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view post Posted: 27/12/2014, 13:26     +4Le seul et unique - PRECIOUS MOMENTS

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Edited by Milea - 27/12/2014, 13:29
view post Posted: 23/12/2014, 21:14     +3Petra Nemcova, la modella scampata allo tusnami [FOTO] - NEWS

Petra, la modella che visse due volte




L’acqua che si ritira, poi l’incubo
E’ una storia a metà tra horror e una specie di lieto fine quello che accadde a Petra il 26 dicembre 2004. La modella (già richiestissima: tante le copertine, da Vogue a Sports Illustrated) è in vacanza a Khao Lak. Con Simon sta sorseggiando un aperitivo fuori dal bungalow. A un tratto assistono a quel che racconteranno in migliaia di sopravvissuti nelle loro testimonianze. L’acqua del mare che si ritira in un enorme e lento risucchio. Uno spettacolo naturale a suo modo affascinante. Ma è il segnale tipico dell’arrivo dello tsunami, solo nessuno lo sa. Petra non può immaginare lontanamente quel che sta per accadere.



«Non avevo mai sentito la parola tsunami»
«Non avevo mai sentito la parola tsunami», ha raccontato più volte Petra (nella foto con il giornalista Larry King, nel suo programma alla Cnn). «Ho pensato che il mare si stesse ritirando perché c’era la luna piena e che si trattasse di un fenomeno di mare». Ma la furia dell’oceano arriva una manciata di secondi dopo. Un muro d’acqua salata che schiaccia e travolge tutto. La gente urla dalla spiaggia, inseguita dall’immenso cavallone. Terrore, disperazione. Morte.



L’onda schianta tutto
Petra e Simon sono nelle vicinanze del bungalow. Sono in vacanza, sognata da tempo per stare assieme. Cercano di sfuggire all’acqua entrando nella piccola costruzione in legno. Non serve. L’oceano schianta tutto, spacca vetri, accartoccia le pareti, rovescia mobili e letti, invade tutto. Togliendo l’aria dai polmoni.

Almeno 280 mila morti ( ma c’è chi dice 400 mila)
Alla fine lo tsunami provoca circa 280 mila morti (ma ci sono stime che salgono a mezzo milione. Le vittime erano in gran parte povera gente, sconosciuti all’anagrafe. Contabilità impossibile, per loro). Ci si salva per caso, o il destino per chi ci crede. «Chissà perché io sono sopravvissuta mentre Simon è morto...» continua a essere il dubbio oggi di Petra, nata in Cecoslovacchia al tempo del regime comunista.
Invece a questo punto il miracolo. Il relitto del bungalow galleggia sulla corrente e si schianta contro un palmeto. Si apre come una mela marcia che cade a terra. Ma chissà come Petra trova la forza di aggrapparsi a un ramo. Anche altri fanno lo stesso. Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie. Lei resiste, molti altri no. E vengono trascinati via.



«Non ho più visto Simon»
L’acqua travolge il bungalow. Simon sale sul tetto ma scompare dopo poco. «Non l’ho più visto» è il racconto di Petra che intanto respira fango ed è schiacciata dai detriti in quella scatola di legno che si rimpicciolisce sempre più. Un incubo. La top model pensa addirittura di essere morta.

Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie
Invece a questo punto il miracolo. Il relitto del bungalow galleggia sulla corrente e si schianta contro un palmeto. Si apre come una mela marcia che cade a terra. Ma chissà come Petra trova la forza di aggrapparsi a un ramo. Anche altri fanno lo stesso. Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie. Lei resiste, molti altri no. E vengono trascinati via.



Aggrappata alla palma otto ore
Petra resta aggrappata alla palma otto ore. Il tempo che ha l’Oceano di invadere la terra, seminare morte e distruzione, e ritirarsi. Quando la ragazza scende in qualche modo dall’albero, ha quattro fratture in corpo. Il bacino spezzato. La soccorrono, la portano in un ospedale, un caos. Feriti e cadavere l’uno accanto all’altro. I medici che scelgono di curare solo chi ha una minima possibilità di sopravvivenza. Come in guerra.



«Sopravvivere, un dono della vita»
«So che può sembrare strano, ma sopravvivere allo tsunami è stato un dono della vita», ha detto Nemcova. «Ho imparato ora a vivere il momento, per sfruttare al meglio quello che sto facendo oram, non si sa mai ciò che sta per accadere. La mia vita stava scivolando tra le dita prima - è il ricordo di recente affidato al Daily Mail britannico - ora sto vivendo pienamente, qui, adesso. Aiuto gli altri. È molto liberatorio. So che nulla è scontato».



«Happy Hearts Fund»
Un anno dopo lo tsunami Petra fonda l’organizzazione benefica «Happy Hearts Fund». «Ho deciso di impegnarmi in prima persona quando ho capito che la beneficenza è una specie di lavoro: non puoi affidarti agli altri. Devi sapere tutto di quei soldi che raccogli, come spenderai ogni centesimo». Il sogno che coltiva è quello di aprire «100 scuole per i bambini che non hanno più nulla».

Beneficenza in Haiti e Perù
Petra ha anche contribuito alle iniziative di ricostruzione in Lousiana, dopo l’uragano Katrina. La sua associazione ha finanziato la costruzione di un laboratorio e una mensa nella baraccopoli di Port-au-Prince, in Haiti, stesso anno in cui è volata in Perù per aiutare i bambini colpiti da un altro sisma.



