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view post Posted: 18/11/2023, 16:04 by: Milea     +1Giuseppe Abbati - Chiostro di Santa Croce - I Macchiaioli



Giuseppe Abbati
Marina a Castiglioncello
1863
olio su tela - 35 × 68 cm.
Collezione privata


Tratto dagli studi eseguiti a Castiglioncello nell’estate del 1862, il quadro è il risultato delle meditazioni sulla resa “dell’aria della campagna”, tentate con successo da Giuseppe Abbati, quando è ospite di Diego Martelli, nella tenuta sul litorale livornese. Nella visione ampia e dilatata della baia, la grande casa di Diego, isolata sulla collina, domina il paesaggio reso aspro e malinconico dalla luminosità livida della giornata di scirocco. Come molti dei quadri riferibili a quelle prime estati trascorse a Castiglioncello, il dipinto testimonia delle nuove ricerche del pittore, volte alla resa più sobria e solenne dei toni di luce e colore.

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Giuseppe Abbati
Campagna a Castiglioncello
1863 circa
olio su tavola - 10 x 30 cm.
Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti, Firenze


Come la tela intitolata “Collina maremmana” anche questa tavoletta illustra l’attività di Abbati negli anni di Castiglioncello. Nelle piccole dimensioni del supporto, l’artista riproduce, grazie all’analisi attenta e meditata, il susseguirsi dei piani fino all’orizzonte lontano, e la completezza delle sensazioni suscitate dalla giornata estiva senza sole. La tavolozza è qui tenuta su una variazione di toni molto ristretta, ma che accosta, con grande poetica, il verde cupo dei solitari pini ai marroni e ai grigi della campagna e di un cielo che pare al tramonto. Una lettura accurata dell’immagine contraddice l’apparente riduzione degli elementi figurativi: si distinguono così i pini dagli alberi da frutto, mentre le piante di granturco e una distesa di papaveri risaltano nel verde dei campi. Secondo una tecnica consueta in questi anni e che andrà accentuandosi nelle opere tarde, Abbati sceglie di lasciar trasparire le venature del legno con una stesura particolarmente magra dell'impasto pittorico.

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Giuseppe Abbati
Collina maremmana
1864 -1865 circa
olio su tela - 35 x 68 cm.
Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti, Firenze


Come la tela intitolata “Campagna a Castiglioncello”, anche questo è uno degli studi di pese attenti alla resa delle sensazioni luministiche atmosferiche eseguiti durante le prime estati trascorse da Giuseppe Abbati sul litorale livornese. Il paesaggio raffigurato può ritenersi quello delle colline declinanti verso il mare presso Castiglioncello. La visione nitida e limpida del paesaggio nella giornata estiva senza sole, con le nuvole che proiettano sul terreno estese zone d’ombra, infonde un sottile senso di inquietudine all’immagine della campagna incontaminata. Il quadro, insieme a “Campagna a Castiglioncello” apparteneva a Diego Martelli, che morendo lo lasciò insieme a tutta la sua collezione al Comune di Firenze.

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Giuseppe Abbati
Bimbi a Castiglioncello
1862- 1863 circa
olio su tavola - 11,5 x 37,5 cm.
Collezione privata


Nella luminosità pulviscolare di un pomeriggio d’estate, alcuni bambini trascorrono il tempo chiacchierando fra loro. L’inquadratura ampia è costruita secondo un meditato impianto compositivo: i muri definiscono quinte prospettiche così da accentuare la visione di grande respiro della campagna affacciata sulla distesa azzurrina del mare, immagine esaltata dalla porticina in legno nel muro di fondo, aperta sull’immensità dell’orizzonte. Dei numerosi amici della “macchia”, Abbati fu tra i primi a essere ospitato nella tenuta ereditata nel 1861 da Diego Martelli a Castiglioncello, e cominciò a frequentare la zona con assiduità, tanto da decidere di trasferirvisi nel 1866, rimanendo fino al compiersi, due anni più tardi, del suo tragico destino. Qui certamente aveva trovato la bellezza di una natura incontaminata e selvaggia e grazie alla serenità dei luoghi e al fraterno supporto di cui godeva, la concentrazione necessaria alla sua arte.


Ne scaturirono capolavori assoluti di poesia, affidati a una sintassi minimale ma densa, spesso (come in questo caso, ridotti nelle dimensioni, ma scanditi con la precisione metrica di un distico. Una grazia lieve, infatti, anima questo “cerottino” (così chiama i suoi piccoli studi in una lettera a Odoardo Borrani del 20 dicembre del 1866, specchio di una felicità creativa che ha fatto supporre trattarsi di un’opera del 1862 circa, quando, da poco scoperto il luogo, il severo Abbati dovette subirne il fascino prorompente, e lavorando fianco a fianco con Borrani, gareggiò con lui a racchiudere la radiosa bellezza di quella campagna solatìa, illuminata dal riverbero accecante del sole, in piccole tavole preziose dai colori smaltati, dove la presenza umana, spesso sporadica, partecipa del variare degli accordi di colore e si fonde nella natura intorno. Il quadro faceva parte della raccolta di opere di artisti contemporanei, del pittore Cristiano Banti.

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Giuseppe Abbati
Veduta di Castiglioncello
1867 circa
olio su tavola - 10 × 86 cm.
Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti, Firenze


Un lungo piano sequenza accarezza luoghi noti e lungamente contemplati: la luce ha la regia della scena, articolando spazi e volumi in un equilibrio geometrico dalle lunghe pause. La veduta, nel taglio basso e allargatissimo della tavola, è concepita come una prolungata visione di un luogo noto e amato, quasi che l’analisi rigorosa con cui l’artista definisce le case di Diego e il promontorio di Castiglioncello nella luce dorata del tramonto rifletta il tempo lento di una meditazione interiore. La scelta del supporto di dimensioni così inconsuete è tipica della ricerca svolta a Castiglioncello, tesa a creare coinvolgenti analogie sentimentali tra l’atmosfera trasognata dei paesaggi e lo stato d’animo soffuso di malinconia per la precarietà di quella quiete minata dal progresso.







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Giuseppe Abbati
Caletta a Castiglioncello
1862 circa
olio su tavola
Collezione privata



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Giuseppe Abbati
Il lattaio di Piagentina
1864
olio su tavola - 36 x 44 cm.
Museo Civico di Castel Nuovo, Napoli


Nella luce dorata di un primo mattino solatio, un lattaio spinge il proprio carretto lungo la via segnata dai solchi delle ruote. Il senso di quiete e di semplicità, legato a consuetudini antiche, è accentuato dal cromatismo del dipinto impostato sulla gamma delle terre, accentuato da un sapiente uso della luce che si posa intensa sul muretto, sulle tegole e sii comignoli delle vecchie architetture coloniche, sulla tesa del cappello dell’uomo, e accende il rosso dei pochi papaveri nati ai bordi della via. La resa vibrante delle chiome degli alberi sullo sfondo riflette l’interesse del pittore per i dipinti di Signorini ideati a Piagentina. Nel corso del 1864, il quadro fu presentato alle mostre delle Società Promotrici di Torino, Milano e Napoli.

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Giuseppe Abbati
La casa di Diego Martelli a Castiglioncello
1862
olio su tela - 21 x 50 cm.
Collezione Borgiotti





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Giuseppe Abbati
Il pergolato della casa di Diego Martelli a Castiglioncello
1866 c.
olio su cartone - 16 x 30,5 cm.
Collezione privata



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Giuseppe Abbati
Il prato dello Strozzino
1850 circa
olio su tavola - 55 x 20,1 cm.
Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti, Firenze


Il Prato dello Strozzino è un piccolo e romantico giardino sulla collina di Bellosguardo, che offre una vista spettacolare su Firenze; il suo nome deriva non già come potrebbe sembrare da un qualche usuraio del luogo, ma fa riferimento alla prospiciente Villa dello Strozzino, appartenuta ad un ramo secondario della famiglia Strozzi, detto Strozzino proprio perché cadetto rispetto a quella che fu per diversi secoli la famiglia più ricca di Firenze, che, oltre al magnifico Palazzo omonimo nei pressi di Piazza della Repubblica, aveva enormi possedimenti nella zona tra Soffiano, Bellosguardo e Legnaia. Il piccolo Prato dello Strozzino, contrassegnato da una pigna scolpita nella pietra, è separato dalla Villa omonima da via di Monteoliveto, dalla quale si sale incrociando sul cammino il Monastero che fu dei monaci Olivetani e la chiesa dei Santi Vito e Modesto. La Villa dello Strozzino, adorna di una splendida altana a loggia, che guarda dalla parte del Prato, fu chiamata anche “Villa Le Lune” per via delle mezzelune bicorni, mutuate dallo stemma degli Strozzi, che adornano la sommità della facciata della Villa.

