Cesarina che, invitata a casa per darti conforto, dice «non le ho mica fatte io le leggi». E poi le compagne che non ti cercano più, il vicino di casa che smette di salutare la tua famiglia, gli amici che spariscono. Liliana Segre, partita, insieme al padre Alberto, dal binario 21 della stazione Centrale di Milano quando aveva 13 anni, da Auschwitz è tornata viva, a differenza dei nonni paterni, del padre («uomini a destra e donne a sinistra. E poi non lo vidi più») e di molti amici, parenti, conoscenti.

Per oltre quarant’anni ha vissuto nel silenzio: «Con certe persone non parli perché sai che non potranno mai capirti, con altri perché sai che hanno già capito tutto, con altri ancora perché il passato ti soffoca e vorresti solo pensare al futuro». Non toccare mai quell’argomento, le dice la superiora delle Marcelline quando torna a scuola dopo il lager. Ed è davanti a una platea di suore, in quello stesso istituto, che nel 1990 Liliana Segre fa le prove generali e parla, per la prima volta. Non smetterà più.

Ed è in questa direzione, la testimonianza, che vanno due libri usciti in questi giorni, quasi contemporaneamente, in cui racconta la sua storia. Lo fa con registri diversi: per i ragazzi in Fino a quando la mia stella brillerà (Piemme), scritto con Daniela Palumbo con la prefazione di Ferruccio de Bortoli; per un pubblico adulto in La memoria rende liberi (Rizzoli) con Enrico Mentana.

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Sempre in prima persona, con parole precise, dure (anche quando si rivolge ai ragazzi) che, come scrive Mentana nella prefazione a La memoria rende liberi, rivelano la «stessa capacità di enucleare con apparente distacco gli elementi indispensabili per capire la sequenza di fatti, ferocia, connivenze e casualità, sul piano inclinato di quella cacciata da scuola fino a Auschwitz e ritorno, che ha reso ancor più indispensabili le opere di Primo Levi».

La bella casa di corso Magenta dove viveva con il padre e i nonni (della madre, morta quando lei ha meno di un anno, restano solo i bei ritratti), la scuderia, la ditta della famiglia si dissolvono un pezzo alla volta nella quasi incredulità del padre che fino all’ultimo pensa che le cose miglioreranno, che la follia del fascismo finirà, che tutto tornerà come prima. Liliana fa vivere al lettore quella stessa incredulità, come riesce a far sentire quel distacco che, dentro il campo di concentramento, le permette, scrive de Bortoli, di «non concedere ai suoi carcerieri il dominio della sua mente».

E come riesce a far vedere il ritorno alla stazione Cadorna, circondata da macerie, con il solo bagaglio di una coperta, la giacca che indossava nel campo e il fazzoletto che aveva in testa fino a una casa che non è più sua. Sono i dettagli che dicono tutto: il battesimo coatto a cui il padre la sottopone nel tentativo di salvarla; il dolore asciutto («Quando diventai mamma, dai primi giorni di Auschwitz, piansi di nuovo»); i parenti che vogliono farla dimagrire («ero grassa, ma io per mesi e mesi dopo il lager continuai ad avere una fame atavica, insaziabile»); la spiaggia di Pesaro in cui incontra il marito Alfredo, il suo «ritorno alla vita». Conoscere la sua storia fa male, ma è necessario. Fonte

 
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Tatiana Bucci: “Io, bambina
nell'abisso di Auschwitz”


Intervista a Tatiana Bucci, una delle ultime e preziose testimoni italiane dei campi di sterminio. Si salvò con la sorella Andra perché le credettero gemelle e finirono nel Kinderblock di Mengele per essere studiate. Ora dal Belgio, dove vive, vede crescere la paura di nuove persecuzioni ma non ha timori in quanto ebrea: "Mi sento prima di tutto una cittadina europea, e non dobbiamo abbassare la guardia contro il terrore"




Tatiana e Andra Bucci con il cuginetto Sergio


Questo, di Auschwitz, lo ricorda benissimo. Un monito sussurrato da una donna che si occupava della loro baracca dei bambini: "Ascoltatemi bene. Se vi radunano tutti insieme in fila e vi dicono: chi vuole rivedere la mamma faccia un passo avanti, te e tua sorella non vi dovete muovere. Ricordatevelo". Lo dicemmo subito anche a nostro cugino Sergio, ma lui non ci diede ascolto e, quando fu il momento, fece quel passo. Non l'ho mai più rivisto. Si seppe poi che fu usato come cavia per gli atroci esperimenti di Mengele e il suo corpo debilitato e scheletrico fu ritrovato appeso a un gancio da macellaio nel sotterraneo di una scuola di Amburgo".