La vita continua
La vita comunque continua. Era celebre prima dello tsunami. È rimasta celebre anche dopo. Film, telefilm. Partecipazioni in programmi tv. Nella foto la vediamo con Bruce Willis, al festival di Cannes.



Console onoraria della repubblica ceca
Nel 2011 è stata nominata console onoraria della Republica Ceca ad Haiti da parte del governo locale per il suo impegno dopo il terremoto del 2010.



Vegana «per salvare la vita degli oceani»
Nel 2007 diventa vegana, eliminando dalla sua dieta la carne e i prodotti derivati da animali, al fine di «salvare la vita degli oceani»



«Ho avuto una seconda possibilità per vivere»
In dieci anni Petra ha ricostruito la sua vita. «Ho avuto una seconda possibilità per vivere. So che sono al mondo per Simon e per me».



Fonte




view post Posted: 19/12/2014, 17:20     +3“Vecchio stagno...” - Matsuo Munefusa, detto Bashō - Pensieri e poesie

Matsuo Bashō

visto da Marguerite Yourcenar


Una grande autrice novecentesca racconta il poeta nipponico


Basho


"Il giorno e la notte sono i viaggiatori dell'eternità. Così passano gli anni. Coloro che pilotano una barca o conducono un cavallo per i campi fino a che soccombono sotto il peso della vecchiaia, viaggiano anch' essi senza tregua. Tanti grandi uomini del passato sono morti sulle strade. A mia volta sono stato tentato dal vento che sposta le nubi, colmo com' ero da tanto tempo dello stesso desiderio di errare anch' io." Così parlava il vostro poeta Basho del nostro XVII secolo. Vagabondò per le vie del nord, con i suoi sottili sandali di paglia, di cui ho recentemente calcato le orme fino al tempio di Zuigan-ji che ho visto durante un indimenticabile crepuscolo accanto al celebre sito di Matsushima, con la sua immensa cornice che è la più importante del suo tempo: poi, a Chuson-ji dove era andato a venerare il Budda nel suo santuario d' oro. A Hiraizumi in ciò che resta di un parco di epoca Heian, quasi più distante da lui che da noi, una stele porta inciso il poema che narra di un antico guerriero e il suo scudiero che ivi trovarono la morte. Le erbe altissime sono tutto ciò che resta dei sogni dei guerrieri del passato. L'esempio appena citato indica, meglio di quanto possa farlo io, in che direzione va questo colloquio. Viaggio nello spazio, quegli spazi di una volta, più lunghi dei nostri, ma dove ci si poteva impregnare meglio dello spirito dei luoghi.

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Duro viaggio, durante il quale sui sentieri di pianura e sui viottoli di montagna il poeta consumava dozzine di quelle scarpette di corda e aveva le gambe tremanti di fatica e la schiena curva sotto il peso del bagaglio: anche se Basho, come noi tutti, preferiva viaggiare senza ingombri; ma doveva pure avere un mantello per proteggersi dal freddo, un kimono di cotone da indossare dopo il bagno, un cesto di viveri, l'occorrente per scrivere, senza contare - ci dice - alcuni oggetti che si conservano per dei motivi che vengono dal cuore, poiché il cuore umano è uguale dappertutto. Viaggio nello spazio ma anche nel tempo, spesso inseparabili l'uno dall'altro. Basho, nel suo povero accampamento, ascolta un cavallo legato in un angolo orinare e nitrire nella notte e pensa al mormorio che fanno i sogni dei guerrieri morti nell'erba alta ben sei secoli prima del suo passaggio in quel luogo. Ci sono tanti motivi per viaggiare, talvolta semplici, anche se in realtà molto complessi. I motivi più ovvi sono il guadagno e l'avventura, spesso indistinguibili l'uno dall'altro, anche per i mercanti delle Mille e una Notte, per Marco Polo.
Oppure motivi religiosi, per convertire alla religione in cui si crede altri uomini considerati nella notte dell'errore da quei missionari francescani che si inoltrarono nel più profondo dell'impero mongolo, o da Francesco Saverio in Giappone, o dai monaci indù in Cina, o da quelli cinesi in Giappone. In altri casi, per ritrovare una patria perduta come fece Ulisse, o con la speranza, come fecero i grandi navigatori del Pacifico, di scoprire un'isola più accogliente di quella che si lasciavano appresso.

