Posts written by Milea

view post Posted: 5/12/2023, 12:48     +8La magia delle Lucciole nelle leggende popolari - Favole, miti e leggende

La lucciola e il ragno


(favola popolare)


Tanto tempo fa, quando gli animali potevano parlare, un ragno invitò a cena una lucciola. La lucciola si preparò e, quando calò la sera, andò all’appuntamento. Entrò nel bosco scuro e raggiunse la siepe dove abitava il ragno. “Bene arrivata!”, disse lui. “Da dove passo?”, chiese la lucciola. “E’ talmente buio che non vedo la porta”. “Di qua, ma spicciati, che ho una fame da lupo”. La lucciola avanzò al buio. Dovete sapere che durante il giorno il ragno aveva tessuto una tela grande e robusta e l'aveva appesa davanti alla sua tana. Povera lucciola, stava finendo nella rete come un pesce!
“Avanti, un’altra mossa e sei arrivata!”. gridò ancora lui. Ma ecco, accadde qualcosa di inaspettato. La luna spuntò improvvisamente da dietro una nuvola e illuminò la scena. Com’era grande la tela del ragno! La lucciola la vide, si spaventò e fuggì via. Che fortuna, si era salvata! Ma che rischio aveva corso, andando in giro di notte al buio! “Da oggi alla sera uscirò solo con una lanterna!”, esclamò quando fu di nuovo a casa. E da allora la lucciola fa sempre così, perché ha imparato che fidarsi è bene, ma non fidarsi è meglio.


Lucciole da realizzare e colorare








view post Posted: 3/12/2023, 21:56     +10La magia delle Lucciole nelle leggende popolari - Favole, miti e leggende

La luna e le lucciole

(leggenda estone)


Un giorno Paigar, il signore del cielo, disse alla moglie: “Prepara una grande torta per tutte le nostre figlie, le stelle, che hanno molta fame e desiderano mangiare.” La moglie prese uova, farina e miele al lavoro. Le sue mani si mossero veloci e infaticabili e impastarono una torta gigantesca, morbidissima e dalla crosta dorata e luccicante. Quando le stelle la videro, brillarono più forte. “Guarda che splendida torta! Non possiamo aspettare che la mamma la tagli. Assaggiamola subito!”

Le stelle si buttarono golose sulla torta: una tirava di qua, un’altra spingeva di là, un’altra ancora affondava i denti nella soffice pasta, una pizzicava le sorelle perché facessero un po’ di posto, un’altra le prendeva per le tracce… In mezzo a tutta quella confusione, un grosso pezzo di torta, ridotto in briciole, precipitò a terra. La mamma scoppiò in lacrime: “Ho fatto tanta fatica a preparare questa torta e adesso guarda qua che disastro!”


Paigar prese quel che rimaneva del dolce squisito, poco più di un quarto, e lo appese in cielo, in alto in alto, in modo che le figlie non potessero prenderlo: era nata la Luna. E perché nulla andasse sprecato, trasformò le briciole cadute in insetti luminosi: aveva creato le Lucciole. Fatto questo, si girò verso le figlie golose: “Per punizione voi non mangerete più dolci per un bel po’!”

Poi si rivolse alla moglie che si stava asciugando le lacrime, le sorrise e le disse: “Guarda in su: vedi come splende il tuo pezzo di torta? Splenderà così per sempre e nessuno riuscirà mai a mangiarselo! Guarda in giù: vedi come brillano le briciole che tu credevi perdute? Sono divenute un pezzetto di firmamento regalato ai prati della Terra…



Vincent van Gogh
Notte stellata sul Rodano (Starry night on the Rhone)
1888
olio su tela - 72 x 92 cm.
Parigi, Musée d’Orsay



view post Posted: 3/12/2023, 12:19     +8La magia dell’Arcobaleno nelle leggende - Favole, miti e leggende

L’arcobaleno


(mito delle Filippine)


Ci fu un’epoca in cui gli dèi e le dee trascorrevano gran parte del loro tempo sulla Terra, accanto agli uomini. Da loro l’uomo imparò ad andare a caccia, a coltivare i campi, a cogliere le noci dalle palme più alte, a curare le malattie, e purtroppo anche a fare la guerra.

Un giorno Bàthala, il re degli dèi, decise di tornare nella sua casa celeste per vedere se tutto era in ordine; perciò sellò il suo cavallo, che era capace di correre più veloce del vento e delle nuvole. Appena il padrone gli saltò in groppa, il cavallo cominciò a galoppare senza mai fermarsi, e in un lampo arrivò sulla riva dell’oceano.
In quel punto il cielo era così vicino che si potevano sentire le voci di coloro che vivevano lassù. “Salta, mio bel cavallino!” gridò Bàthala. Ma il cavallo indietreggiò, puntando i piedi: quel salto era troppo anche per lui.

Allora Bàthala chiamò i suoi servi celesti, che calarono dall’alto un lungo nastro di sette colori. Quando il nastro toccò la Terra diventò un ponte abbastanza robusto da reggere cavallo e cavaliere, che galopparono sino al Cielo. Così nacque l’arcobaleno, che nelle Filippine si chiama bahaghari, che vuol dire “il ponte del re”. Ogni volta che lo si vede in cielo, la gente sa che il dio e il suo cavallo stanno andando dalla Terra al Cielo.