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Giuseppe Abbati
Paese
datazione sconosciuta
olio su tavola - 55 x 28,9 cm.
Collezione privata



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Giuseppe Abbati
Strada di paese (o di campagna)
1860 -1862 circa
olio su cartone - 17 x 22 cm.
Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti, Firenze


La veduta di una “Strada di paese” (o di campagna, titolo con cui figura nell’inventario della Galleria del 1949) si inserisce in un gruppo di studi degli anni 1861-1862. Qui, Abbati, dopo aver esordito con le vedute dei chiostri e dei cortili dei monumenti fiorentini, prosegue la sua ricerca negli effetti di luce e nei calibrati rapporti volumetrici, nelle strade di città, o nelle vie della campagna, come il celebrato capolavoro de “La stradina al sole”. L'impianto compositivo di quest’opera può ritenersi molto vicino alla “Stradina” e per questo va datato in un arco di tempo affine. La concisione espressiva scelta dall’artista nel suggerire con grande economia di mezzi (la pennellata magra lascia trasparire il cartone) un angolo di Toscana antica andrà proseguendo anche in opere successive come la “Via di Montughi”.

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Giuseppe Abbati
Via di Montughi
1863 circa
olio su tavola - 22 x 13,5 cm.
Collezione privata





La nitida definizione prospettica, la cura formale e compositiva, costituiscono la sigla della pittura di Abbati, che attinge ad una limpida e serena classicità, e appare spesso percorsa da una composta vena malinconica.

Nelle opere di Abbati la ricerca formale della pittura di “macchia” appare pienamente risolta nell’armonia di volumi e colori, immersi in una luce perlacea e immota, in virtù della quale il momento contingente viene sublimato ad assoluto, pur nella modesta quotidianità dei soggetti prescelti.

La perfetta impostazione architettonica della composizione risalta in alcuni dipinti su tavola di piccolo formato, come nella “Via di Montughi” dove l’orizzonte chiuso da un muro (al di sopra del quale spunta il moto ascensionale di un gruppo di scuri cipressi) e la prospettiva ribassata (a rendere il senso di fatica con cui il viandante affronta la salita), appaiono assurgere a metafora esistenziale di una visione severamente stoica delle vicende umane, toccando un’essenzialità formale che dovremo attendere quasi un secolo per ritrovare in certi paesaggi morandiani degli anni Quaranta del Novecento. (M.@rt)




Edited by Milea - 18/11/2023, 16:51
view post Posted: 18/11/2023, 13:32 by: Costantine Rose     +1INFINITO PRESENTE - YAYOI KUSAMA È A BERGAMO - CAFFE' LETTERARIO


INFINITO PRESENTE
YAYOI KUSAMA È A BERGAMO




E’ con un fuoco d’artificio che Bergamo si incammina
verso la chiusura dell’anno che l’ha vista insignita del
titolo Capitale italiana della cultura, in tandem con Brescia.






Yayoi Kusama
Lucciole sull'acqua
(Fireflies on the Water)
2002
Specchi, plexiglass, luci e acqua
281,9 × 367 × 367 cm
New York, Whitney Museum of American Art


Nell’ambito dell’iniziativa ArtDate, il Festival Europeo di Arte Contemporanea che si svolge in città fino al 26 Novembre, Palazzo della Ragione ospita un’icona dell’arte di oggi: la giapponese Yayoi Kusama, un nome molto popolare che da solo è in grado di suscitare nel grande pubblico il desiderio di vedere l’esposizione per non mancare l’occasione. E infatti ancor prima di aprire i battenti la mostra "Infinito presente" era data in sold out. Per questa ragione si è corso ai ripari prorogandola di due mesi ed estendendo l’orario di apertura giornaliero, incrementando così la disponibilità complessiva dei biglietti. Un successo in termini di comunicazione territoriale e visibilità. Artefice dell’idea di portare a Bergamo un’artista donna che ha inteso l’arte come processo terapeutico individuale, dando così forma a una delle linee guida del progetto Capitale della cultura che riguardava "l’arte come cura", è Stefano Raimondi, presidente dell’associazione The Blank Contemporary Art, da oltre tredici anni attiva in città sul fronte del contemporaneo.


Ma portare a Bergamo un’Infinity Mirror Room non era affatto un’idea scontata, né in termini di disponibilità dell’opera né in termini economici. Tanto per cominciare alle spalle non c’è una fondazione in grado di coprire i costi dell’iniziativa culturale e quindi si è fatto ricorso alla "colletta". E poi occorreva convincere un’istituzione internazionale di privarsi di un’opera di primo livello nella sua collezione e di cederla a una realtà non museale. Raimondi è riuscito a trovare i capitali e a ottenere l’agognato prestito dal Whitney Museum of American Art di New York. "Yayoi Kusama. Infinito Presente è una mostra straordinaria sotto molti punti di vista - spiega il curatore Stefano Raimondi - che ha richiesto un impegno e un approccio non comuni, diventando mese dopo mese un appuntamento attesissimo, capace di arrivare a milioni di persone”. Il risultato, più che una mostra vera e propria sulla ricerca della Kusama, è un’esperienza godibile di persona, varcando, uno alla volta, la soglia dell’installazione Fireflies on the Water alla quale si accede attraverso un corridoio punteggiato da poesie, filmati, libri e documentazioni che raccontano la vita e l’arte della Kusama.


L’opera consiste in un ambiente buio, le cui pareti sono rivestite di specchi. Al centro di trova una pozza d’acqua che trasmette un senso di quiete in cui sporge una piattaforma panoramica simile a un molo e 1centocinquanta piccole luci appese al soffitto che sembrano lucciole. Gli elementi creano un effetto abbagliante di luce diretta e riflessa, emanata dagli specchi e dalla superficie dell’acqua. Lo spazio appare infinito, senza cima né fondo, inizio né fine. E in questo smarrimento quasi allucinatorio un po’ ci si perde e si entra in una dimensione diversa, abbandonando il senso di sé e arrendendosi a una sorta di magia meditativa. Come le prime installazioni di Kusama, "Fireflies on the Water" evoca le allucinazioni che caratterizzano la vita dell’artista fin da quando era bambina, delle quali l'arte è da sempre espressione e cura. Ma contiene anche riferimenti al mito di Narciso e ai paesaggi del Giappone, dove Kusama è cresciuta ed è tornata a vivere dopo aver trovato fama e successo negli Stati Uniti. "Gli artisti normalmente non esprimono i loro complessi psicologici in modo diretto, ma io uso i miei complessi e le mie paure come soggetti" ha dichiarato un giorno Yayoi Kusama.


L’arte e la vita per la Kusama sono indissolubilmente legate: nata in Giappone, a Matsumoto, nel 1929, da una famiglia dell’alta società, da bambina inizia ad avere delle allucinazioni uditive e visive. L’arte si rivela fin da subito un elemento necessario e terapeutico, con la quale Yayoi riesce a gestire le allucinazioni. La famiglia non accetta la sua passione, tanto che la madre distrugge i disegni della giovane artista prima che lei riesca a terminarli. È proprio per questo motivo che una delle prime forme d’arte di Kusama sono stati i pois, elementi veloci da disegnare che ancora oggi caratterizzano la sua opera assolutamente unica. L’arte diventa un canale per trovare stabilità, per combattere l’ansia e la paura di ogni giorno. Lascia il Giappone, paese troppo piccolo per le sue aspirazioni e per la sua arte. Kusama vuole esplorare spazi e sentimenti universali, la libertà espressiva deve essere senza confini. Ed è per questo che nel 1957, grazie anche all’incoraggiamento dell’artista americana Georgia O’Keeffe, Kusama si trasferisce negli Stati Uniti. Nel 1958 espone a NY i suoi "Infinity Net paintings", le tele nere ricopre da un’unica pennellata curva, carica di un singolo colore, ripetuta attraverso un gesto che è ossessivo e meditativo al tempo stesso. E poi nel 1965 realizza la prima "Infinite Mirror Room". Da questo momento l’uso delle superfici specchianti offrono alla Kusama la possibilità di creare piani infiniti nelle sue installazioni. Gli incontri sono tanti e importanti: Lucio Fondata ospita la Kusama per due mesi a Milano e finanzia personalmente la "Narcissus Garden", un’opera che verrà presentata senza invito formale alla Biennale di Venezia.


