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La leggenda di Colapesce
(leggenda siciliana)
Renato Guttuso Mito di Colapesce 1985 quarantatrè pannelli a olio Teatro Vittorio Emanuele, Messina C’era una volta, tanto tempo fa, un ragazzo di nome Nicola, detto Cola, figlio più piccolo di una numerosa famiglia di pescatori, che viveva a Messina, in una capanna vicino alla spiaggia. Sveglio, agile e vigoroso, sin dalla prima infanzia aveva dimostrato di essere molto legato al mare. La sua gioia più grande era quella di tuffarsi tra le onde, e nuotare per ore e ore sott’acqua. Non si sa come egli potesse rimanere tutto quel tempo immerso senza sentire il bisogno di venire a galla e respirare e, quando finalmente risaliva alla superficie e tornava a casa, raccontava ai genitori e ai fratelli tutte le meraviglie che aveva visto negli abissi marini. Laggiù in mezzo a rovine di antichissime città inghiottite dai flutti, egli diceva di aver visto fantastiche foreste di corallo rosso, rosa e bianco, fiori di magnifici colori, grotte schiarite da bagliori fosforescenti, pesci di ogni sorta, forma e dimensione, e giganteschi mostri marini che lottavano fra loro in modo terribile.
Tutti lo credevano matto, a cominciare dalla sua stessa famiglia, per queste storie incredibili; la madre era disperata, non sapeva più che fare con questo figlio scansafatiche, che non solo non provvedeva a lavorare, ma si permetteva di ributtare in mare i pesci che il padre ed i fratelli avevano appena pescato... e tutto questo perché lui amava le creature del mare e non sopportava che qualcuno le uccidesse. Disperando di ridurlo al dovere, lo maledisse, dicendogli: “Possa tu diventar pesce!”. La maledizione ebbe effetto: subito le sue carni si coprirono di squame e le mani e i piedi divennero simili a zampe d’anatra. Gli abitanti del paese, che seguivano con curiosità le imprese del giovane, lo soprannominarono Colapesce, perché per loro era mezzo uomo e mezzo pesce; alcuni marinai giuravano di aver visto le branchie sotto le sue orecchie.
La genti lu chiamava Colapisci pirchì stava ‘nto mari comu ‘npisci dunni vinìa non lu sapìa nissunu fors’ era figghiu di lu Diu Nittunu Un giorno il ragazzo raccontò di aver trovato una nave naufragata che conteneva un immenso tesoro; in breve tempo Cola riuscì a recuperare tutto l’oro, l’argento, le gemme e gli oggetti preziosi che erano sulla nave, permettendo così ai suoi cari di vivere agiatamente. Le storie meravigliose da lui raccontate fecero in breve tempo il giro dell’isola: la sua fama di ottimo nuotatore e audace esploratore degli abissi marini, si diffuse in tutta la Sicilia. Di lui si raccontavano imprese mirabolanti su come avesse salvato intere navi ed equipaggi dalle tempeste e di come sapesse giungere a nuoto sino alla Campania e alla Puglia.
La fama di Nicola arrivò alle orecchie di Ruggero d’Altavilla, duca di Puglia e Calabria e primo sovrano del neonato Regno di Sicilia, che incuriosito da questo strano personaggio, volle conoscerlo per constatarne le capacità strabilianti, che fino ad allora sembravano frutto dell’immaginazione dei marinai dello Stretto di Messina. Così il re, circondato dalla sua corte di cavalieri e principesse decise di recarsi in Sicilia per interrogarlo sulle sue esperienze e sulle creature degli abissi. Salito su una barca, si fece trasportare nel mezzo dello stretto, dove sostava la nave ammiraglia presso la quale i due si incontrarono.
Dalla sua galea, Ruggero e sua sorella Boemonda, videro un uomo aggrappato al fianco di un giocoso delfino; fu fatto salire a bordo per scrutarne lo strano aspetto. Pelle scura, con a tratti riflessi iridati tipici delle squame, occhi sporgenti, guance cascanti, labbra enormi e testa che ricordava vagamente una triglia; i capelli lunghi e ingarbugliati sembravano una matassa di alghe.
Il fisico era asciutto e ben proporzionato e appena iniziò a parlare con voce melodiosa, come modulata dai flutti dell’acqua, raccontò di come sapesse nuotare a grandi profondità, giocando con le murene tra le formazioni di spugne e coralli e cavalcando i delfini; descrisse le strane creature che aveva visto negli abissi: tonni, pesci spada, balene, e il temibile calamaro gigante che giaceva nei fondali dello Stretto e i cui tentacoli, quando la sua testa toccava Messina, arrivano fino in Calabria.
Raccontò anche di aver intravisto le sirene una volta, udendo i loro soavi canti e di quella volta che, spingendosi più sul fondo marino, aveva scoperto navi sommerse e grandi praterie di alghe, che si muovevano come i prati della Sicilia agitati dal vento e di quando era sopravvissuto per miracolo all’attacco di una grossa piovra. I pescatori, giunti tutti intorno con le loro barche per ascoltarlo, narrarono di quella volta in cui Cola aveva affrontato Scilla, uno dei due mostri di mare che vivevano nello stretto, e di come lo avesse costretto a fuggire in una grotta marina.