Camille Pissarro (1830 - 1903)
Paesaggio con arcobaleno (Paysage avec arc-en-ciel)
1889
matita e acquerello su seta - 30,2 x 59,7 cm.
Van Gogh Museum, Amsterdam






Edited by Milea - 7/12/2023, 10:53
view post Posted: 3/12/2023, 10:21     +8La magia dell’Arcobaleno nelle leggende - Favole, miti e leggende

La magia dell’Arcobaleno nelle leggende

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La leggenda dell’arcobaleno

(leggenda pellerossa)


Gli indiani dell’Ovest conoscono una leggenda che narra come per la prima volto l’arcobaleno spuntò nel cielo. Faceva un caldo soffocante; l’aria calda tremolava sulla prateria arida, i laghi e i fiumi erano secchi e la gente cercava rifugio all’ombra e si lamentava: “Ahimè, finiremo col morire tutti! La selvaggina è fuggita lontano in cerca di acqua. I pesci boccheggiano nel fango”.

Un piccolo serpente squamoso udì per caso quei lamenti; uscì dal suo nascondiglio e, con grande sorpresa di tutti, parlò con voce umana: “Io possiedo grandi poteri magici e posso aiutarvi. Lanciatemi in alto, nel cielo.”
“Ma ricadrai giù e morirai”, disse lo sciamano della tribù. “No, non cadrò. Mi attaccherò al cielo con le mie squame e le userò per carpire un po’ di pioggia e di neve per voi. I prati del cielo, forse non lo sapete, sono fatti di ghiaccio azzurro” rispose lo stregone.

Lo stregone non trovò nient’altro da ribattere e, raccolto il serpente, lo arrotolò e lo lanciò nel cielo limpido. Il serpente, volando alto nel cielo, si srotolò crescendo a dismisura, finché il suo corpo non fece un arco sulla Terra e il dorso squamoso giunse a grattare il ghiaccio azzurro. Il ghiaccio si sciolse e la pioggia cadde abbondante. Il corpo del serpente, nello sforzo, cominciò a cambiare colore, dal rosso al giallo, al verde. Era nato l’Arcobaleno.



Joaquín Sorolla y Bastida
El arco iris, El Pardo
1907
olio su tela - 62,5 x 91 cm.
Madrid, Museo Sorolla


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Il ponte dell’Arcobaleno

(leggenda delle tribù degli Indiani d’America)


Proprio alle soglie del Paradiso esiste un luogo chiamato il Ponte dell’Arcobaleno. Quando muore un animale che ci è stato particolarmente vicino sulla terra, quella creatura va al Ponte dell’Arcobaleno. E’ un posto bellissimo dove l’erba è sempre fresca e profumata, i ruscelli scorrono tra colline ed alberi ed i nostri amici a quattro zampe possono correre e giocare insieme.
Trovano sempre il loro cibo preferito, l’acqua fresca per dissetarsi ed il sole splendente per riscaldarsi, e così i nostri cari amici sono felici: se in vita erano malati o vecchi qui ritrovano salute e gioventù, se erano menomati o infermi qui ritornano ad essere sani e forti così come li ricordiamo nei nostri sogni di tempi e giorni ormai passati…

Qui i nostri amici che abbiamo tanto amato stanno bene, eccetto che per una piccola cosa, ognuno di loro sente la mancanza di qualcuno molto speciale che ha dovuto lasciarsi indietro. Così accade di vedere che durante il gioco qualcuno di loro si fermi improvvisamente e scruti oltre la collina, tutti i suoi sensi sono in allerta, i suoi occhi si illuminano e le sue zampe iniziano a correre velocemente verso l’orizzonte, sempre più veloce.

Ti ha riconosciuto e quando finalmente sarete insieme, lo stringerai tra le braccia con grande gioia, una pioggia di baci felici bagnerà il tuo viso, le tue mani accarezzeranno di nuovo l’amata testolina e i tuoi occhi incontreranno di nuovo i suoi sinceri che tanto ti hanno cercato, per tanto tempo assenti dalla tua vita, ma mai dal tuo cuore. E allora insieme attraverserete il Ponte dell’Arcobaleno per non lasciarvi mai più…




Pieter Paul Rubens
Paesaggio con arcobaleno (Landscape with Rainbow)
1636 circa
olio su tavola - 135,6 x 235 cm.
Londra, Wallace Collection


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Come nacque l’arcobaleno

(leggenda popolare)


Tanto tempo fa i colori litigavano furiosamente; ognuno di essi si proclamava di essere il migliore in assoluto, il più importante, il più utile, il favorito.

Il VERDE disse: “Chiaramente il più importante sono io; sono il segno della vita e della speranza. Io sono stato scelto dall’erba, dagli alberi, dalle piante. Senza di me tutti gli animali morirebbero. Guardatevi intorno nella campagna e vedrete che io sono in maggioranza…”

Il BLU lo interruppe: “Tu pensi solo alla terra, ma non consideri il cielo ed il mare! E’ l’acqua la base della vita che viene giù dalle nuvole nel profondo del mare. Il cielo dà spazio, pace e serenità. Senza di me voi non sareste niente.”