Ben presto nuove ragioni motivarono il viaggio: prima fra tutte la ricerca della conoscenza. Ulisse, come ha ben capito il moderno poeta greco Kavafis, deve trovare nei numerosi scali che lo separano da Itaca l'occasione di istruirsi e di godersi la vita. I viaggi alla ricerca della conoscenza sono di tutti i tempi, a cominciare da quelli leggendari dei greci verso l'Egitto, dei romani verso la Grecia, dei giapponesi verso la Corea o la Cina, e dei filosofi del Medioevo verso il mondo musulmano e l'Asia. Il viaggio nelle terre lontane è diventato un ingrediente indispensabile della "leggenda" dei filosofi, che si tratti di Solone o di Paracelso. In tutti i casi, lo scopo è di istruirsi vedendo il mondo così com' è e di istruirsi anche davanti alle vestigia di ciò che è stato. Nei miei scritti, due viaggiatori si impongono. Uno è l'imperatore Adriano, che sembra aver posseduto le caratteristiche essenziali dei viaggiatori di tutti i tempi. Uomo d' affari e uomo di Stato, spinto da ragioni pragmatiche a percorrere tutto il vasto mondo romano del suo tempo e le sue frontiere barbariche ma spinto anche dal suo gusto appassionato per il viaggio. Motivi validi tutt' ora, perché ogni viaggio intelligentemente intrapreso diventi una scuola di resistenza, di stupore, quasi un'ascesi, un mezzo per perdere le proprie certezze confrontandole con quelle altrui. Adriano - il greco, come veniva chiamato a Roma dai suoi detrattori - ha abbandonato la routine romana o piuttosto ha saputo integrarvi qualcos'altro, grazie sicuramente alla sua cultura, ma grazie anche ai suoi viaggi. Pare sia stato il primo uomo, il primo a noi noto, a scalare una montagna, non soltanto per motivi religiosi, come d' altronde fece sul monte Cassius in Siria, ma anche come fece sull'Etna per il semplice piacere estetico e scientifico di contemplare di lassù il sol levante. Nel contempo pellegrino, dilettante, organizzatore di spettacoli belli, e osservatore del mondo.

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Nella mia isola americana di Mount Desert Island, come la chiamavano i navigatori francesi che l'hanno scoperta nel XVII secolo, si trova una montagna o piuttosto un'alta collina, che essendo l'unica prominenza sulla costa atlantica fra il Labrador e l'America centrale, produce un certo effetto. Quello è anche il territorio degli Stati Uniti che riceve per primo i raggi del mattino. Le popolazioni indiane che vivevano da queste parti presero, infatti, il nome di "popoli dell'aurora". Cinque o sei anni fa incontrai per le vie del villaggio un viaggiatore giapponese, uomo d' affari di mestiere che aveva appena scalato a piedi questa montagna per assistere alla nascita dell'alba sull'arcipelago che circonda Mount Desert Island ma anche per pregare, preghiera buddista o scintoista, per ottenere ciò di cui tutti abbiamo un gran bisogno: la pace nel mondo. Questo viaggiatore, munito dell'inevitabile apparecchio fotografico, entra nella categoria di coloro per cui il viaggio è simultaneamente una grande prodezza fisica, un'esperienza estetica personale e un punto d' incontro con il sacro. Zenon, il secondo grande viaggiatore della mia opera, è spinto a viaggiare sia dalla necessità di guadagnarsi il pane essendo medico ma anche, come spesso in quell'epoca, alchimista ed astrologo, che dal bisogno di sfuggire alle persecuzioni d' ordine morale, religioso e politico di cui era vittima.

Egli fugge da un paese all'altro fino a quando si rifugia finalmente nella morte. Il suo fine è, ancora una volta, il desiderio di liberarsi dai pregiudizi, dalle consuetudini e di trarre intelligentemente il massimo profitto dai suoi viaggi. A ciò si aggiunge il fascino della ricerca della conoscenza, per lui quasi sempre occulta o alchimica, che scopre e trova in alcuni punti del mondo particolarmente progredito all'epoca, come ad esempio il mondo musulmano della Spagna. "Chi vorrebbe morire senza avere fatto almeno il giro della sua prigione?" esclama a vent' anni il giovane Zenon, ebbro del suo primo viaggio. Egli ci mette almeno quarant' anni per fare il giro della sua prigione, prima di morire in una vera galera delle Fiandre ma la sua è la morte di un uomo libero, perché vengono integrate a giusto titolo lo studio e il viaggio fino a un punto tale, egli dice, che a momenti ha l'impressione di camminare sul mondo come su un libro aperto. Come sempre accade quando ci si addentra su questa via, la nozione stessa di esotismo, il fascino sconosciuto del luogo si dissolvono. Gli stessi mali, gli stessi errori si ritrovano dappertutto. Non vi parlo del prestigio dell'Oriente semplicemente perché non esiste. Suo cugino, Henri Maximilien, che durante la sua adolescenza ha sempre sognato l'Italia, finisce col passarvi la vita come soldato di fortuna. Egli fa, in termini più prosaici, la stessa constatazione di Zenon: "Il clima è migliore in Italia che in Fiandra, però vi si mangia peggio".

Ne è del viaggio nel tempo come di quello nello spazio. Altrove - dice Zenon - corre voce che Alessandro si ubriacasse come il primo venuto dei suoi soldatacci.
Ne è dei nostri grandi uomini del passato come di Costantinopoli o di Damasco, che sono belle viste da lontano ma bisogna camminare nelle vie per vederne il pattume e i cani morti. La conoscenza dei mondi stranieri, sia nel tempo che nello spazio, ha per risultato di distruggere i limiti dello spirito e dei pregiudizi ma anche quello di smorzare gli ingenui entusiasmi che ci facevano cercare altrove un paradiso. Decisamente, siccome sono andati oltre queste due visioni dello spirito, Zenon e Henri Maximilien sono uomini liberi. Il terzo dei miei personaggi, Nathanael, uomo oscuro e che non sceglie nemmeno il viaggio di suo propria volontà è, a dire il vero, un contemplativo quasi puro. Fra i 16 e i 20 anni il caso vuole che diventi un marinaio e viaggiando dall'Inghilterra, alla Giamaica, alle Barbados, finisca col naufragare su una costa da poco scoperta di quella che diverrà più tardi la Nuova Inghilterra. Sperimenta per mesi la solitudine prima di fare ritorno per il resto della sua breve esistenza nel proprio paese d' origine, l'Olanda, dove morirà, d' altronde altrettanto solo che in quella che chiama laggiù l'Isola Perduta.