Tatiana Bucci, insieme alla sorella Andra, è la Storia. Come lo sono Sami Modiano, Piero Terracina e pochi altri, in Italia si contano ormai nelle dita di una mano. Vittime dell'Olocausto e testimoni che ancora hanno la forza di raccontare. Andra e Tatiana Bucci sono due sorelle di padre cattolico e mamma ebrea, internate a 4 e 6 anni, insieme a tutta la loro famiglia, il 4 aprile del '44 ad Auschwitz, scambiate per gemelle e dunque finite nei Kinderblock del dottor Morte. Miracolosamente scampate all'eccidio.
Fanno parte di quella manciata di bambini, una cinquantina di tutti i paesi europei, che uscì viva da Auschwitz-Birkenau, il campo che ne aveva sterminati circa 200 mila. Tatiana, insieme ai suoi parenti, fu prelevata dai tedeschi a Fiume il 28 marzo del '44, sostò due giorni alla Risiera di San Sabba, arrivò col treno merci nella rampa del lager e fu liberata dalle truppe sovietiche nove mesi dopo.

Erano 70 anni fa, il 27 gennaio del '45 e di allora le è restato il braccio tatuato e una memoria scolpita per testimoniare al mondo cosa accadde, come fu, e perché nessuno dovrà mai dimenticare. Il 18 e il 19 gennaio era ad Auschwitz per accompagnare 300 studenti, e il giorno successivo ne ha seguiti altrettanti in un viaggio organizzato dalla Regione Toscana. Tatiana Bucci parla quattro lingue, vive a Bruxelles col marito, i figli e i nipoti, è un'esile signora con i lineamenti minuti. E' una viaggiatrice instancabile, spesso è a Padova a trovare la sorella Andra, e a Roma ha un grande e fedele amico, lo storico Marcello Pezzetti, il direttore della Fondazione Museo della Shoah, organizzatore della grande mostra che il 28 si apre al Museo del Vittoriano intitolata "La liberazione dei campi nazisti" con l'attenzione rivolta soprattutto alle vittime e ai sopravvissuti italiani. Dopo i lutti di Parigi non ha mai pensato di lasciare la sua casa e trasferirsi in Israele. "Prima di essere ebrea mi considero una cittadina europea".

Signora Bucci, lei era una bimba, aveva appena sei anni. Cosa ricorda di quel campo della morte?
"Il Kinderblock di legno, dove dormivamo, che ora non c'è più. E la neve, e sì, ogni tanto giocavamo con le palle di neve. E ricordo che mia sorella andò nell'ospedale del campo perché aveva ancora i postumi della varicella. Ci avevano scambiato per gemelle, dunque eravamo "merce" importante per Mengele e per questo non ci hanno separato. Per loro eravamo soggetti interessanti anche perché eravamo figlie di un uomo cattolico e di una donna ebrea, avevamo "sangue misto". Ogni tanto vedevamo anche nostro cugino Sergio, anche se su di lui avevano iniziato subito a fare le prime visite antropometriche, misurazioni, prelievi di sangue. Ricordo anche una sorvegliante, una boklova, che ci prese in simpatia, e una volta un soldato tedesco ci regalò una scatola di biscotti. Però non ricordo quasi nessun volto e lo stesso dice mia sorella".