La migliore definizione della Kusama la dà lei stessa:

"Io, Kusama, sono la moderna Alice nel paese delle meraviglie.
Come Alice che attraversava lo specchio,
io, Kusama ho aperto un mondo di fantasia e libertà.
Anche tu puoi unirti alla mia avventurosa danza della vita."


Entrare nell"’Infinity Mirror Room" significa in qualche modo entrare nel corpo e nell’anima dell’artista, cogliendone l’essenza nelle parti intangibili che ne definiscono l’infinito. L’epilogo si conosce. Il mutato contesto sociale e politico, l’acutizzarsi della malattia e la morte del partner Joseph Cornell sono alcuni dei motivi che spingonoYayoi Kusama nel 1973 a tornare in Giappone e nel 1977 a entrare volontariamente e in modo permanente presso un ospedale psichiatrico a Tokyo dove tutt’oggi vive.


YAYOI KUSAMA. INFINITO PRESENTE
Dal 17/11/2023 al 24/03/2024

DOVE

Palazzo della Ragione - Piazza Vecchia, Bergamo, 24129

PREZZO

Intero: 14,50
Ridotto: 12,50

Prenotazione obbligatoria

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view post Posted: 18/11/2023, 11:56 by: Milea     +1Giuseppe de Nittis - Le corse al Bois De Boulogne - I Macchiaioli




Giuseppe De Nittis
Al Bois de Boulogne
1873
olio su tela -23 x 34 cm
Collezione privata (Fondazione Piceni)



view post Posted: 17/11/2023, 22:08 by: Milea     +1Giovanni Fattori - Ritratto di Diego Martelli a Castiglioncello - I Macchiaioli

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Giovanni Fattori (Livorno, 1825 -Firenze, 1908)
La Signora Martelli
a Castiglioncello (o La signora di Diego Martelli)
1867 circa
olio su tavola - 20 x 35 cm.
Museo civico Giovanni Fattori, Livorno


Il pittore livornese realizza questo dipinto non datato, dopo che a quarantadue anni, a seguito della perdita della prima moglie nel marzo 1867, trova conforto nella tenuta del critico d’arte fiorentino Diego Martelli a Castiglioncello, dove già da tempo si incontrava il gruppo di pittori “macchiaioli” per affinare le ricerche su luce e colori dati per “macchie”. Questo e i successivi soggiorni di Fattori nella tenuta fino al 1875 contribuiscono a sviluppare la sua pittura con “macchie” di colore, l’attenzione per il paesaggio studiato dal vero e il ritratto all’aperto.
Adagiata su una chaise longue, simile a quella del ritratto del marito, Teresa Fabbrini, ex prostituta, poi compagna storica del critico d’arte fiorentino, riposa al fresco immersa nell’ombra dei lecci. Il campo della visione è ampio e permette di rappresentare anche il paesaggio tipico della zona, le chiome degli alberi e la pineta sullo sfondo, il cui verde si tramuta nel tono azzurrato del mare, nota cromatica che richiama la veste della donna, suggerendo l’attenzione con cui il pittore modula i passaggi cromatici delicati per evocare una situazione di pace e di quiete.


L’opera, giocata sul contrasto tra luci e ombre e costruita con “macchie” di colore affiancate, è stata realizzata durante uno dei soggiorni a Castiglioncello tra 1867 e 1875, probabilmente nel 1867, per la vicinanza con il ritratto di Diego Martelli, attribuito dalla critica a quell’anno. Dopo la morte di Fattori il 30 agosto 1908, l’opera è stata ereditata dal suo allievo Giovanni Malesci, il quale alla fine di quell’anno la vendette insieme a un numeroso gruppo di dipinti, disegni, incisioni al Comune di Livorno.(M.@rt)





Edited by Milea - 18/12/2023, 23:45
view post Posted: 17/11/2023, 21:22 by: Milea     +1Giuseppe Abbati - Chiostro di Santa Croce - I Macchiaioli




Giovanni Boldini (Ferrara, 1842 - Parigi, 1931)
Ritratto di Giuseppe Abbati
1865
olio su tavola - 87,5 x 22 cm.
Collezione privata




Risolto in un concerto di bianchi e di neri, il ritratto raffigura il volto di un giovane uomo: neri i capelli e la barba, bianca la fronte spaziosa. Quel volto fissa l’osservatore con un solo occhio nero dietro una lente limpida; l’altro è un’orbita vuota, nascosta da una benda nera. E’ in piedi, scuri il vestito e il soprabito; la mano destra in tasca, la sinistra, rilasciata lungo il fianco, quasi sfiora il muso di un pointer dal lucido manto corvino.

Il cane si chiama Moro e il giovane è il pittore Giuseppe Abbati, ritratti da Giovanni Boldini, nel novembre del 1865, a Firenze, nello studio di Michele Gordigiani: Boldini ha ventitré anni, l’amico e collega ventinove. Abbati, autore di alcune tra le opere più rilevanti della ricerca pittorica pura, alla base di meditazioni che attraversano un secolo e costituiscono tuttora un presupposto della speculazione in pittura, è celebrato da pochi.

Della sua grandezza erano ben consapevoli però artisti come Fattori - «mi ricordo di una quistione d’un nero all’ombra e un nero al sole» - e critici come Diego Martelli, sodale di Abbati, che scrisse: «Considerato che come colore preso in se stesso nulla più chiaro possa trovarsi sulla tavolozza della biacca d’argento e nulla di più nero del nero fumo, egli tentava, in un tono più basso del vero, di dare tutta intera la tonalità del vero, rendendosi così possibile ogni gradazione di passaggi, per un trasporto matematico di proporzioni fra le potenze coloranti della luce e le combinazioni possibili della pittura. Così facendo si avviò sempre più a dei resultati di colore stupendi dove, con una apparente parsimonia di mezzi e con sapere grandissimo, otteneva luce, risparmio di crudità violente negli scuri e modestia grandissima di intonazione».

Dopo gli anni di studio e di apprendistato, la ricerca di Abbati si svolge nel corso di sette anni, dal 1861 al 1867, con particolare intensità tra il ’63 e il ’65. Nel 1860 era con Garibaldi e perse l’occhio destro nella battaglia del Volturno, ma, di nuovo, nell’agosto del 1862 e nel maggio del 1866 è ancora volontario garibaldino. A luglio è fatto prigioniero e condotto in Croazia. Torna a Firenze in autunno. Il 1867 sarà l’ultimo anno della breve vita di Abbati. Il Moro è morto: «Ne pianse come della perdita di un amico», scrive Martelli. Cerca di consolarsi acquistando un cucciolo di mastino. Lo chiama Cennino, in ricordo dell’autore del «Libro dell’Arte», nome augurale, quasi a protezione del pittore che si dispone a un lavoro solitario in Maremma. Sul finire dell’anno, il 13 dicembre, Cennino lo addenta. Contratta l’idrofobia, Abbati muore il 21 febbraio 1868; il 13 gennaio aveva compiuto trentadue anni. (M.@rt)




Edited by Milea - 17/11/2023, 23:08
view post Posted: 17/11/2023, 21:04 by: Milea     +1Giuseppe Abbati - Chiostro di Santa Croce - I Macchiaioli

Abbati-ChiostroP

Giuseppe Abbati (Napoli, 1836 - Firenze, 1868)
Chiostro di Santa Croce
1861 circa
olio su cartone - 19,3 x 25,2 cm.
Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti, Firenze


Nato a Napoli, figlio del pittore Vincenzo, specializzato in dipinti d’interni, e di Francesca Romano, Giuseppe, ancora in tenera età, si trasferisce la famiglia prima a Firenze nel 1842, al seguito della Duchessa di Berry che aveva assunto il padre come pittore di corte, e poi a Venezia dal 1846 al 1858, dove forma la propria cultura artistica sia sotto la guida del genitore, sia frequentando dal 1850 al 1853 l’Accademia di Belle Arti di con i maestri Michelangelo Grigoletti e Francesco Bagnara. A Venezia conosce i pittori Vito D’Ancona e Telemaco Signorini in viaggio di studio.