Il suo viaggio, pur non essendo stato voluto, ha fatto di quest' uomo oscuro lo stesso uomo libero di Adriano o Zenon (anche se egli ha visto un mondo ignoto che d' altronde sarebbe stato inaccessibile ai primi due). I viaggi gli hanno insegnato la diffidenza verso i luoghi comuni, le opinioni correnti del suo paese e del suo secolo ed il fondo comune di ogni avventura umana. Ormai si rende conto che l'immensa e chiassosa Amsterdam traboccante d' oro, di edifici nuovi, di gente e di affari è stata in passato una vasta pianura paludosa come quella che ha visto sulla costa est del continente americano e che forse potrebbe tornare ad esserlo un giorno, che gli scalpi dei selvaggi infilzati sulle picche sono né più e né meno orribili delle teste dei decapitati inchiodate in quell'epoca alle porte della città di Londra. Egli ha scoperto uno dei segreti della vita: l'uniformità, in ogni tempo e in ogni luogo, sotto la variazione delle apparenze. Ma sarebbe troppo bello se tutti i viaggiatori riportassero dai loro viaggi un "qualche cosa". I viaggiatori-pecore appartengono a tutti i tempi. (Testo concesso al Centro Internazionale Antinoo per l'Arte dal professore Tsutomu Iwasaki e autorizzato dall'editore Gallimard) Fonte



Edited by Milea - 19/12/2014, 17:23
view post Posted: 12/12/2014, 17:06     +1"La cerimonia del mio funerale" - Nâzim Hikmet - Pensieri e poesie

Nâzim Hikmet

Orhan Pamuk: "Così l'ho difeso"




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Stoccolma. Orhan Pamuk ha una stretta di mano spessa, da orso solitario, quale in effetti è. Magro, i passi lunghi, è piuttosto alto e non di rado piega il collo da una parte, soprattutto se qualcosa lo contraria. "Dove ci sediamo?", dice guardandosi attorno nella preziosa e affollata hall del Grand Hotel di Stoccolma. La gente gli sfila attorno senza riconoscerlo o, se lo fa, non lo disturba. Lui si proietta nella sala d' aspetto del ristorante, a quest' ora quasi deserto. Ma l'atmosfera cupa non gli piace. "No, proviamo l'altro salone". A falcate affronta il bar dove risuonano note rarefatte di musica ambient.

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Orhan Pamuk

Chiede: "C' è un tavolo libero?". Il cameriere ne indica alcuni. Pamuk va fino in fondo a controllare. In tono scherzoso il ragazzo commenta: "Non siamo ancora dotati di un terrazzo" (fuori è pieno inverno, fa scuro già alle tre di pomeriggio, e piove). Lo scrittore piega la testa da una parte e lo gela col silenzio. Torna sui suoi passi. Dice all'improvviso: "Perché non andiamo nella mia stanza? Lì staremo finalmente tranquilli". Ora fende il corridoio con le sue lunghe gambe. Stargli dietro non è facile. Nell'ampia cabina dell'ascensore stiamo tutti e due su uno stesso lato, le mani appoggiate dietro la schiena. "Davvero in Italia c' è grande attenzione nei confronti degli autori turchi?", si informa. Fa domande precise. Sa già le risposte. "Yashar Kemal è tutto tradotto, sì. Ma Elif Shafak è ancora solo pubblicata in inglese, non è così?". Suite numero 5000. "Prego, entra. Entra pure. Non badare al disordine. Se vedi qualcosa che non va, chiudi gli occhi". Ci sono valigie aperte per terra, vasi di fiori freschi su una cassapanca, scatole di cioccolatini, pacchi di caramelle, due letti singoli vicini, uno sfatto, sull'altro un accappatoio ancora umido. Lui sposta tutto da sopra un tavolino ingombro di cose, e dice: "Sediamoci qui".

"Scrivere non è semplice - spiega, le mani appoggiate sui lombi, ogni tanto lanciate in aria a cercare un'immagine, a comporre visivamente un concetto - è una fatica. Ma io l'adoro. è la mia vita, e non potrei farne a meno. Però, ad esempio, anche la prolusione scritta in occasione del premio Nobel per la letteratura, è stata una bella lotta.
A New York, dove mi trovavo per un periodo di lezioni alla Columbia University e dove mi avevano comunicato la notizia, mi sono spesso dovuto alzare presto al mattino per concludere il discorso, che ho poi intitolato Il baule di mio padre. Adesso la Bbc mi ha chiesto di leggerlo alla radio per diffonderlo integralmente. Quarantacinque minuti filati! Il mio inglese è buono. Ma non perfetto in tutte le parole. Insomma, ogni tanto dovevo fermarmi e ricominciare. Ci abbiamo messo due ore". Sul comodino ben illuminato accanto al letto sfatto c' è una pila di libri. Una sfilza di scrittori svedesi, chiaramente delle strenne.