Il GIALLO rilanciò: “Voi siete tutti così seri! Io porto sorriso, gioia e caldo nel mondo. Il sole è giallo, la luna è gialla, le stelle sono gialle. Quando fioriscono i girasoli, il mondo intero sembra sorridere. Senza di me non ci sarebbe allegria.”

L’ARANCIONE si fece largo: “Io sono il colore della salute e della forza. Posso essere scarso, ma prezioso perché io servo per il bisogno della vita umana. Io porto con me le più importanti vitamine. Pensate alle carote, zucche, arance, mango e papaia. Io non sono presente tutto il tempo, ma quando riempio il cielo nell’alba e nel tramonto, la mia bellezza è così impressionante che nessuno pensa più ad uno solo di voi.”

Il ROSSO poco distante urlò: “Io sono il re di tutti voi. Io sono il colore del sangue ed il sangue è vita, è il colore del pericolo e del coraggio. Io sono pronto a combattere per una causa, io metto il fuoco nel sangue, senza di me la terra sarebbe vuota come la luna. Io sono il colore della passione, dell’amore, la rosa rossa, il papavero.”

Il VIOLETTO si eresse in tutta la sua altezza. Era molto alto e parlò con voce in pompa magna: “Io sono il colore dei regnanti e del potere. Re, capi e prelati hanno sempre scelto me perché sono il segno dell’autorità e della sapienza. Le persone non domandano… mi ascoltano ed obbediscono!”

Infine parlò l’INDACO molto serenamente, ma con determinazione: “Pensate a me: io sono il colore del silenzio, voi difficilmente mi notate, ma senza di me diventate tutti superficiali. Io rappresento il pensiero e la riflessione, il crepuscolo e le acque profonde. Voi tutti avete bisogno di me per bilanciare e contrastare, per pregare ed inneggiare alla pace.”

E così i colori continuarono a discutere ognuno convinto di essere superiore agli altri. Litigarono sempre più violentemente senza sentire ragioni. Improvvisamente un lampo squarciò il cielo seguito da un rumore fortissimo. Il tuono e la pioggia che seguì violenta, li impaurì a tal punto che si strinsero tutti insieme per confortarsi.

Nel mezzo del clamore la PIOGGIA iniziò a parlare: “Voi sciocchi colori litigate tra di voi e ognuno cerca di dominare gli altri. Non sapete che ognuno di voi è stato fatto per un preciso scopo unico e differente? Tenetevi per mano e venite con me”. Dopo che ebbero fatto pace, essi si presero tutti per mano. La PIOGGIA continuò: “D’ora in poi, quando pioverà ognuno di voi si distenderà attraverso il cielo in un grande arco di colori per ricordare che voi vivete tutti in pace. Era nato l’.





Edvard Munch
L'arcobaleno (The Rainbow)
1898
olio su cartone - 70 x 72 cm.
Oslo, Munch Museum






Edited by Milea - 3/12/2023, 10:59
view post Posted: 2/12/2023, 13:26     +10La magia delle Lucciole nelle leggende popolari - Favole, miti e leggende

La magia delle Lucciole nelle leggende popolari

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La leggenda della Lucciola


Ad adorare il bambino Gesù nella capanna di Betlemme insieme con gli altri animali accorsero anche gli insetti; per non spaventare il piccolo restarono in gruppo sulla soglia. Ma Gesù, con un gesto delle rosee manine, li chiamò ed essi si precipitarono, portando i loro doni. L’ape offrì il suo dolce miele, la farfalla la bellezza dei suoi colori, la formica un chicco di riso, il baco un filo di finissima seta. La vespa, non sapendo che cosa offrire, promise che non avrebbe più punto nessuno, la mosca si offrì di vegliare, senza ronzare, il sonno di Gesù.

Solo un insetto piccolissimo non osò avvicinarsi al Bambino, non avendo nulla da offrire. Se ne stette timido sulla porta; eppure avrebbe tanto voluto dirgli il suo amore. Ma, mentre con il cuore grosso e la testa bassa stava per lasciare la capanna, udì una vocina: “E tu, piccolo insetto, perché non ti avvicini?” Era Gesù stesso che glielo domandava. Allora, commosso l’insetto volò fino alla culla e si posò sulla manina del Bambino. Era così emozionato per l’attenzione ricevuta, che gli occhi gli si colmarono di lacrime. Scivolando giù, una di queste, cadde proprio sul piccolo palmo di Gesù.