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Giuseppe Abbati
Interno di una cappella
1854
olio su tela - 96 x 115 cm.
Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti, Firenze



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Dopo il 1856 torna a Napoli e inizia a dedicarsi alla pittura di interni in linea con gli insegnamenti paterni, ottenendo già un discreto successo nel 1859 con “Messa in San Domenico Maggiore”. L’anno successivo parte volontario con la spedizione dei Mille, imbarcandosi a Genova; ferito in combattimento presso Capua perde l’occhio destro. In seguito, l’artista rifiuterà la pensione di invalidità che gli era stata assegnata, sostenendo che il suo era stato un sacrificio spontaneo, per il quale non richiedeva compensazioni. Alla fine di quello stesso anno si trasferisce a Firenze, dove ben presto si lega agli artisti del Caffè Michelangiolo, abbracciando fin da subito le istanze fondamentali della pittura di macchia, trasportando con esiti felicissimi i suoi soggetti dalla penombra delle chiese alla luce del sole. La sua ricerca figurativa, basata sull’analisi lenta e meditata, si concentra sui problemi insiti nella pittura d’ interni e nei paesaggi solitari, nei quali infonde un sottile senso di mistero. Il carattere dell’artista, fieramente avverso all’ufficialità e alle celebrazioni istituzionali di stampo accademico, si mostra anche nel 1861, in occasione della prima Esposizione Nazionale, dove partecipa con un “Interno di Santa Maria Novella” e un “Interno di San Miniato”, ottenendo una medaglia d’oro, che il pittore rifiuta, unendosi alla contestazione di un gruppo di artisti che la giuria non aveva ammesso all’esposizione.

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Giuseppe Abbati
Interno di San Miniato
1861
olio su tela - 72 x 60 cm.
Collezione privata


Nell’interno austero dell’antica chiesa fiorentina di San Miniato al Monte, un monaco olivetano scende con cautela la scala avviandosi verso il sepolcreto. In primo piano, nell’ombra, una tomba con dei fiori freschi. Un uso scenografico della luce scandisce nettamente il dipinto in zone d’ombra e luminose, costringendo l’osservatore ad acuire lo sguardo per cogliere i particolari, proprio come nella realtà; allo stesso tempo, però, crea una sorta di sottile mistero.

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Vero crocevia per tutti gli artisti progressisti presenti a Firenze, al Caffè Michelangelo Giuseppe Abbati avvia anche la fraterna e durevole amicizia con Diego Martelli, che lo ospita spesso durante l’estate nella sua villa di Castiglioncello, insieme con Borrani e Sernesi; con questi ultimi, al ritorno dall’infelice spedizione con Garibaldi conclusasi in Aspromonte nell’agosto del 1862 (alla quale aveva partecipato insieme a Martelli) Abbati condivide anche la fase sperimentale di ricerca tecnica e figurativa, che conducevano dipingendo all’aperto nella campagna di Piagentina, alle porte di Firenze. Appartiene a questo periodo la tela “Stradina al sole”.

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Giuseppe Abbati
Stradina al sole
1863 - 1864
olio su tavola -26 x 23 cm.
Collezione privata


Una quieta stradina di periferia, chiusa fra antichi muri, è percorsa da una figura solitaria di donna, che si protegge con l’ampio cappello di paglia di Firenze dall’intensità del sole meridiano. La scena, pervasa da un’atmosfera sospesa ed evocativa, è il risultato degli studi eseguiti da Abbati a Piagentina, in sintonia con le coeve ricerche di Signorini e di Lega. A proposito di opere simili a questa, come la tela dipinta nel 1862 dallo stesso titolo, Diego Martelli metteva in risalto gli esiti “ di colore stupendi dove con una apparente parsimonia di mezzi e con sapere di grandissimo [Abbati] otteneva luce, risparmio di crudità violente negli scuri e modestia grandissima di intonazione”.



Giuseppe Abbati
Stradina al sole
1862
olio su tela - 27 × 23 cm.
Collezione privata



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A quell’anno risale anche il bozzetto per il “Chiostro di Santa Croce”. L’occasione che generò questo piccolo dipinto, un vero e proprio incunabolo della tecnica della pittura di macchia, furono i lavori che, nell’Ottocento, riguardarono il chiostro e la facciata della chiesa fiorentina. Come ricorda il mentore e teorico della macchia Diego Martelli, Abbati nel 1861 “si dette a studiare serissimamente nei chiostri di Santa Croce dove allora, lavorandosi al restauro del monumento, si facevano ammassi di marmo di vario colore che offrivano allo studiatore il vantaggio di avere davanti a sé delle masse ben definite e dei contrasti decisi e quasi dirò elementari di colore e di chiaro scuro” . I blocchi di marmo divennero infatti occasione per indagare con gli strumenti della sintesi e della geometria, i rapporti tra volumi e luce del sole.



Giuseppe Abbati
Chiostro di Santa Croce (dettaglio)


La pennellata densa scolpisce le forme senza l’ausilio del segno di contorno, collocandole in uno spazio reale e ben definito derivato dalla prospettiva impiegata dai maestri del Quattrocento, tanto amati e studiati dai pittori macchiaioli. Nella luce intensa i blocchi di marmo neri e bianchi, scanditi dalle ombre, assumono valenza volumetrica e spaziale, mentre la macchia verde in primo piano crea la profondità della visione. La sobrietà dei mezzi pittorici e le piccole dimensioni del cartono riflettono la volontà di elaborare un’espressione in apparenza semplice, come semplice è il tema, tale però da suggerire la complessità dello stato d’animo dell’uomo moderno, consapevole di quanto la realtà sia misteriosa e inesplorata.




Giuseppe Abbati
Chiostro di Santa Croce (dettaglio)



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Tornato dalla spedizione sull’Aspromonte del 1862, inizia a dipingere insieme a Lega e Signorini a Piagentina, alle soglie di Firenze. Da quell’anno divide la casa con Diego Martelli, prima in via dello Sprone, poi fuori Porta San Gallo dove, nel 1865, va a vivere con Federico Zandomeneghi. Da allora alterna le vedute dei dintorni fiorentini alle immagini della campagna di Castiglioncello; lavora molto intensamente e partecipa con successo alle mostre. Dal 1865 i suoi soggetti si arricchiscono di toni evocativi e sentimentali, spesso incentrati sulla figura umana come indicano i titoli di opere quali “Il tagliaboschi”, “Ritratto di signora in grigio”, “L’orazione”.

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Giuseppe Abbati
L’orazione
1866
olio su tela - 57 x 42 cm.
Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti, Firenze


Un quadro soffuso di sentimento, nel quale grandeggia l’effigie di una giovane donna raccolta in preghiera dinanzi a una tomba su cui sono sparsi dei fiori freschi; alle sue spalle, avvolto nella quiete ombrosa della chiesa, un uomo che forse l’aspetta, poiché ha appoggiato sui gradini dell’altare il cappello a cilindro. La donna raffigurata in preghiera nella semioscurità della chiesa sembra essere Teresa Fabbrini, donna di umili origini che per molti anni fu presenza assidua e discreta a fianco del vulcanico intellettuale e le cui fattezze, di una bellezza modesta e senza pretese sono note anche da fotografie d’epoca. Sostenuto da un rigoroso impianto disegnativo e da un sapiente uso della luce, che entra livida dai finestroni della chiesa e costruisce la fisionomia della donna definendone i lineamenti, ma anche l’ampiezza frusciante della gonna di taffetà e il raso corposo della fodera del mantello, il quadro fu esposto alla Mostra della Società Promotrice di Firenze nel 1866, e là acquistato per la Galleria di quadri moderni della città, allora allestita alla Galleria dell’Accademia.