Eravate nascosti a Fiume. Come vi presero?
"I tedeschi vennero di sera, accompagnati dalla stessa persona che aveva fatto la spia, che ci aveva venduto per soldi. Noi bambini eravamo a letto, ricordo che mia mamma ci svegliò e ci disse di vestirci in fretta. Vidi anche mia nonna che si inginocchiò davanti ai soldati. Ci portarono via in otto, mio padre, mia madre, mia sorella, zie, nonna e mio cugino Sergio, che aveva la mia stessa età. Per raggiungere Auschwitz ci caricarono tutti insieme sul carro bestiame e mi ricordo ancora la grande confusione all'arrivo, e mia madre che diceva a tutti che noi bambine eravamo battezzate. E ricordo anche che indossavamo dei bei cappottini. Sembravamo gemelle anche se avevamo due anni di differenza e così scampammo alla prima selezione: misero tutti su due file distinte, mia madre e mia nonna nel lato dei prigionieri destinati nei giorni o nelle settimane successivi alla camera a gas, noi nell'altro.

"A noi bambini ci portarono in una sauna, ci spogliarono e ci diedero degli altri abiti. E poi il tatuaggio del numero sul braccio. Non ci hanno tagliato i capelli come accadeva agli adulti, e invece ci rasarono i medici nel campo nei giorni appena dopo la liberazione perché eravamo piene di infezioni e pidocchi. Mia madre, prima che sparisse, ogni tanto riusciva a venirci a trovare e ci diceva sempre di ricordare il nostro nome, non dovevamo mai dimenticarlo. E questo ci aiutò molto per ritrovare qualcuno dei nostri parenti dopo la liberazione, mentre tantissimi sopravvissuti non ricordavano più nemmeno come si chiamassero. E non dimentico il secchio per i bisogni dentro il carro merci e i corpi di tante persone che vedevo ammonticchiati ai bordi del campo dove vivevamo. Atrocità".

In Francia e nel suo Belgio molti ebrei anche ora temono per la loro vita, vittime e obbiettivi di azioni terroristiche jihadiste nel presunto nome di una religione contro le altre, e hanno deciso di lasciare l'Europa per trasferirsi in Israele. Lei ci ha pensato?
"Guardi, Israele è un bellissimo paese che ho visitato tanti anni fa da turista e mi ha emozionato, ma ci vorrei tornare semplicemente da turista. Ho sentito di molti amici a Bruxelles che vorrebbero andar via e non so se fanno bene o male, credo che debbano seguire il loro istinto. Certo, anche io ho paura, ma non penso assolutamente di trasferirmi. Prima di essere ebrea io mi sento una cittadina europea".

Quale è la sua paura, adesso? Può spiegare meglio cosa intende, visto che lei l'orrore più indicibile l'ha già conosciuto settant'anni fa?
"Non ho paura per me, io la mia vita l'ho fatta, e in quanto ebrea non mi sento più minacciata di quanto non lo siano i cattolici. Temo però che possa succedere qualcosa ai miei figli o ai miei nipoti. Ci possono essere in giro altri terroristi come quelli che hanno compiuto le stragi a Charlie Hebdo e nel supermercato kosher e sembrano capaci di fare qualsiasi cosa contro chiunque. Non compiono atti esclusivamente antisemiti, ce l'hanno col mondo intero e agiscono anche in altri paesi, in Nigeria, ad esempio, contro altre religioni e se ne parla ancora troppo poco".

Omicidi, attacchi, persecuzioni contro persone di religione diversa. Ha mai pensato che poteva un giorno tornare in pericolo perché ebrea?
"Credo fermamente una cosa: non credo che ci potrà mai più essere un'altra Shoah, quello no, però di nuovo bisogna alzare bene la guardia e soprattutto ora chiedere più sostegno e impegno all'Islam moderato, non può limitarsi a dire che non c'entra niente con chi ha ucciso persone inermi. E visto da un punto di vista di conflitto di religioni, dico che una parte del mondo islamico è tornato al Medioevo, al tempo delle Crociate, ma su questo la Chiesa cattolica ha fatto ammenda già da tanto tempo. E vedo grandi pericoli sulla volontà dell'Islam integralista di fare proselitismo. Noi ebrei non lo abbiamo mai fatto. Quanto alla mia paura di adesso, cerco di spiegarmi meglio: c'è, ma è un sentimento molto diverso, più di sconcerto, rispetto a quello in cui sprofondavo fino a una decina di anni fa quando sentivo parlare tedesco vicino a me. Provavo ancora terrore e disgusto, volevo allontanarmi subito, lontano da quella gente che aveva sterminato la mia famiglia. Solo da poco sono stata capace di riconciliarmi col popolo tedesco".