“Grazie”, sorrise il Bambinello. “Questo è un regalo bellissimo”. In quel momento un raggio di luna, che curiosava dalla finestra, illuminò la lacrima. “Ecco è diventata una goccia di luce!” disse Gesù sorridendo.
“Da oggi porterai sempre con te questo raggio luminoso e ti chiamerai lucciola.” Si dice che chi sogna una lucciola riceverà un dono inatteso, inoltre sono associate alla leggerezza della vita e lo stupore infantile



Suzuki Harunobu (1725-1770)
Alla ricerca di lucciole
1768 circa
Stampa su blocchi di legno a colori - 28,2 × 20,3 cm.
Collezione di Clarence Buckingham, Art Institute, Chicago



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La Lucciola e del Grano


Un tempo, le lucciole erano soltanto piccoli insetti scuri che vagavano per i campi di grano. Un giorno una di loro sentì un contadino che esclamava: “C’è un tesoro qui!”. La sera la piccola lucciola andò a riferirlo alle compagne, che l’ascoltarono meravigliate, senza saper che fare. Ma la regina, più astuta, propose: “Se c’è un tesoro, andiamo a prenderlo! Domani, di notte per non farci vedere dal contadino, andiamo, ognuna con un lumino piccolo piccolo, a cercarlo!“. Le lucciole uscirono, ognuna con il suo lumino, ma non trovarono il tesoro. Da allora, ogni notte d’estate lo cercano ancora, senza sapere che il tesoro è il grano.


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La Lucciola e gli abiti delle spose


Due bravissime sarte, sorelle ma povere, una sera dovevano terminare assolutamente per l’indomani l’abito da sposa della ricca figlia del mugnaio. Lavorando e lavorando, arrivarono a consumare tutte le candele che avevano in casa, e non sapevano più come fare. Abitavano in una casetta nel profondo del bosco, la notte era senza luna e loro si accorsero di non avere nemmeno più l’olio da mettere nelle lucerne. I loro lamenti, raccolti dal camino, furono uditi dal popolo delle lucciole, cui loro davano sempre da mangiare fiori e miele. Le lucciole allora discesero tutte dalla cappa del camino e illuminarono la stanza con milioni e milioni di lucine finché, sul far del giorno, il vestito fu pronto.

La figlia del mugnaio pagò molto bene l’abito ma non seppe mai spiegarsi il luccichio lunare che aveva la stoffa. Da allora le due sorelle cuciono abiti da sposa nella loro casa nel bosco, e le lucciole si tengono pronte ad andare a far luce con il loro lumino che conferisce ai tessuti lo splendore della luna. Noi le vediamo nelle sere d’estate mentre si avviano verso quella casa.

view post Posted: 1/12/2023, 14:51     +5CLIZIA (CLYTIE) - Evelyn de Morgan - ARTISTICA

Morgan_Evelyn_ClytieP

Evelyn de Morgan
(Mary Evelyn Pickering de Morgan,1855 -1919)
1886 - 1887
Clizia (Clytie)
olio su tela - 106 x 44.5 cm.
Collezione privata


“Clytie” è un’opera iconica tra i dipinti allegorici di Evelyn Pickering, la principale donna preraffaellita e sostenitrice dei movimenti estetico e simbolista. Formatasi sotto la guida dello zio Roddam Spencer Stanhope e alla Slade School of Art, a metà dei suoi vent’anni trascorse gli inverni a Firenze, dove conobbe e trovò ispirazione nelle opere di Botticelli. Dal 1877 espose regolarmente alla Grosvenor Gallery di Londra e nel 1887, lo stesso anno in cui completò l’opera in esame, sposò il ceramista e romanziere William de Morgan, uno dei leader del movimento Arts and Crafts. Amico da sempre di William Morris, disegnò piastrelle, vetri colorati e mobili per Morris & Co. dal 1863 al 1872.


Nel corso di quasi cinquant’anni di carriera, Evelyn de Morgan, producendo oltre cento dipinti, disegni e sculture, si distinse dai contemporanei per la sua attenzione allo spiritismo e al corpo femminile, in un momento in cui la società vittoriana gli imponeva dei limiti.
La singola figura femminile, nuda in un paesaggio dall’orizzonte basso, era un soggetto che l’artista londinese rivisitava regolarmente, spesso attingendo a note narrazioni mitologiche e letterarie che presentavano personaggi psicologicamente complessi e forti; il presente lavoro non fa eccezione.


In questo suggestivo dipinto, Evelyn de Morgan interpreta la storia della ninfa Clytie, figlia del re di Babilonia. Come racconta Ovidio nelle sue Metamorfosi, Clitia si innamora del dio del sole, Apollo, e quando questi l’abbandona per un’altra, si spoglia e si siede nuda sulle rocce al sole, nutrendosi solo delle sue lacrime. Ogni giorno, dall’alba al tramonto, fissa il carro del sole, guidato dal suo ex amante, mentre viaggia nel cielo. Il nono giorno si trasforma in un girasole (emblema popolare del movimento estetico), che gira la testa per contemplare con nostalgia il suo amato.


Il tema della donna che si trasforma in fiore o pianta affascinava gli artisti vittoriani del XIX secolo, da Edward Burne-Jones che illustrò la storia di Phyllis, che in preda all’angoscia per la scomparsa dell’amato Demapone si uccide ma viene trasformata in un mandorlo per pietà dagli dei, nel suo “Tree of Forgiveness”, esposto nel 1882 alla Grosvenor Gallery.