Più volte lo scrittore turco ha accennato alle sue ascendenze letterarie, una quaterna molto precisa: Tolstoj, Dostoevskij, Mann, Proust. E di essere stato influenzato anche da due altri autori: Borges e Calvino. Ma quali testi porta con sé oggi Pamuk? "Sto leggendo l'ultimo libro di Mario Vargas Llosa, ma non so se lo finirò. Poi uno di Assia Djebar. Però non leggo più come facevo a diciassette-vent' anni. Quel periodo di letture onnivore e intense è finito. Ora i miei interessi sono in buona parte finalizzati al mio lavoro. Prendo libri che mi servono poi per scrivere". E quando non viaggia o legge, quanto scrive? "Abbastanza. Diciamo otto-dieci ore al giorno quando sono a casa". Il Palazzo Pamuk tante volte descritto in Istanbul. "Ma mi piace lavorare nel mio studio, nel quartiere di Cihangir, stare seduto a tavolino". A prima vista la vita da Nobel sembra eccitante, un tourbillon di impegni, viaggi, gente nuova. Eppure l'autore di Il mio nome è rosso pare possedere gli anticorpi necessari per difendersi da un'overdose di entusiasmo che lievita attorno a lui, e a non perdere l'orientamento. Uno stop e una riflessione gli sono necessari. Ne è perfettamente consapevole. Anzi l'invoca. "Feste, inviti, richieste continue da ogni parte del mondo. Tutto questo è molto bello e fa parte del gioco. No, non sono particolarmente stanco. Ma non vedo davvero l'ora di rinchiudermi nella mia stanza e stare solo. Io con il foglio bianco davanti". Pamuk non possiede un cellulare. Non l'ho mai visto parlare a un telefonino.

Mostra invece orgoglioso una macchina fotografica con le immagini scattate assieme alla figlia quindicenne Ruya. E chiede volentieri di fargli delle foto usando il suo nuovo apparecchio. A casa possiede un telefono-fax e le chiamate sono rigorosamente filtrate dalla segreteria. Difende la sua privacy con accanimento. Ha sempre fatto così, anche quando non era famoso. Per una questione di concentrazione e di rispetto nei confronti del proprio lavoro.
Così è capace di non rispondere per niente alle chiamate, di lasciare inevase richieste espresse ora quasi in ginocchio dalla stampa internazionale, e di rifiutare ogni pretesa di colloquio in grado di distoglierlo dal progetto che ha in mente. Sembra arroganza. Con il tempo ho capito che non solo è una difesa necessaria, ma un suo convincimento, molto fermo. Pamuk usa invece volentieri la posta elettronica, silenziosa, poco invadente. Perché a dispetto dei suoi libri, così pieni di sensibilità, è un uomo determinato, capace di dire svariati "no" durante la giornata. "Adesso me ne starò in silenzio per un po' - aggiunge - preferisco ritirarmi, pensare al mio lavoro. Profilo basso". L'ultima iniziativa pubblica rimarrà quella di aver firmato il quotidiano Radikal come direttore per un giorno. Con accuse però da levare la pelle a establishment e stampa, visto come ha rispolverato, seppellendole di critiche, le antiche pagine dei giornali turchi colme di ingiurie verso intellettuali e artisti.

In primis al poeta Nazim Hikmet, costretto nel 1963 a morire in esilio in Russia. L'articolo scritto a sua difesa postuma - e a scudo dei tanti scrittori sotto tiro, come Pamuk stesso continua nonostante tutto a essere - lo ha intitolato Possono sputarti in faccia quanto vogliono. La stampa lo intriga. Il mestiere gli piace. "In passato ho studiato architettura e giornalismo. Ho persino un diploma. Ma è una professione che non ho mai esercitato. Leggo i giornali turchi, ovviamente. Ma sono molto attento al New York Times e alla sua versione europea, l'International Herald Tribune, anche se non capisco esattamente che posizione hanno su di me. Seguo il New Yorker, la Review of Books e il Times Literary Supplement". Si ferma di colpo. "E questi cosa sono?". Si getta sul fascio di giornali che ho appoggiato sul tavolo, prima colmo di cioccolato. Li spulcia uno per uno. Ne compulsa in fretta alcuni. Apre il settimanale illustrato della Suddeutsche Zeitung, lo sfoglia.