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Nel dicembre del 1866, dopo aver partecipato alla terza guerra d’indipendenza, si ritira a vivere a Castelnuovo della Misericordia, nella campagna livornese, insofferente alla mentalità dell’Italia di allora, sempre più indirizzata alla modernità e al progresso. A Castiglioncello insieme a Giovanni Fattori e a Odoardo Borrani sperimenta nuove espressioni luministiche e cromatiche. Come unico compagno nella vita solitaria di Castelnuovo, Abbati aveva portato con sé un cane mastino, acquistato dopo la morte del pointer nero con il quale lo aveva ritratto Boldini nel 1865. Il 13 dicembre 1867, in seguito al morso del proprio cane, che era affetto da idrofobia, l’artista chiuse la sua esistenza due mesi dopo, nel febbraio del 1868, dopo un inutile ricovero all’Ospedale di Firenze. Il suo destino si compiva così proprio nel modo che, per una sorta di premonizione, aveva prefigurato quasi un anno prima in una lettera scritta nel marzo 1867 a Odoardo Borrani: “Mi convinco che sono disgraziato anche coi cani e stanotte ho sognato d’essere arrabbiato in seguito d’una dentata del suddetto”. Nella città, che era all’epoca la capitale d’Italia, venne sepolto presso il cimitero delle Porte Sante, vestito con la tunica rossa di garibaldino e decorato con tutte le medaglie che si era guadagnato nelle numerose campagne a cui aveva partecipato. (M.@rt)



Giuseppe Abbati
Chiostro di Santa Croce (dettaglio)






Edited by Milea - 21/11/2023, 23:30
view post Posted: 15/11/2023, 19:19 by: Milea     +1Federico Zandomeneghi - Interno del Palazzo del Podestà - I Macchiaioli



Federico Zandomeneghi
Il ricciolo (La toilette)
1894 - 1905
olio su tela - 75 x 93,5 cm.
Milano, Pinacoteca di Brera (opera non esposta)


L’opera fu eseguita a Parigi nei primi anni del Novecento. Ispirata ai lavori dei maestri espressionisti e dalle scelte tematiche e linguistiche di Renoir e di Degas, l’artista creò qui un’immagine dalla costruzione semplificata e dal sapore malinconico e crepuscolare. (M.@rt)

view post Posted: 15/11/2023, 18:54 by: Milea     +1Federico Zandomeneghi - Interno del Palazzo del Podestà - I Macchiaioli




Federico Zandomeneghi
Gli innamorati
1866
olio su tela - 50 x 30 cm.
Collezione privata






Una coppia di amanti si sporge dalla balaustra di una loggia per guardare di sotto. Nell’atto la donna, come intimorita dal vuoto, appoggia il braccio attorno al collo dell’innamorato.

Le due figure di spalle sono racchiuse fra i pochi elementi architettonici, una colonna, lo spiovente del tetto in alto, il muro, secondo un’austera concezione compositiva, che richiama il primo Rinascimento toscano.

Ma l’atteggiamento umanissimo della coppia, la luce del crepuscolo, i vasi di fiori, infondono alla scena un sentimento nuovo, più trepido e indulgente per la fragilità della vita. (M.@rt)



view post Posted: 15/11/2023, 10:54 by: Milea     +1Federico Zandomeneghi - Interno del Palazzo del Podestà - I Macchiaioli

Zandomeneghi-Palazzo-PretorioP

Federico Zandomeneghi (Venezia,1841 - Parigi, 1917)
Interno del Palazzo del Podestà
1865 circa
olio su tela - 80 x 44 cm.
Galleria Internazionale d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro, Venezia


Federico Zandomeneghi nasce nel 1841 in una famiglia di artisti, stimata e di successo: il padre Pietro ed il nonno Luigi erano entrambi scultori di stile neoclassico, al contrario egli manifesta precocemente una particolare propensione per la pittura. Studia prima presso l’Accademia di Belle Arti di Venezia con Pompeo Molmenti, e poi in quella di Milano. Nel 1959 si rifugia a Pavia temendo la coscrizione obbligatoria nell’esercito austriaco, ma nel 1860 si arruola volontario e combatte in Sicilia con i garibaldini. Nel 1862 si stabilisce a Firenze, dove Giuseppe Abbati lo introduce nell’ambiente del Caffè Michelangiolo. Diviene amico soprattutto di Diego Martelli, del quale è ospite a Castiglioncello. A Firenze rimane fino al 1866 eseguendo dipinti conformi alla poetica della macchia come “La lettrice”, o “Interno del Palazzo del Podestà”, che rivelano come i suoi interessi siano essenzialmente rivolti all’opera di Odoardo Borrani e di Giuseppe Abbati.



Federico Zandomeneghi
Interno del Palazzo del Podestà (dettaglio)


“Da un finestrone donde scorgersi l’altra parte del fabbricato tutta illuminata, entra il sole, e sceso in sul pavimento illumina colla rifrazione due grandi macchiette, che ben arieggiate, sono nel mezzo in costume antico”. (Gazzetta di Venezia, 12 settembre 1865.) Il soggetto della tela è ambientato nelle sale del Palazzo del Bargello a Firenze, che in quel tempo era stato tema di quadri in costume sia di Abbati, sia di Borrani, concettualmente molto simili a quest’opera per la luce limpida che analizza le architetture e l’atmosfera sospesa che li pervade. Proprio nel 1865 Zandomeneghi va ad abitare con Abbati, accostandosi ulteriormente alle ricerche figurative dell’amico. Tornato a Venezia dopo l’annessione della città al Regno d’Italia, vi rimane fino al 1874, continuando per altro a soggiornare spesso a Firenze e a condividere le scelte figurative dei Macchiaioli, tanto da rimeditare, in sintonia con loro, il tono sospeso e soffuso di malinconia di certa pittura romantica. Ne è un esempio “Bastimento allo scalo”, in cui la luce cilestrina accentua i valori emozionali connessi all’immagine, e suggerisce il senso di solitudine dell’uomo moderno.

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Bastimento-allo-scalo

Federico Zandomeneghi
Bastimento allo scalo
1869 circa
olio su tela - 41 x 96 cm.
Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti, Firenze


Una luce indagatrice definisce con nitidezza il paesaggio lagunare e i gesti degli uomini, affaccendati attorno alla grande imbarcazione in cantiere, nell’intonazione pallida e uniforme della luminosità, l’analisi lenta e meditata con cui l’artista si sofferma a descrivere gli elementi pittorici con attenzione minuziosa, assume un valore evocativo, oltre che formale, fondendosi con il rimpianto per un mondo più semplice, sereno e ordinato, almeno nel ricordo, come quello della Restaurazione, cui per altro il dipinto sembra, anche figurativamente, fare riferimento.

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Nell’estate del 1874 decide di fare un breve viaggio a Parigi per visitare il Salon; ma non abbandonerà più la città, dove ritrova Giovanni Boldini e Giuseppe de Nittis e tramite loro conosce Degas, che lo stima al punto da invitarlo ad esporre col gruppo impressionista. Al “Nouvelle Athènes”, uno dei locali in cui i ribelli della pittura si incontrano, Zandomeneghi è uno dei frequentatori più assidui e il pittore veneziano stringe una forte amicizia anche con Renoir. I primi anni di Zandomeneghi a Parigi sono oscuri e, passati i primi successi come ritrattista su commissione, poco si sa delle sue opere, a volte non datate e molto differenti tra loro; sicuramente l’artista non trova immediatamente attenzione a Parigi né porte aperte, tanto che nel 1877 confessa a Fattori il proposito di tornare a Venezia “indefinitamente”. Nel 1878 la presenza di Diego Martelli a Parigi lo sprona ad elaborare dipinti di qualità come il ritratto dell’amico, presentato alla quarta esposizione impressionista nel 1879.

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Federico Zandomeneghi
Ritratto di Diego Martelli
1879
olio su tela - 72 x 92 cm.
Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti, Firenze


Il ritratto raffigura il critico Diego Martelli durante il suo soggiorno a Parigi nel 1878-1879, dove ebbe modo di entrare in contatto con il mondo impressionista ed inviare così le sue corrispondenze sulle novità ed idee della scuola impressionistica, ai giornali italiani. L’impianto compositivo del ritratto risente della tecnica di Degas. Presentato al pubblico nel 1879 alla quarta esposizione impressionista fu inviato a Firenze solo nel 1895. L’artista infatti riteneva questo dipinto, diversamente dall’altro ritratto fatto all’amico Diego nel 1870, poco originale e mal riuscito e lo donò al critico solo dopo le sue ripetute insistenze.

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Federico Zandomeneghi
Ritratto di Diego Martelli allo scrittorio
1870
olio su tela - 63 x 41 cm.
Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti, Firenze


Eseguito tra la fine del 1869 e il 1870 a Firenze, dove Zandomeneghi si trovava, ospite di Martelli, per l’Esposizione della Società Promotrice fiorentina del 1869, il critico è ripreso mentre si trova al proprio tavolo di lavoro, in una veste da camera con eleganti alamari rossi, intento a scrivere un articolo che lo rende pensoso. La composizione serrata, che costringe in uno spazio limitatissimo la figura dell’intellettuale, compressa fra lo scrittoio e la libreria, rimedita le rappresentazioni di pensatori e studiosi eseguite nel Quattrocento, e, come in quelle, descrive gli oggetti di lavoro di uno scrittore: lo schedario, il calamaio, i fogli con gli appunti, qui tradotti in parole moderne. La luce limpida definisce con precisione la figura e gli oggetti, e fa risaltare sui toni dei legni il bianco delle carte, il rosso ciliegia della veste da camera di Diego.