Nell’affrontare la storia di Clytie, molti artisti dell’epoca ritraggono la ninfa rivolta verso il cielo, un riferimento al potere di Apollo sulla ninfa devota e alla sua incapacità di determinare le proprie azioni. Nella versione di Clytie di Frederic Leighton, il suo ultimo dipinto che rimase incompiuto nel suo studio, la ninfa è raffigurata in ginocchio con la testa rivolta all’indietro e le braccia tese verso il cielo. Nella sua interpretazione, invece, Evelyn de Morgan ritrae Clytie in piena trasformazione, mentre i girasoli ai suoi piedi avvolgono le gambe del suo corpo slanciato. Girata pacificamente verso il basso, con gli occhi chiusi, appoggia delicatamente le mani sulla corona del capo per ripararsi dai potenti raggi di Apollo. Non è più definita solo in base alle azioni del suo amante.


Evelyn de Morgan completò uno studio a pastello dell’opera in esame nel 1885 e il reverendo George Tugwell acquistò l’affascinante composizione direttamente dall’artista nel 1907. Il 14 ottobre 1907 scrisse: “Il suo Clytie è appeso nella nostra saletta della prima colazione tra la porta scorrevole e l’armadietto delle porcellane, la luce migliore che possiamo trovare al momento. Sta molto bene, è la luce della stanza e ne sono entusiasta... quando ci rivedremo potrò... parlare dell’eventuale rimozione di due foglie del girasole”. Il giorno dopo, l'artista rispose gentilmente: “Sono molto contenta che Clytie le piaccia e mi fa molto piacere che abbia trovato una casa nella sua bella valle di Lee. Riguardo a ciò che dice sulle foglie, temo che qualsiasi modifica sarebbe impossibile, poiché il quadro è stato dipinto con un metodo particolare per ottenere la brillantezza del colore e verniciato, cosicché qualsiasi tentativo di modifica ora danneggerebbe la qualità del dipinto”. (M.@rt)





view post Posted: 30/11/2023, 17:12     +16La leggenda di Colapesce - Favole, miti e leggende

La leggenda di Colapesce

(leggenda siciliana)




Renato Guttuso
Mito di Colapesce
1985
quarantatrè pannelli a olio
Teatro Vittorio Emanuele, Messina


C’era una volta, tanto tempo fa, un ragazzo di nome Nicola, detto Cola, figlio più piccolo di una numerosa famiglia di pescatori, che viveva a Messina, in una capanna vicino alla spiaggia. Sveglio, agile e vigoroso, sin dalla prima infanzia aveva dimostrato di essere molto legato al mare. La sua gioia più grande era quella di tuffarsi tra le onde, e nuotare per ore e ore sott’acqua. Non si sa come egli potesse rimanere tutto quel tempo immerso senza sentire il bisogno di venire a galla e respirare e, quando finalmente risaliva alla superficie e tornava a casa, raccontava ai genitori e ai fratelli tutte le meraviglie che aveva visto negli abissi marini. Laggiù in mezzo a rovine di antichissime città inghiottite dai flutti, egli diceva di aver visto fantastiche foreste di corallo rosso, rosa e bianco, fiori di magnifici colori, grotte schiarite da bagliori fosforescenti, pesci di ogni sorta, forma e dimensione, e giganteschi mostri marini che lottavano fra loro in modo terribile.

Tutti lo credevano matto, a cominciare dalla sua stessa famiglia, per queste storie incredibili; la madre era disperata, non sapeva più che fare con questo figlio scansafatiche, che non solo non provvedeva a lavorare, ma si permetteva di ributtare in mare i pesci che il padre ed i fratelli avevano appena pescato... e tutto questo perché lui amava le creature del mare e non sopportava che qualcuno le uccidesse. Disperando di ridurlo al dovere, lo maledisse, dicendogli: “Possa tu diventar pesce!”. La maledizione ebbe effetto: subito le sue carni si coprirono di squame e le mani e i piedi divennero simili a zampe d’anatra. Gli abitanti del paese, che seguivano con curiosità le imprese del giovane, lo soprannominarono Colapesce, perché per loro era mezzo uomo e mezzo pesce; alcuni marinai giuravano di aver visto le branchie sotto le sue orecchie.

La genti lu chiamava Colapisci
pirchì stava ‘nto mari comu ‘npisci
dunni vinìa non lu sapìa nissunu
fors’ era figghiu di lu Diu Nittunu


Un giorno il ragazzo raccontò di aver trovato una nave naufragata che conteneva un immenso tesoro; in breve tempo Cola riuscì a recuperare tutto l’oro, l’argento, le gemme e gli oggetti preziosi che erano sulla nave, permettendo così ai suoi cari di vivere agiatamente. Le storie meravigliose da lui raccontate fecero in breve tempo il giro dell’isola: la sua fama di ottimo nuotatore e audace esploratore degli abissi marini, si diffuse in tutta la Sicilia. Di lui si raccontavano imprese mirabolanti su come avesse salvato intere navi ed equipaggi dalle tempeste e di come sapesse giungere a nuoto sino alla Campania e alla Puglia.


La fama di Nicola arrivò alle orecchie di Ruggero d’Altavilla, duca di Puglia e Calabria e primo sovrano del neonato Regno di Sicilia, che incuriosito da questo strano personaggio, volle conoscerlo per constatarne le capacità strabilianti, che fino ad allora sembravano frutto dell’immaginazione dei marinai dello Stretto di Messina. Così il re, circondato dalla sua corte di cavalieri e principesse decise di recarsi in Sicilia per interrogarlo sulle sue esperienze e sulle creature degli abissi. Salito su una barca, si fece trasportare nel mezzo dello stretto, dove sostava la nave ammiraglia presso la quale i due si incontrarono.