Vede Repubblica e si fionda sulle pagine della cultura trovando in meno di un secondo, con la consuetudine consumata di un lettore abituale, la rubrica delle classifiche. I suoi libri sono in testa. Istanbul è primo. "Beh, sono piazzato bene - dice sorridendo con orgoglio - e gli altri testi stanno salendo. Allora è vero che in Italia mi vogliono bene", commenta chiudendo il giornale soddisfatto. Poi, per scrivere una dedica personalizzata, prende una penna delle sue e si getta di traverso sul letto da rifare. I progetti sono tanti.
C' era, solo abbozzata, la possibilità di trarre un film da Neve, il bellissimo libro sulla città di Kars, dove nel romanzo giovani ragazze si tolgono la vita perché viene loro impedito di portare il velo all'università, scontro emblematico fra laicità e Islam nella Turchia di oggi. E a Istanbul Pamuk è andato di recente a cena con il regista Ferzan Ozpetek. Ne hanno parlato: il soggetto sembra perfetto per una trasposizione cinematografica. Ma il piano è rimasto per ora soltanto un'idea. Difficile che due primedonne, "due perfezionisti rompicoglioni come siamo entrambi", come ha tradotto con affetto Ozpetek, riescano ad accordarsi su un tema così forte senza prima o poi sbranarsi a vicenda. C' è inoltre da finire Il museo dell'innocenza. "è il titolo provvisorio del mio nuovo libro - dice Pamuk - se ce la faccio vorrei terminarlo a dicembre". Ma, prima, Einaudi - che ha ormai ripubblicato il suo intero catalogo fin dal testo d' esordio - farà uscire a maggio Il libro nero, l'opera del 1990 giudicata dal comitato del Nobel come "un capolavoro" e ora quasi pronta nella nuova versione della sua traduttrice di fiducia, Semsa Gezgin. A fine anno sarà invece la volta di Altri colori, una serie di saggi brevi, articoli, pezzi sparsi pubblicati su riviste e giornali. "Qualcosa di simile era uscito in lingua tedesca, sotto il titolo di Der Blick aus meinem Fenster (Lo sguardo dalla mia finestra).

Ma nel progetto italiano ci saranno cose diverse, più recenti. A giugno verrò in Italia. Non so più per quale motivo, francamente non me lo ricordo. In questo periodo sono così preso, ma comunque sono molto contento. Come un bambino. Pamuk è il primo turco a vincere un Nobel. "è vero, questo è un premio importante anche per la Turchia, ne sono perfettamente conscio". Alla cerimonia di premiazione, a Stoccolma, c' erano decine di editori e giornalisti venuti da Istanbul, emozionati e orgogliosi per questo loro connazionale spesso criticato in patria, eppure capace di rompere, anche all'estero, un muro di diffidenza nei confronti di un paese vicino ma misterioso. "Pamuk per Istanbul è come Joyce per Dublino - recitava la motivazione ufficiale - come Dostojevskij per San Pietroburgo, Proust per Parigi. Ha fatto della sua città natale un territorio letterario indispensabile. Un posto dove lettori di ogni parte del mondo possano vivere un'altra vita, credibile quanto la loro, riempita da un sentimento alieno che riescono a riconoscere immediatamente come proprio". Suona il telefono nella stanza di Pamuk, che continua rapito a sfogliare i giornali. Uno, due, tre squilli. E nessuno che vada a rispondere. Fonte


view post Posted: 10/12/2014, 15:46     +3I dolci regionali tipici di Natale - I dolci

Pandolce genovese


Il pandolce genovese è un dolce della tradizione gastronomica natalizia della Liguria, in particolare di Genova. Del pandolce genovese esistono due versioni: il pandolce alto, più antico e preparato con il lievito madre e il pandolce basso, di nascita più recente e realizzato con il lievito per dolci. Non aspettatevi la consistenza o il sapore del panettone: il pandolce è molto più simile a un pane e ha un profumo irresistibile di finocchietto. Se volete rispettare la tradizione legata al pandolce dovrete inserire al centro un rametto di alloro, lasciare che il più anziano della famiglia tagli la prima fetta e che il più giovane la mangi!


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Origine: Liguria
Difficoltà: difficile
Preparazione: 24h
Cottura: 1h

Ingredienti (un pandolce da 1 kg e uno da 750 g)

Per il primo impasto:
180 g di lievito naturale
90 g di acqua
80 g di acqua di fiori d'arancio
1 uovo medio
500 g di farina manitoba
120 g di zucchero semolato
120 g di burro
la buccia grattugiata di mezzo limone

Per il secondo impasto:
18 g di marsala
40 g di zucchero semolato
40 g di burro
1/2 cucchiaino di sale
85 g di farina manitoba
300 g di uvetta
120 g di canditi a cubetti (cedro e arancia)
90 g di pinoli
10 g di semi di finocchio


Procedimento

Primo impasto (ore 21 circa): ammollate il lievito naturale con l'acqua, l'acqua di fior d’arancio e l'uovo. Impastate quindi il tutto con la farina, lo zucchero, il burro leggermente fuso e la buccia sottile (cioè la parta gialla) di mezzo limone.

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Impastate per circa 10 minuti, eliminate la buccia di limone e fate lievitare coperto da un coperchio di vetro per tutta la notte a 28 gradi (forno spento con solo la lucetta accesa). Deve più che raddoppiare di volume. Il mattino successivo, aggiungete al primo impasto lo zucchero,la farina, il sale e il marsala.

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Unite anche il burro morbido e impastate per 10 minuti. Aggiungete tutta la frutta secca all’impasto, amalgamate bene e lasciate riposare per 45 minuti.

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Dividete l’impasto in due pezzature: una da poco più di kg e un'altra di circa 800 g. Date a ogni pezzo una forma il più possibile sferica e coprite per 30 minuti con un canovaccio. Trascorso questo tempo, rimettete il pandolce in forma sferica con tutte le pieghe nella parte sottostante. Fate lievitare per 7 o 8 ore a 28 gradi. Al raddoppio di volume, posizionate ogni pandolce su un placca rivestita di carta da forno e incidete la superficie con un taglio a triangolo equilatero.