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Auschwitz e Birkenau
visti dal drone: il video della Bbc





Spettacolari immagini dei campi di concentramento Auschwitz-Birkenau catturate dal drone. Il video della BBC ci racconta dall'alto com'è ora il complesso concentrazionario situato in Polonia a settant'anni dalla liberazione. Dal 1979, ciò che resta di questo luogo è patrimonio dell'umanità dell'UNESCO.




Edited by Milea - 2/2/2015, 08:55
 
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Addio a Sir Nicholas Winton:
salvò 669 bimbi ebrei



L'incontro 50 anni dopo




E' morto all'età di 106 anni, nel sonno e circondato dall'affetto dei suoi familiari, Sir Nicholas Winton, lo 'Schindler' britannico: fra il 1938 e il 1939, salvò 669 bambini ebrei destinati ai campi di concentramento e mantenne il silenzio su queste sue azioni per cinquant'anni, fino a che nel 1988 la BBC non dedicò un servizio alla sua storia. In queste immagini l'incontro commovente con un gruppo di superstiti. Insieme a un piccolo gruppo di collaboratori, il giovane Winton riuscì a superare tutti gli ostacoli burocratici e portare via dalla Cecoslovacchia occupata dai nazisti i bambini, su otto diversi treni, e altri ancora da Vienna. I minori sarebbero poi stati accolti in Gran Bretagna, presso famiglie che lui stesso aveva trovato. La data della morte coincide con l'anniversario della partenza, nel 1939, del treno con il numero maggiore di bambini, 241. Nel 2003 venne insignito dalla Regina del titolo di baronetto. Il mondo ha perso un grande uomo, non dobbiamo mai dimenticare la sua umanità, ha dichiarato il premier britannico David Cameron.


 
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view post Posted on 15/7/2015, 13:11     +1   +1   -1
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Oskar Groening: condannato a quattro anni
il "contabile" di Auschwitz



94 anni, è stato accusato di concorso in omicidio di oltre 300mila ebrei.
Il sergente delle SS gestiva i bagagli e i beni dei deportati





L'ex sergente delle SS, Oskar Groening, 94 anni, noto come il "contabile di Auschwitz", è stato condannato dalla corte di Lueneburg, nel nord della Germania, a quattro anni di reclusione. E' accusato di concorso nell'omicidio di oltre 300mila persone nel campo di concentramento e sterminio di Auschwitz-Birkenau.



Groening gestiva lo smistamento dei bagagli e degli averi dei deportati. All'inizio del processo, ad aprile, Goering aveva ammesso il suo ruolo nel campo di Auschwitz, assumendosi la responsabilità morale delle sue azioni.

L'uomo, ora in sedia a rotelle, ha ammesso di essere venuto subito a conoscenza, fin dal suo arrivo nel lager nazista che nel campo gli ebrei venissero gasati. E poi Oskar Groening, davanti al giudice, ha aggiunto: "Per me non vi è dubbio che io mi sia reso corresponsabile moralmente". Confessioni decisamente inattese.

Il processo a suo carico è stato al centro dell'attenzione mediatica internazionale, anche per i numerosi sopravvissuti che hanno testimoniato di fronte a uno dei loro aguzzini. Una di queste vittime, l'81enne Eva Kor, con un gesto eclatante aveva persino offerto la mano in segno di riconciliazione a Groening: "Ma il mio perdono non lo assolve", aveva aggiunto.

La pena inflitta al 94enne supera la richiesta del pubblico ministero, che per Groening puntava a una condanna a tre anni e mezzo, con un condono di 22 mesi per precedenti mancanze della giustizia tedesca. L'uomo era infatti già stato indagato negli anni '70, senza che si desse poi corso a un procedimento giudiziario.