Dalla sua galea, Ruggero e sua sorella Boemonda, videro un uomo aggrappato al fianco di un giocoso delfino; fu fatto salire a bordo per scrutarne lo strano aspetto. Pelle scura, con a tratti riflessi iridati tipici delle squame, occhi sporgenti, guance cascanti, labbra enormi e testa che ricordava vagamente una triglia; i capelli lunghi e ingarbugliati sembravano una matassa di alghe.



Il fisico era asciutto e ben proporzionato e appena iniziò a parlare con voce melodiosa, come modulata dai flutti dell’acqua, raccontò di come sapesse nuotare a grandi profondità, giocando con le murene tra le formazioni di spugne e coralli e cavalcando i delfini; descrisse le strane creature che aveva visto negli abissi: tonni, pesci spada, balene, e il temibile calamaro gigante che giaceva nei fondali dello Stretto e i cui tentacoli, quando la sua testa toccava Messina, arrivano fino in Calabria.

Raccontò anche di aver intravisto le sirene una volta, udendo i loro soavi canti e di quella volta che, spingendosi più sul fondo marino, aveva scoperto navi sommerse e grandi praterie di alghe, che si muovevano come i prati della Sicilia agitati dal vento e di quando era sopravvissuto per miracolo all’attacco di una grossa piovra. I pescatori, giunti tutti intorno con le loro barche per ascoltarlo, narrarono di quella volta in cui Cola aveva affrontato Scilla, uno dei due mostri di mare che vivevano nello stretto, e di come lo avesse costretto a fuggire in una grotta marina.

Il re volle mettere alla prova le capacità di Colapesce: prese la coppa da cui aveva finito di bere e la scagliò al di là del parapetto dell’imbarcazione, chiedendo a Cola di riportargliela. Il giovane baldanzoso si immerse e non riemerse per molte ore, tanto che si temette per la sua vita, fino a quando, mentre il sole era al suo culmine, si vide la coppa brillare in superficie, sorretta dalla mano di Cola che riemergeva trionfante.

Interrogato dal re egli raccontò di aver visto moltissime specie di pesci, cetacei e ricci giganti, nuotando dove l’acqua era diventata molto scura e di essere riuscito a scorgere la coppa grazie alla luce intensa di un grande fuoco che ardeva in una caverna sottomarina, illuminando il fondale. Dubitando che un fuoco potesse ardere dentro l’acqua, il re chiese maggiori spiegazioni a Cola, il quale gli spiegò che era il fuoco dell’Etna ad albergare lì in fondo, lo stesso fuoco che di tanto in tanto saliva sulla cima del vulcano causando danni e vittime.

Allora preso dalla curiosità il re si tolse la corona e la gettò tra i flutti, chiedendo ancora a Cola di recuperarla, e ancora una volta il giovane si tuffò. Passarono moltissime ore; il sole tramontò e poi sorse di nuovo, ma di Cola non vi era traccia. Non si ebbero sue notizie per due giorni finché, all’alba del terzo giorno i presenti non videro una testa bruna affiorare dalle acque: era Cola, che stringeva tra le mani la corona, i cui diamanti brillavano alla luce del sole nascente. Il pescatore era stremato e raccontò di come la corona, finita in un vortice, fosse diventata invisibile ai suoi occhi, costringendolo a fare tutto il giro dell’isola per ritrovarla, nuotando più a fondo che mai ed incontrando creature marine di ogni sorta, inclusa la piovra che tempo prima aveva tentato di ucciderlo.


Ma il suo racconto fu persino più stupefacente; mentre ancora ansimava, descrisse il prodigioso fuoco sotterraneo, una fiamma ardente simile a quella che scaturisce dall’Etna, oltre il quale, in una prateria sottomarina, si stagliavano tre pilastri alti come montagne. Alzando gli occhi Colapesce si accorse che essi sostenevano la Sicilia intera: la colonna più a nord era nera come l’ossidiana, la seconda, verso sud era di granito ma si stava sbriciolando su un lato, la terza, a occidente era intaccata alla base e cigolava, forse corrosa dal fuoco sottomarino. Questa terza colonna si trovava nei pressi di quel grande fuoco, tra Messina e Catania, dove persino le creature marine non passavano, per paura di rimanere uccise; se un giorno la lava fosse colata fin là il pilastro si sarebbe sbriciolato e la Sicilia sarebbe sprofondata in mare. Nel luogo dove doveva esserci una quarta colonna si apriva la bocca di un pozzo profondo, dal quale Colapesce aveva recuperato la corona.