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Cuocete il pandolce a 170° per circa 50 minuti o un'ora. Se dovessero scurirsi troppo coprite con un foglio di carta alluminio. Sfornateli e lasciateli raffreddare completamente.

Lo sapevate che...
Il pandolce è, per certi versi, simile al panettone se pensiamo che si prepara quasi esclusivamente per le feste di Natale e che si prepara con uvetta e canditi. Fonte

view post Posted: 5/12/2014, 17:06     +2"Uva di mare" - Derek Walcott - Pensieri e poesie

Derek Walcott
Innamorato del mondo




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Più il mondo diventa complesso, più cresce l'ossessione identitaria. Ci si aggrappa a tutto (l'etnia, la religione, il gruppo sociale d' appartenenza, un passato mitizzato) nel disperato tentativo di potersi rinserrare in un fortino che ci protegga dal tumultuoso incalzare dell'esistenza. È un processo diffuso su scala planetaria e dagli esiti spesso catastrofici, a cui si contrappone chi intraprende con coraggio la strada esattamente opposta. Come il poeta Derek Walcott, premio Nobel per la letteratura, nato nel 1930 a Saint Lucia, nei Caraibi. Membro della chiesa metodista in una comunità a maggioranza cattolica, Walcott è un meticcio dagli occhi verdi figlio di un funzionario statale: dunque "né abbastanza nero né abbastanza povero", scrive Stewart Brown in The Art of Derek Walcott (Seren Books), per ritrovarsi sic et simpliciter dalla parte dei reietti. Da bambino Derek parla il patois creolo, di derivazione francese, mentre a scuola viene educato in lingua inglese, conseguendo la laurea all'Università delle Indie Occidentali. In lui convivono, come recita un suo verso, qualcosa di "olandese, del negro e dell'inglese".

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Santa Lucia

Insomma, è figlio a pieno titolo di un'isola dove si incrociano mondo latino, anglosassone, amerindio, afroamericano. Che fatica! Ma anche quale grande, irripetibile occasione per chi scrive poesia immerso in un ambiente dove tutti sono in qualche modo "stranieri": i discendenti degli schiavi così come i discendenti dei padroni. E dove taglialegna, pescatori e camionisti sono altrettanti frammenti dell'Africa, "ma ormai plasmati, temprati, radicati nella vita dell'isola, analfabeti nel modo in cui sono analfabete le foglie; non leggono ma sono lì per essere letti, e se vengono letti nel modo giusto creano la propria letteratura". Perché anche questo è il Nuovo Mondo, un mondo in attesa di una nuova lingua. Di una nuova poesia figlia di un inedito puzzle, capace di mettere assieme le mille tessere di mille storie disperse e frantumate. Comporre quel puzzle, però, è esercizio lungo e faticoso. A molti risulta più facile imboccare la demagogica scorciatoia del black is beautiful, contraltare ideale della sdegnata posizione di un inacidito Naipaul, che nega qualunque chance di riscatto culturale alla gente caraibica.
Quanto a Walcott, lui sceglie la strada più impervia, ma anche la più fertile: "Sono nessuno o sono una nazione", scriverà in un famoso verso.

E la sua scintillante attività drammaturgica, poetica e saggistica, di cui La voce del crepuscolo (Adelphi) rappresenta una sorta di ideale summa, sta a dimostrare la bontà di quella scelta. Il poeta vi si raffigura come una gazza che becchetta curiosa tutto ciò che trova a terra. Superata di slancio la schizofrenia originaria, egli ora è in grado di metabolizzare qualunque alimento. E dunque di pescare dagli autori più diversi. Non soltanto dai grandi dell'antichità, ma anche da poeti a lui più prossimi. Come Philip Larkin, "il maestro dell'ordinario", che ha fatto della Mediocrità la sua musa ideale. O Ted Hughes, che spogliato dalla logora immagine di "generale Patton della poesia moderna", si rivela capace con versi duri e luminosi di costringerci "a uscire con il cattivo tempo, mal equipaggiati".

Per finire con l'amico Josif Brodskij, che non puntando le sue fiches sulla biografia di esule, ha finito per rendere anonimo il suo ego - ed è "questo a renderlo classico". Brodskij ricambierà la stima affermando che Walcott è il miglior poeta in lingua inglese del nostro tempo. Un artista che "parte dalla -e opera nella- convinzione che il linguaggio è qualcosa che supera in grandezza i propri padroni e i propri servitori, e che la poesia, essendo la suprema versione del linguaggio, è perciò uno strumento di arricchimento personale per gli uni e per gli altri: cioè, che è un modo per conquistare un'identità che scavalca i confini di classe, razza o ego <...&. E questo è anche un buon programma di rinnovamento sociale, il migliore che ci sia". Così "il mulatto dello stile", che canta l'Oceano senza fine e un crepuscolo anch' esso senza fine, capace di tramutare in visione metafisica tanto la miseria delle baracche di lamiera quanto la rorida natura tropicale, ci indica dalla periferia del pianeta una strada che vale anche per noi, abitanti di quel presupposto centro che ormai "non tiene più". Se riesce nel suo intento, è perché anche di fronte ai peggiori cataclismi della Storia, per il poeta "è sempre mattina". Perché "il destino della poesia, malgrado la Storia, è innamorarsi del mondo".