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Dei tre “italiens de Paris”, Zandomeneghi è quello che ha avuto legami più duraturi e profondi con l’ambiente impressionista e post-impressionista, partecipando ininterrottamente dal 1879 a tutte le mostre del movimento. La Parigi di Zandomeneghi non è la Parigi elegante, mondana e internazionale celebrata da De Nittis e Boldini, ma si racchiude nel quartiere bohèmien per eccellenza, Montmartre, dove l’artista viveva a fianco di Toulouse-Lautrec e della sua modella Suzanne Valadon, che raffigurò nel dipinto “Al Caffè Nouvelle Athènes”, seduta a un tavolino di fronte a lui stesso.



Federico Zandomeneghi
Al Caffè Nouvelle Athènes
1885
olio su tela - 90 × 70 cm
Collezione privata


Federico Zandomeneghi si lega fra gli altri a Camille Pissarro e a Jean-Baptiste Guillaumin e tramite quest’ultimo inizia ad apprezzare il “pointillisme” di Georges Seurat e di Paul Signac, tanto da eseguire dipinti quali “La lezione di canto”, in linea con le meditatissime ricerche pittoriche di quegli artisti.



Federico Zandomeneghi
La lezione di canto
1890
olio su tela - 65 x 54,6 cm.
Gallerie d’Italia, Milano


Con la fine del sodalizio impressionista si apre per Zandomeneghi un periodo oscuro che termina con la personale nel 1893 da Durand Ruel e il successivo contratto con il gallerista, che diventerà il suo mercante e che pretende da lui una serie di dipinti a soggetto femminile, a cui il pittore si applica negli anni con ripetitività. “Verso la fine di gennaio il padre Durand-Ruel ritornato dall’America venne spontaneamente a trovarmi e mi disse che dovevo lavorare molto, che i pittori di figura erano scarsi, che avrebbe pensato a pagarmi i modelli a farmi riprendere un po’ di coraggio e tante altre belle cose. Scielse intanto una mezza dozzina di quadri nuovi che mise nella sua galleria insieme a molti altri miei che teneva giù in deposito da qualche anno e io mi misi accanitamente al lavoro…” .

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Federico Zandomeneghi
A letto (In Bed)
1878
olio su tela - 74 x 61 cm.
Galleria d’Arte Moderna, Palazzo Pitti, Firenze


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Al di fuori del rapporto economico esegue ritratti e vedute di ben altra sostanza formale. Nel 1893, nel 1898 e nel 1908 vengono organizzate a Parigi tre personali del pittore e una mostra gli sarà allestita alla
Biennale di Venezia, che tuttavia non riscuote successo presso la critica dell’epoca. Fin dal suo arrivo a Parigi, Zandomeneghi aveva fissato la sua residenza al numero 7 di rue Tourlaque, a Montmartre, il nuovo quartiere parigino che si andava costruendo in quegli anni intorno ai residui di orti e vigneti, tracce del suo passato campagnolo di cui erano testimonianza alcuni mulini, come il Moulin Debray, destinati ad essere trasformati in popolari luoghi di ritrovo. Lì il 31 dicembre del 1917 viene rinvenuto il suo corpo senza vita, ai piedi del letto. Lo studio viene smantellato: le opere sue e quelle di altri artisti nel suo studio, fra cui Fattori, Lega e Signorini, messe all’asta per pochi soldi. (M.@rt)

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Federico Zandomeneghi
La modella che riposa in studio
(The model resting in the studio)
datazione ignota
olio su tela - 22 x 16,3 cm.
Collezione privata








Edited by Milea - 15/11/2023, 19:30
view post Posted: 14/11/2023, 22:25 by: Lottovolante     +1SOUVENIR D'UN VOYAGE À COUBRON - J.B. Camille Corot - ARTISTICA


Vorrei fare una carezza ai ricordi.
A quelli perduti, confusi, incerti.
Magari adesso hanno freddo...





Jean-Baptiste-Camille Corot
Ricordo di un viaggio a Coubron
(Souvenir d'un voyage à Coubron)
1873
Olio su tela
32.4 × 46 cm
Londra, National Gallery


Lo stagno paludoso in primo piano a sinistra si fonde con il terreno che sale verso una piccola collina a destra, dove due edifici sono incastonati dietro una fila di alberi ad alto fusto. Coubron, che si trova a est di Parigi, era la casa degli amici di Jean-Baptiste-Camille Corot, i Gratiots, dove il pittore francese fece la prima di molte visite nel 1867. All'inizio degli anni Settanta del XIX secolo Corot era un artista ricercato e di successo e nel 1872, alla ricerca della pace e della tranquillità che non era più possibile avere a Parigi, decise di far costruire un piccolo studio adiacente alla loro casa, che fu inaugurato il 15 aprile 1873. È in questo periodo che gli viene l'idea di questa veduta, ma in realtà la dipinge in maggio, dopo un piccolo schizzo, mentre soggiorna a Ville-d'Avray.





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Non era insolito per Corot dipingere paesaggi in studio in questo modo, soprattutto negli ultimi anni, e molti dei suoi "souvenir" sono ricordi di luoghi di particolare importanza che aveva visitato nel corso della sua vita. Ciò non significa, tuttavia, che tutto in questi paesaggi fosse necessariamente fedele a ciò che aveva osservato in origine, e spesso attingeva a un bagaglio di immagini per costruire una composizione.





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Le case, ad esempio, con i loro caratteristici frontoni, compaiono in molti dei suoi ultimi dipinti. Un raggruppamento molto simile, con una casa più alta affiancata da una più bassa, si trova sullo sfondo di Sollevare le reti del 1871 (Musée d'Orsay, Parigi) e un gruppo più complesso appare sullo sfondo de "L'inondazione del saliceto" di circa un anno precedente (Collezione privata), anch'esso un'evocazione di un paesaggio acquatico.




Jean-Baptiste-Camille Corot
L'inondazione del saliceto
(Inondation dans un saulie)
1870 circa
Olio su tela
48.9 x 60.3 cm
Collezione privata






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Il trattamento è tipico dello stile tardo di Corot. Mentre il cielo è dipinto in modo piuttosto consistente, il paesaggio presenta un primo strato estremamente sottile in grigio-verde, con la trama della tela che traspare dappertutto. Anche i tronchi degli alberi sono dipinti in modo molto sottile e il fogliame è stato reso con una massa di pennellate orizzontali in grigio e verde lattiginoso, creando la superficie scintillante che è così caratteristica della sua opera matura. (Mar L8v)





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view post Posted: 14/11/2023, 21:17 by: Milea     +1Federico Zandomeneghi - Il risveglio (Femme qui s’étire) - I Macchiaioli

Zandomeneghi-Il-risveglioP

Federico Zandomeneghi (Venezia, 1841 - Parigi, 1917)
Il risveglio (Femme qui s’étire)
1895 circa
pastello su cartone - 73 × 60 cm.
Museo di Palazzo Te, Mantova


Spesso Federico Zandomeneghi, nei suoi dipinti, ha celebrato la donna e la sua quotidianità: la femminilità come un valore da innalzare, dal rito della toilette alla lettura, fino alle serate mondane a teatro. Il pittore nella tela in esame raffigura di spalle, in primo piano seduta su una poltrona della camera da letto, una giovane donna ancora in abito da camera, con i lunghi capelli raccolti sulla nuca; si è svegliata da poco e, probabilmente ancora un po’ assonnata, stira le braccia verso l’alto. Di fronte a lei, sullo sfondo, la domestica apre l’anta dell’armadio e ne osserva il contenuto. Il tema del risveglio con una figura femminile che si stiracchia, può essere considerato una delle scene più caratteristiche dell’artista.

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Federico Zandomeneghi
Risveglio: donna che si stira
1886
olio su tela- 124,8 x 99,1 cm.
Collezione privata






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Affrontato altre due volte negli anni Ottanta, con le modelle nude, in piedi o sedute, che si stiracchiano, questa versione elegante del tema è stata realizzata dall’artista veneziano a pastello su un supporto di carta applicata su cartone, con una tecnica di indubbia maestria. L’impianto compositivo della scena è profondamente modificato rispetto ai precedenti: nella raffigurazione l’ambiente, un borghese ed elegante interno di boudoir, assume un ruolo predominante, con le figure persino nascoste dall’arredamento. L’opera, con la presenza della figura della cameriera, propone una scena di genere e racconto sociale, come accade anche in altre opere di Zandomeneghi negli anni immediatamente successivi al contratto con il gallerista Durand-Ruel, il mecenate di tutti i pittori impressionisti.