La corte ancora non ha stabilito se il "contabile di Auschwitz" sconterà la pena in un istituto penitenziario, di cura o ai domiciliari. A causa delle sue precarie condizioni di salute, il processo, durato tre mesi, era stato rinviato in più di un'occasione.













 
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view post Posted on 20/1/2016, 23:51     +1   -1
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Dagan Batszewa, le scarpette della libertà:
il dono di una sopravvissuta
al Museo di Auschwitz





Un paio di scarpette in miniatura, cucite con pelle e spago da un prigioniero del campo di concentramento. E' questo il dono che Dagan Batszewa, 90enne sopravvissuta all'Olocausto, ha voluto fare al Museo di Auschwitz-Birkenau. ''Me le aveva date augurandomi che potessero condurmi alla libertà. Sono state fatte ad Auschwitz e il loro posto è lì'', ha spiegato la donna. Dopo la guerra, Dagan si è trasferita in Israele dove scrive libri e poesie per bambini. Nei campi di sterminio di Birkenau e Auschwitz furono uccise 1,1 milioni di persone.







 
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view post Posted on 16/10/2016, 10:18     +1   -1
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Roma 16-10-43:
il rastrellamento del ghetto ebraico


Le foto e le lettere dei deportati, le testimonianze di chi si è salvato




Era un sabato, quando alle 5.30 del mattino i militari guidati dal capitano Dannecker fecero irruzione nelle case degli ebrei di Roma, che le leggi razziali avevano contribuito a identificare. Furono arrestate 1259 persone. In 237 furono rilasciati, gli altri 1022 furono deportati ad Auschwitz. Solo in 16 tornarono a casa. Nel video della Regione Lazio il racconto dei testimoni del rastrellamento del 16 ottobre 1943

Parla con precisione e commozione Mario Mieli (meglio conosciuto come Mario Papà) mentre riavvolge il nastro di una storia che ha inizio alle prime luci dell'alba di un sabato mattina di settantatré anni fa. Sono tracce di memorie lontane, parole che a fatica mettono insieme sensazioni, ricordi, racconti collettivi passati attraverso la ferita di un giorno inimmaginabile: la grande retata degli ebrei romani, la tragedia che giunge in pochi minuti, irrompe nelle famiglie, nelle storie più diverse, senza preavviso. E la vita rimane appesa a un filo, a un confine che non esiste tra il prima e il dopo.

L'irruzione in casa di uomini in divisa, porte sfondate, armi in pugno, il calcio del mitra, terrore diffuso in lunghi attimi di attesa rotti da poche parole per molti incomprensibili. A seguire la consegna delle istruzioni dattiloscritte su un piccolo ritaglio di carta bianca: "1. Insieme con la vostra famiglia e con gli altri ebrei appartenenti alla vostra casa sarete trasferiti. 2. Bisogna portare con sé: a) viveri per almeno otto giorni; b) tessere annonarie; c) carta d'identità; d) bicchieri. 3. Si può portare via: a) valigetta con effetti e biancheria personale, coperte; b) denaro e gioielli. 4. Chiudere a chiave l'appartamento e prendere con sé le chiavi. 5. Ammalati, anche casi gravissimi, non possono per nessun motivo rimanere indietro. Infermeria si trova nel campo. 6. Venti minuti dopo la presentazione di questo biglietto la famiglia deve essere pronta per la partenza".

Un linguaggio sinistro che è già una condanna pianificata: tenere insieme i nuclei delle famiglie per fingere di dare conforto evitando reazioni o resistenze, indicare una meta inesistente (il trasferimento), giocare sul fattore tempo, far presto senza lasciare tracce o prove degli spostamenti di truppe o persone mobilitate in quella mattina. Solo venti minuti prima che la tragedia abbia inizio: appena il tempo di chiudere con la vita precedente per piombare increduli e impreparati nel cono d'ombra della deportazione. E da lì il destino delle situazioni diverse, degli imprevisti del caso o delle piccole grandi azioni di chi si trova dentro il tracciato di un itinerario che inizia con gli sportelli di un camion parcheggiato dietro casa per concludersi sulla rampa di Auschwitz-Birkenau.






 
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25 replies since 24/1/2011, 20:51   3238 views
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