Il re dubitava ancora e volle che Cola scendesse di nuovo per portargli un segno di quel fuoco, ma Colapesce era stremato e tentennava sapendo della difficoltà di tale impresa, ma il re, presa la mano di Boemonda, che gli stava a fianco, le sfilò l’anello che aveva al dito e lo fece cadere oltre il bordo della nave. Il povero Colapesce, benché esausto, decise di tentare l’impresa. Portò con sé una ferula (una sorta di bastone) ed un pugno di lenticchie che, se fossero tornate a galla senza di lui, sarebbero state segno che era rimasto negli abissi. Tuffatosi, non si ebbero sue notizie per giorni e giorni; tutti andarono via e anche il re fece issare le vele per raggiungere Messina, assalito dal rimorso di aver mandato il giovane verso morte sicura. All’improvviso vicino alla barca spuntò dapprima il pugno di lenticchie, che galleggiavano su un’onda, poi si vide un bagliore sull’acqua, ed emerse la ferula, che bruciava come una torcia ardente. Colapesce era rimasto sott’acqua, per sorreggere la colonna consumata onde evitare che l’isola sprofondasse e quindi ancora oggi si troverebbe negli abissi a sopportare il peso dell’intera isola di Sicilia.

Su passati tanti anni
Colapisci è sempri ddà
Maestà! Maestà!
Colapisci è sempri ddà




La gente di Messina, quando la terra è scossa dai terremoti, dice che Colapesce è ancora là, sul fondo del mare, a sorreggere la Sicilia e a fare la guardia perché l’isola non sprofondi, vivendo felice con i suoi amici delfini e godendosi il canto delle sirene.

Questa leggenda del mare, probabilmente una delle più belle mai raccontate, non è solamente una storia d’eroismo, ma anche una leggenda d’amore. I tre doni lanciati in mare dal re rappresentano la ricchezza (la coppa d’oro), il potere (la corona) e l’amore (l’anello), che alla fine costò l’impresa, e probabilmente la vita, a Colapesce. Sebbene la tradizione popolare attribuisca a svariati regnanti la figura del re (si parla soprattutto di Federico II e di Carlo V), le fonti storiche che raccontano la leggenda di Colapesce sono precedenti ad entrambi i re, e sono riconducibili al 1140, anno in cui pare che effettivamente Ruggero II abbia visitato Messina.


view post Posted: 29/11/2023, 14:22     +2Teresa Wilms Montt - Pensieri e poesie

La mañana

(Los tres cantos)


Canta anima mia; canta la mattina!
Canta con gli uccelli, con gli alberi, i fiori e le acque!
Canta con il vento e la montagna,
con la foresta e la pianura illuminata dal sole,
che ti viene offerta come un’anfora d’oro traboccante di vita!
Canta anima mia, con il meraviglioso grillo di luce,
che abita nella corteccia dei pini
e con l’ape ubriaca di profumo;
canta con l’aquila solitaria nella cuspide delle rocce
e con la formica laboriosa nelle cavità della terra!
Canta con la farfalla dalle ali inquiete
come le palpebre di un bambino,
e con il verde rospo sul trono di ninfee
nello specchio dello stagno.
Canta con il raccolto e il grano dorato;
con frutti rosa, che si aprono come giovani labbra;
canta con il tenero agnello del gregge
e con la madre felice che lo ha dato alla vita!
Canta, anima mia, canta con l’anima gemella;
con la cara anima sorella che vibra,
piange e ride con te in un solo battito!
Canta con il candore gioioso del sorriso sincero
e dello sguardo trasparente
che riflette la serenità della sua dolce emozione!
Canta anima mia, e tendi le braccia all’amore raddolcito
che giunge al tuo grembo per trovar rifugio;
dagli riparo anima mia e desta la sua crescente potenza!
Canta con le lacrime di gioia
che fremono e scivolano come gocce di rugiada sui petali,
e con il bacio che timoroso s’insinua disegnando i veli del cuore
per cedere il passo all’aurora piena d’amore!
Canta, canta, canta, con la vita,
con le passioni del fuoco,
con le delizie floride;
canta con la gloria suprema degli spasmi condivisi
e con i languori che donano agli occhi
i toni del tramonto!
Canta anima mia e trasmetti all’inutile il tuo fuoco;
dagli la tua essenza, crea mondi,
profetizza meraviglia e gentilezza,
erigi un trono alla verità pura!
Canta e attraversa gli spazi con la tua voce musicale
e imponi silenzio sugli uccelli perché diano ascolto
alla parola dell’uomo savio e ferace!
Canta anima mia, canta
e bevi in un sorso il nettare mattutino;
canta anima mia, il cielo azzurro
e la campagna siano per te un baccanale
con la cui bellezza puoi ubriacarti!



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El Crepúsculo

(Los tres cantos)