Si tratta di una delle opere di maggior potenza espressiva dell’artista, dettagliata sia nel soggetto sia nella tecnica che vede il colore steso con elegante accuratezza in più strati di filamenti colorati con ricche sovrapposizioni che cesellano figure e particolari. Per conservare la freschezza e la brillantezza dei colori Zandomeneghi posa con cura i tratti del pastello, accostandoli in modo da creare armonie cromatiche e utilizzando pastelli di diversa durezza per evitare di intaccare gli strati sottostanti, ottenendo così una vivacità cromatica simile a quella delle opere di Degas, ma senza l’utilizzo di fissativi. L’opera “Il Risveglio” è considerata dalla critica il culmine della ricerca tecnica di Zandomeneghi sulla “pittura a secco”, quasi un’anticipazione della sensibilità post-impressionista. (M.@rt)






Edited by Milea - 15/11/2023, 18:59
view post Posted: 14/11/2023, 13:25 by: Lottovolante     +1MARIO DE BIASI E MILANO. EDIZIONE STRAORDINARIA - CAFFE' LETTERARIO


MARIO DE BIASI
L'UOMO CHE POTEVA FOTOGRAFARE TUTTO IN MOSTRA A MILANO




I suoi ritratti della Milano d’antan in mostra al Museo Diocesano





Mario De Biasi, Due tranvieri guardano le corse dell'Ippodromo. Milano, anni '50.



"Mi permetto di presentarmi: ho cominciato a fotografare due anni fa
e non pretendo di mettermi in gara con gli assi dell’obiettivo.
Voglio solo dare testimonianza della mia passione per la fotografia".


Era il 1949 quando Mario De Biasi si affacciava sulle pagine del mensile Fotografia in occasione della sua prima mostra personale. Nel giro di qualche anno sarebbe diventato uno dei più importanti fotoreporter Italiani e in seguito uno degli autori più prolifici e più eclettici di sempre, testimone di mezzo secolo di storia, o come disse Enzo Biagi "l’uomo che poteva fotografare tutto".



Mario De Biasi, Gamba de legn, Milano, 1951.


A cent’anni dalla nascita di De Biase, il prossimo autunno una grande mostra ne celebrerà il talento a Milano, la sua città d’adozione. Dal 14 novembre al 21 gennaio presso il Museo Diocesano Carlo Maria Martini potremo ammirare settanta fotografie vintage, provini e scatti inediti provenienti dall’Archivio Mondadori e dall’Archivio De Biasi. Un'edizione straordinaria che è una finestra sull’Italia tra gli anni Cinquanta e Sessanta, ma anche la testimonianza dei numerosi viaggi compiuti dal fotografo: dall’India a Budapest durante la rivoluzione, dal Giappone alla Siberia, fino allo sbarco sulla Luna con le celebri immagini di Neil Amstrong.



Mario De Biasi, Gli italiani si voltano (provini), Milano, 1954.


Totalmente inediti i frame che precedono e seguono l’iconico scatto Gli Italiani si voltano, realizzato nel 1954 per il settimanale di fotoromanzi Bolero Film, che Germano Celant scelse per aprire la mostra Metamorfosi dell'Italia, organizzata nel 1994 al Guggenheim di New York. L’immagine immortala un gruppo di uomini che osservano Moira Orfei, inquadrata di spalle e vestita di bianco mentre passeggia per il centro di Milano.



Mario De Biasi, Gli italiani si voltano, Milano, Moira Orfei, 1954.


"Il Duomo, la città, la gente e la moda, senza ordine o punteggiatura…", ricorda la curatrice Maria Vittoria Baravelli: "Milano è quinta e campo base, luogo di una danza infinita da cui De Biasi parte per tornare sempre, dedito a immortalare dalla Galleria ai Navigli, alla periferia, una città che negli anni Cinquanta e Sessanta si fa specchio di quell'Italia che diventa famosa in tutto il mondo".



Mario De Biasi, Galleria Vittorio Emanuele II, Milano, anni Cinquanta.


Con sguardo lucido, evocativo e immediato ad un tempo, De Biasi racconta la ricostruzione e il miracolo italiano con il capoluogo lombardo come epicentro. L’esposizione si snoda attraversando idealmente la città dal centro alle periferie. Ci sono i turisti che si affacciano dal tetto del Duomo e che affollano i bar della Galleria Vittorio Emanuele II, ma anche i pendolari alla stazione ferroviaria di Porta Romana. E poi San Babila, l’Arco della Pace, scorci di una Milano oggi impossibile dove le chiatte risalgono i Navigli e tutti si meravigliano del mondo che cambia.



Mario De Biasi, Arrivo dei pendolari alla stazione di Porta Romana, Milano 1955


L’approccio autoriale di De Biasi alla fotografia si arricchisce di acume giornalistico nel 1953, quando viene assunto come fotoreporter da Epoca, celebre rivista ideata sul modello dei periodici illustrati statunitensi e animata, tra gli altri, da Aldo Palazzeschi e Cesare Zavattini. Secondo il direttore Enzo Biagi, De Biasi era l’unico in grado di garantire sempre al giornale "la foto giusta", anche se per guadagnarla doveva rischiare la vita tra pallottole e schegge di granata, come accadde nei tanti servizi bellici della sua carriera. Oppure confrontarsi con i grandi personaggi di allora tra intellettuali, attrici e artisti.

Mario De Biasi e Milano. Edizione straordinaria
sarà visitabile presso il Museo Diocesano Carlo Maria Martini dal 14 novembre 2023 al 21 gennaio 2024.





Mario De Biasi - Domenica d'Agosto in Viale Forlanini, Milano, 1949.



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Mario De Biasi, Un vetturino in attesa di clienti in piazza Castello, Milano 1957.

view post Posted: 13/11/2023, 15:41 by: *Vanilla*     +1Mick Jagger incorona Damiano dei Måneskin: il murale di TVboy - NEWS

Mick Jagger incorona Damiano dei Måneskin:
il murale di TVboy





La nuova opera dell’urban artist TvBoy, molto attivo anche sui muri della Capitale. è apparsa in Vicolo del Fico, a Roma, nella stessa stradina dove sorgeva negli anni Novanta ‘Il Locale’ punto di incontro e di svolta di un’intera generazione di artisti. Lo street artist italiano ha reso omaggio ai Måneskin con un’opera - intitolata “L'incoronazione”: facendo riferimento alla dichiarazione di Mick Jagger che indicava la formazione di “Zitti e buoni” come “la più grande rockband del mondo”, l’artista ha ritratto il frontman dei Rolling Stones incoronare la voce di “Beggin”.

Il re sorridente Mick Jagger passa la corona al suo successore, serio nel percepire il “peso” che si appresta a sostenere, Damiano David dei Måneskin, inginocchiato di fronte al sovrano. Jagger che con i Måneskin ha suonato anche sul palco permettendogli di aprire al suo live a Las Vegas, aveva già così definito la band romana: “I Måneskin sono oggi la più grande rockband al mondo. Stupisce che sia un gruppo italiano”.

L'opera cita il celeberrimo dipinto“L'incoronazione di Napoleone” di Jacques-Louis David, monumentale olio su tela oggi conservato al Museo del Louvre di Parigi. All’anagrafe Salvatore Benintende, nato a Palermo nel 1980, TVboy è uno degli street artist ita-liani più popolari: laureato in design presso il Politecnico di Milano, l’artista si è visto dedicare mostre - oltre che a Milano, dove ha esposto anche la Padiglione d’Arte Contemporanea - a, tra le altre città, Copenaghen e Barcellona, operando interventi di arte urbana per le strade di importanti città internazionali come Monaco, Berlino, Londra, Parigi, New York, Los Angeles e San Francisco.


Quello dedicato ai Måneskin in realtà è la quarta opera realizzata da TVboy a Roma. Le prime due, una dedicata al primo governo presieduto da Giuseppe Conte, la seconda alla solerzia con la quale l’amministrazione comunale della Capitale ha cancellato la prima, oggi non sono più visibili. La terza, realizzata in Vicolo degli Osti e intitolata “Stop abuse”, è dedicata all’impegno di Papa Francesco nel contrastare gli abusi sessuali sui minori da parte del clero cattolico.