E anche quando, come accade a un certo punto de La goletta "Flight", il protagonista si trova stretto tra un uomo bianco che gli "incatena le mani" appellandosi alla Storia e "gli altri che non mi giudicavano nero abbastanza per il loro orgoglio", sa comunque a cosa appellarsi: "Ora non avevo altra nazione che l'immaginazione". In fondo, a questo serve la poesia. A traghettarci sempre altrove. Più avanti, in mare aperto. Fonte


view post Posted: 30/11/2014, 10:51     +3I genitori spazzaneve e l’ansia di far primeggiare i figli - CAFFE' LETTERARIO

I genitori spazzaneve
e l’ansia di farli arrivare «primi»


A scuola e nella vita ripuliscono ogni cosa davanti ai figli in modo
che nulla possa andare storto e possa minacciare la loro autostima»




Gli inglesi li chiamano «genitori spazzaneve». Perché «ripuliscono ogni cosa davanti ai loro figli in modo che nulla possa andare loro storto e possa minacciare la loro autostima». Succede a Londra, al collegio femminile di Saint Paul dove la direttrice Clarissa Farr, racconta al Times, ogni giorno si imbatte in madri e padri vittime di «ansia frenetica che fa loro rifiutare l’idea che i propri pargoli possano arrivare secondi». Il che si traduce in «bambini iperprotetti e incapaci di affrontare un fallimento».

Succede anche in Italia. Dove schiere di genitori arrivano da insegnanti e presidi e «giustificano, minacciano, mentono perfino pur di proteggere gli amati figlioletti da una punizione». Succede all’asilo e si va avanti fino alle superiori. Perché «la scuola è il nemico». Riflette Daniela Scocciolini, per oltre quarant’anni insegnante e poi preside del liceo Pasteur di Roma: «La tendenza a prevenire ed evitare qualsiasi difficoltà ai figli è diventata patologica: padri e madri sono del tutto impreparati ad affrontare gli insuccessi dei figli, non ci si vogliono trovare perché non sanno come uscirne».

È come se dicessero: «Non create problemi a mio figlio perché li create a me». E allora, «la soluzione più facile è dire sempre sì, spianare la strada: sono “genitori non genitori” che rinunciano a priori a educare i propri figli cercando di semplificare loro tutto». E la colpa di ogni insuccesso, dice Innocenzo Pessina, ex preside del liceo Berchet di Milano, 43 anni tra scuole di periferia e centro,«è data sempre alla scuola, così si arriva ai ricorsi al Tar per bocciature e brutti voti». Bisogna «insegnare ai ragazzi a confrontarsi con la realtà, aiutarli nelle strade in salita, faticose e impegnative, ma non sostituirsi a loro». I genitori, conferma anche Micaela Ricciardi, preside del liceo Giulio Cesare di Roma, sono «apprensivi e ai figli trasmettono una grande fragilità». L’unica strada è parlarci: «Dico loro di tenere la distanza: siate dei punti di riferimento, ma lasciateli sbagliare, solo così cresceranno responsabilizzati».

Ma c’è anche «l’ansia frenetica» di far primeggiare i figli ad ogni costo, la «ricerca del successo» con l’idea che chi sbaglia sia un fallito: «Crea tanta infelicità tra i ragazzi» dice Silvia Vegetti Finzi, psicoterapeuta che dal blog «Psiche Lei» su Io Donna osserva ogni giorno genitori-figli-scuola:
«Questo dilagare degli adulti sui figli fa solo male: si trasmettono aspettative e stereotipi per indirizzarli dando un’idea di competitività anziché di realizzazione di sé».
E magari alla fine nessuno è contento: «Forse anche per la crisi economica - dice Vegetti Finzi - i genitori sono più ansiosi per il futuro e si sostituiscono ai figli, come se dicessero: “Scelgo io per te” e preparano loro le strade da seguire». E allora? «Lasciateli liberi - conclude la professoressa -, ritiratevi progressivamente lasciando la vita di vostro figlio a lui, inclusi fallimenti ed errori». Fonte




Edited by Milea - 30/11/2014, 10:52
view post Posted: 29/11/2014, 14:04     +2Parigi,Sain Denis: il campo da basket più antico del mondo [FOTO] - Sport

Parigi, il campo da basket
più antico del mondo




Si trova nella capitale francese il campo da basket più vecchio al mondo, costruito nel 1892 a solamente un anno di distanza dalla nascita della disciplina sportiva in Canada. Nel quartiere parigino di Sain Denis la palestra in stile liberty che ospita il playground è ancora attiva e gli iscritti continuano ad allenarsi sopra il centenario pavimento in legno. Il ballatoio sovrastante che sovrasta il canestro era usato dai ciclisti come pista al chiuso per allenarsi in ogni momento dell’anno. Il pavimento è un tradizionale parquet ancora in buono stato ma al centro della stanza c'è un palo di ferro che rende la palestra non particolarmente adatta agli allenamenti quotidiani. La struttura non è stata però modificata per conservare il gioiello architettonico nella sua originalità. Fra i tanti cimeli storici una targa commemora la prima partita europea di basket che si giocò qui il 27 dicembre del 1893.


























Edited by Milea - 29/11/2014, 14:06
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