Il re volle mettere alla prova le capacità di Colapesce: prese la coppa da cui aveva finito di bere e la scagliò al di là del parapetto dell’imbarcazione, chiedendo a Cola di riportargliela. Il giovane baldanzoso si immerse e non riemerse per molte ore, tanto che si temette per la sua vita, fino a quando, mentre il sole era al suo culmine, si vide la coppa brillare in superficie, sorretta dalla mano di Cola che riemergeva trionfante.
Interrogato dal re egli raccontò di aver visto moltissime specie di pesci, cetacei e ricci giganti, nuotando dove l’acqua era diventata molto scura e di essere riuscito a scorgere la coppa grazie alla luce intensa di un grande fuoco che ardeva in una caverna sottomarina, illuminando il fondale. Dubitando che un fuoco potesse ardere dentro l’acqua, il re chiese maggiori spiegazioni a Cola, il quale gli spiegò che era il fuoco dell’Etna ad albergare lì in fondo, lo stesso fuoco che di tanto in tanto saliva sulla cima del vulcano causando danni e vittime.
Allora preso dalla curiosità il re si tolse la corona e la gettò tra i flutti, chiedendo ancora a Cola di recuperarla, e ancora una volta il giovane si tuffò. Passarono moltissime ore; il sole tramontò e poi sorse di nuovo, ma di Cola non vi era traccia. Non si ebbero sue notizie per due giorni finché, all’alba del terzo giorno i presenti non videro una testa bruna affiorare dalle acque: era Cola, che stringeva tra le mani la corona, i cui diamanti brillavano alla luce del sole nascente. Il pescatore era stremato e raccontò di come la corona, finita in un vortice, fosse diventata invisibile ai suoi occhi, costringendolo a fare tutto il giro dell’isola per ritrovarla, nuotando più a fondo che mai ed incontrando creature marine di ogni sorta, inclusa la piovra che tempo prima aveva tentato di ucciderlo.
Ma il suo racconto fu persino più stupefacente; mentre ancora ansimava, descrisse il prodigioso fuoco sotterraneo, una fiamma ardente simile a quella che scaturisce dall’Etna, oltre il quale, in una prateria sottomarina, si stagliavano tre pilastri alti come montagne. Alzando gli occhi Colapesce si accorse che essi sostenevano la Sicilia intera: la colonna più a nord era nera come l’ossidiana, la seconda, verso sud era di granito ma si stava sbriciolando su un lato, la terza, a occidente era intaccata alla base e cigolava, forse corrosa dal fuoco sottomarino. Questa terza colonna si trovava nei pressi di quel grande fuoco, tra Messina e Catania, dove persino le creature marine non passavano, per paura di rimanere uccise; se un giorno la lava fosse colata fin là il pilastro si sarebbe sbriciolato e la Sicilia sarebbe sprofondata in mare. Nel luogo dove doveva esserci una quarta colonna si apriva la bocca di un pozzo profondo, dal quale Colapesce aveva recuperato la corona.
Il re dubitava ancora e volle che Cola scendesse di nuovo per portargli un segno di quel fuoco, ma Colapesce era stremato e tentennava sapendo della difficoltà di tale impresa, ma il re, presa la mano di Boemonda, che gli stava a fianco, le sfilò l’anello che aveva al dito e lo fece cadere oltre il bordo della nave. Il povero Colapesce, benché esausto, decise di tentare l’impresa. Portò con sé una ferula (una sorta di bastone) ed un pugno di lenticchie che, se fossero tornate a galla senza di lui, sarebbero state segno che era rimasto negli abissi. Tuffatosi, non si ebbero sue notizie per giorni e giorni; tutti andarono via e anche il re fece issare le vele per raggiungere Messina, assalito dal rimorso di aver mandato il giovane verso morte sicura. All’improvviso vicino alla barca spuntò dapprima il pugno di lenticchie, che galleggiavano su un’onda, poi si vide un bagliore sull’acqua, ed emerse la ferula, che bruciava come una torcia ardente. Colapesce era rimasto sott’acqua, per sorreggere la colonna consumata onde evitare che l’isola sprofondasse e quindi ancora oggi si troverebbe negli abissi a sopportare il peso dell’intera isola di Sicilia.
Su passati tanti anni Colapisci è sempri ddà Maestà! Maestà! Colapisci è sempri ddà
La gente di Messina, quando la terra è scossa dai terremoti, dice che Colapesce è ancora là, sul fondo del mare, a sorreggere la Sicilia e a fare la guardia perché l’isola non sprofondi, vivendo felice con i suoi amici delfini e godendosi il canto delle sirene.
Questa leggenda del mare, probabilmente una delle più belle mai raccontate, non è solamente una storia d’eroismo, ma anche una leggenda d’amore. I tre doni lanciati in mare dal re rappresentano la ricchezza (la coppa d’oro), il potere (la corona) e l’amore (l’anello), che alla fine costò l’impresa, e probabilmente la vita, a Colapesce. Sebbene la tradizione popolare attribuisca a svariati regnanti la figura del re (si parla soprattutto di Federico II e di Carlo V), le fonti storiche che raccontano la leggenda di Colapesce sono precedenti ad entrambi i re, e sono riconducibili al 1140, anno in cui pare che effettivamente Ruggero II abbia visitato Messina.
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