Fonte



view post Posted: 10/11/2023, 22:00 by: Lottovolante     +1LE QUATTRO ORE DEL GIORNO - Jean-Baptiste-Camille Corot - ARTISTICA


Gloria del disteso mezzogiorno
quand’ombra non rendono gli alberi,
e più e più si mostrano d’attorno
per troppa luce, le parvenze, falbe.
Il sole, in alto – e un sécco greto.





Jean-Baptiste-Camille Corot
Mezzogiorno
(Noon)
Secondo dipinto della serie "Le quattro ore del giorno"
1858
Olio su tavola
142.2 × 62.2 cm
Londra, National Gallery


Questo è il secondo quadro della serie "Le quattro ore del giorno" che Jean-Baptiste-Camille Corot dipinse per l'amico artista Alexandre-Gabriel Decamps. Nel "Mattino" la fonte di luce proviene dal fondo e dalla destra del quadro. In "Mezzogiorno" la luce è aumentata e distribuita in modo più uniforme, per ottenere la massima chiarezza visiva. Nel suo libro "Éléments de perspective pratique", Pierre-Henri de Valenciennes aveva esortato i pittori a cogliere l'intensa luce del mezzogiorno, quando:

"la natura [è] preda dei fuochi divoranti dell'alta estate [e] le ombre
proiettate sono appena più lunghe dei corpi che le producono
".







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C'è anche un generale schiarimento dei toni che si nota soprattutto nei tronchi degli alberi, nel cielo blu pallido e nelle colline lontane. Come spesso faceva, Corot ha aggiunto della vernice bianca per ottenere questo risultato, una tecnica adottata da Camille Pissarro. Si nota anche una maggiore differenziazione dei colori: ad esempio, il fogliame verde-marrone scuro del "Mattino" è stato sostituito da un fogliame composto da verde e grigio chiaro. L'applicazione della pittura è ancora sommaria e in diversi punti si notano tracce di setole del pennello.





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Vicino a noi, un giovane in camicia bianca e cappello rosso appoggia il piede sinistro su una roccia mentre si aggiusta la scarpa. A differenza della figura del "Mattino, possiamo vedere il suo volto (di profilo) e il suo abbigliamento è più dettagliato. Illuminato dall'alto, non fa quasi ombra, in linea con l'osservazione di Valenciennes. Più indietro, un uomo con un bastone e una donna con un cappello bianco camminano lungo il sentiero, anche se la loro direzione di marcia non è chiara; poiché la donna (a sinistra) sembra allontanarsi da noi, mentre l'uomo sembra venire verso di noi, forse si stanno incrociando piuttosto che camminare il'uno accanto all'altra. (Mar L8v)





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view post Posted: 10/11/2023, 13:51 by: Lottovolante     +1DA MONET A MATISSE - FRENCH MODERNS 1850-1950 - CAFFE' LETTERARIO


DA MONET A MATISSE
L'ARTE DEL BROOKLYN MUSEUM A PALAZZO ZABARELLA




Sotto la lente la Francia, centro artistico del modernismo internazionale dalla metà dell’800 alla metà del '900





Claude Monet
Il parlamento, effetto del sole
1903
Olio su tela
81.3 x 91.2
New York, Brooklyn Museum


L’inverno di Palazzo Zabarella si appresta a ripercorrere uno dei secoli più affascinanti della storia dell’arte, quando i pittori si allontanarono dalla tradizione artistica accademica per concentrarsi su soggetti della vita quotidiana. Dal 16 dicembre al 12 maggio il percorso Da Monet a Matisse. French Moderns, 1850–1950 accoglierà cinquantanove opere provenienti dalla straordinaria collezione europea del Brooklyn Museum. Fondata nel 1823 come Brooklyn Apprentices' Library Association, riconosciuta come uno dei principali depositari del modernismo francese del nord America, l’istituzione newyorkese vanta una collezione permanente di oltre centoquarantamila oggetti (dall’arte egizia a quella contemporanea). Organizzata da Lisa Small, curator senior di Arte Europea, e Richard Aste, ex curatore di Arte Europea del Brooklyn Museum, che hanno selezionato i capolavori presenti in mostra, l’esposizione abbraccerà dipinti e sculture frutto dei pennelli dei principali artisti dell’epoca, da Pierre Bonnard a Gustave Caillebotte, da Paul Cézanne a Marc Chagall, da Gustave Courbet a Henri Matisse, da Claude Monet a Berthe Morisot.



Berthe Morisot
Madame Boursier e sua figlia
1873 circa
Olio su tela
56.8 x 74.5
New York, Brooklyn Museum


Seguendo i movimenti d'avanguardia che hanno definito l'arte moderna dalla fine del XIX secolo alla metà del XX secolo segnando un passaggio formale e concettuale dalla rappresentazione del pittorico all'evocazione dell'idea, da un focus sul naturalismo all'ascesa dell'astrazione, il pubblico apprezzerà esempi dei movimenti chiave del periodo - realismo, impressionismo, post-impressionismo, simbolismo, fauvismo, cubismo e surrealismo - sbocciati a Parigi e dintorni tra il 1850 e il 1950.



Alfred Sisley
Inondazione a Moret
1879
Olio su tela
71.8 x 54 cm
New York, Brooklyn Museum


Articolata in quattro sezioni - Paesaggio, Natura morta, Ritratti e figure, e Il nudo - la mostra si apre con il meticoloso realismo dei pittori accademici come Gérôme e Bouguereau, per cedere il passo alle pennellate più sciolte della generazione di Millet e Boudin, alle spiagge della Normandia e ai contadini nei dintorni di Parigi, a Sisley e Pissarro che descrivono le prove, gli errori e le innovazioni del primo modernismo. Se gli Impressionisti, guidati da Monet, Renoir, Cézanne e Degas, hanno rivoluzionato le convenzioni del soggetto e dello stile, immortalando su tela scene quotidiane con colori vivaci e pennellate espressive, la generazione successiva ha consentito al colore, alla forma e alla pennellata di avere la precedenza sul soggetto. Attraverso capolavori di Matisse, Bonnard, Chagall e gli altri che si trasferirono a Parigi all'inizio del XX secolo, l'esposizione seguirà l’evoluzione dell'arte espressionista accogliendo le opere di Rodin, Degas e di altri autori.



Claude Monet
Marea crescente a Pourville
1882
Olio su tela
66 x 81.3 cm
New York, Brooklyn Museum


Così nella sezione dedicata alla natura morta, che a partire dal 1850 ritrova popolarità grazie agli artisti che mirano a indurre sensazioni che trascendono l’esperienza fisica per giungere al regno psicologico e spirituale, il pubblico ritrova opere come i Fiori di Matisse e Natura morta con tazza blu di Renoir. Il paesaggio, divenuto per gli artisti espressione di modernità, vibra invece in opere come La salita di Pissarro, dove si può osservare una prospettiva cubista in erba. Una nuovo tipo di nudo, distante dagli ideali della scultura greca classica e dai suoi soggetti storici e mitologici, ormai impregnato delle mutevoli prospettive dell'astrazione, è evidente in opere come la scultura L’età del bronzo di Rodin.



Paul Cézanne
Il villaggio di Gardanne
1885-1886
Olio e pastello conté su tela
92,1 x 73,2 cm
New York, Brooklyn Museum


A partire dalla metà del XIX secolo, la diffusione dell'abbigliamento prêt-à-porter a prezzi accessibili spinge gli artisti a ritrarre i cittadini vestiti alla moda. Alcuni fissano su tela il glamour della Belle Époque, altri si soffermano sulle personalità più eccentriche, altri ancora subiscono il fascino di costumi legati a particolari culture religiose o popolari. In mostra François Millet, con Pastore che si prende cura del suo gregge, restituisce la cruda realtà della vita contadina, mentre Berthe Morisot, con Ritratto di Madame Boursier e di sua figlia si concentra sui vincoli sociali. Infine Chagall con Il musicista trascrive i ricordi dei suoi primi anni di vita.




Camille Pissarro
La salita
1875
Olio su tela
54 x 65.7 cm
New York, Brooklyn Museum



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Jean-François Millet
Pastore che si prende cura del suo gregge
1860 circa
Olio su tela
81.8 x 100.5
New York, Brooklyn Museum



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Jules Breton 
La fine della giornata lavorativa
1886-1887
Olio su tela
84 x 120 cm
New York, Brooklyn Museum



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Edited by Lottovolante - 10/11/2023, 16:29
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