Pregate anima mia, pregate!
Pregate per il pomeriggio morente,
per la campana del lontano convento
che lentamente nell’aria soffia il suo metallico gemito!
Pregate per le pecorelle smarrite
e per gli alberi veementi
che sporgono verso il lago
le loro ombrose chiome!
Pregate anima mia,
con l’uccello senza nido
e per la pupilla cieca
del pozzo abbandonato!
Pregate; pregate per il cammello esausto
nelle sabbie del deserto
e per il leone ferito nelle giungle;
pregate per i campi devastati
e le spighe senza grani!
Pregate per il dolore dell’abisso
e per la foglia spiccata!
Pregate per il carro senza ruote
abbandonato nel mezzo del cammino
e per la capanna in rovina che,
come anima del paesaggio,
rimase in attesa dell’uomo!
Pregate; pregate anima mia,
per l’orfano e per il vecchio mendicante;
pregate per i fiori che raccolgono i loro petali
per morire e con il sole,
il cui oro piangente
va calando dietro alla montagna!
Pregate affinché l’orizzonte si accinga a dar preannuncio di sangue
e le nuvole colme d’odio vadano in disgrazia;
pregate e inginocchiatevi anima mia,
pregate affinché regni la pace fra gli uomini e gli elementi;
affinché tutti uniti nella medesima volontà possano andare beati
verso la fine e rinascere con maggior energia e sapienza!
Pregate per coloro che non hanno nome,
ma che offrono il loro impeto e bontà
senza chiedere compenso né onori;
per il vecchio tremante che alla terra china il capo
portando in essa spirito primaverile!
Pregate, pregate anima mia,
per la povera donna innamorata
che per sempre ha visto il suo amato
addormentarsi fra le sue braccia;
pregate per lei, che ha vissuto la feroce realtà
del sentirsi inerme di fronte al potere dei suoi baci
e del suo amore per farne il calore della vita!
Pregate con i cuori squarciati che ululano dolore alle ombre
e debbono ridere alla luce del sole!
Pregate, pregate, pregate mia anima,
toccate la polvere con i vostri pensieri,
scongiurate malauguri, alleviate l’amarezza
e date la vostra essenza per giuste e nobili cause!
Pregate, è l’ora dei presagi, delle tetre apparizioni;
l’ora in cui nasce il destino degli uomini!
Prega contrita, mia anima; il dolore sta arrivando!
Il sole se ne va, e dalle ali delle farfalle morte
nascono fiori per le tombe.
Il sole se ne va. Desolata cala la notte,
portando in grembo il corpo privo di vita del giorno,
pallido, freddo, pallido, esangue….
Spietato e felino, il lupo insegue gli agnelli,
affilando i denti nella corteccia di alberi secolari
e martirizzando le foglie con i artigli feroci.
Rumorosi insetti volano da una parte all’altra,
si nascondono fra le erbacce,
evitando l’ultimo raggio dell’astro d’oro.
Il sole se ne va. I patimenti vagano per il mondo
con volto affamato in cerca di cuori da divorare.
Il sole se ne va, e il sorriso del moribondo
va incidendosi sulla pietra indelebile dell’immortalità.
Il sole se ne va, e l’anima trema di terrore nell’oscurità.
Natura! Il bel viso s’avvizzisce e,
come le candele che vanno spegnendosi,
china la sua languida testa.
La voce, la sua voce allegra, si attenua;
le parole rotolano e un’eco cavernosa risponde nel mistero.
I suoi occhi, serbanti l’incanto,
ragion della mia vita,
si socchiudono privi di bagliore
e come tristi stelle mi osservano profondamente,
accomiatandosi.
Natura! Intendi, forse, negar il tuo sostegno
a questa grande anima
e lasciarla precipitare nel caos come un’ombra?
Ti canterò; madre mia, ti implorerò;
prostrata bacerò la terra in un prova d’umiltà.
Lascerò che gli uomini mi guardino con disprezzo;
accetterò il morso delle vipere
e il flagello delle loro viscide membra sulle mie spalle.
Riceverò volentieri il castigo di gelidi venti,
che s’insinueranno fin nel midollo
e nel mio cervello faranno il loro rifugio.
Chiederò ai fulmini e ai tuoni che sfoghino sulla mia fronte il loro furore.
Con voce piena implorerò il mare,
perché mi avvolga nell’ira delle onde,
e sin all’ultima goccia si liberi d’ogni amarezza.
Lascerò che il sole s’irriti sul mio corpo e lo faccia carbone;
mi rassegnerò a esser combustibile per fiamme maligne.
Rinuncerò alla mia coscienza, e sarò umile bestia,
con gli occhi rivolti a terra, in attesa di orrende torture.
Sarò un’entità, un nulla, futilità; ma lascia ch’ella viva,
respiri, riceva la solenne benedizione di tutto ciò che racchiudi,
Natura onnipotente!



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VII

(Inquietudes Sentimentales)


Due seni pallidi e inquietanti insieme; occhi rapiti
di lubricità, e una carezza impudica e carnale,
di traverso al mio passo e al mio cammino.
E una voce dal suono indefinibile,
come il duro singhiozzo di un bambino,
che mi sussurra: Vieni! Io sono l’eros.
Ed io andavo seguendo questa menade folle, come
un lembo d’acciaio segue la calamita.
Avanzavo sospinta dal mistero…
S’eran fatte di ghiaccio le mie labbra,
chiusa la gola da sbarre di ferro.
Il mio sguardo era lucido d’umore,
gli occhi raggianti come pietre alcoliche…
E ritornai, le labbra insonnolite,
gli occhi accecati e trepide le mani
contro se stesse in orrido conflitto,
assetate di scempio e, nel mio cuore,
una sorta di marchio rosso fuoco,
denso della più amara delusione.
Ma io non ero lì: non mi porgeva,
la baccante folle, alcun rimedio per il mio mal d’amore.



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XVI

(En la quietud del mármol)


Anuarí…
Quest’oggi ti ho un fascio d’immacolate peonie.

Al posarle sul tuo feretro,
mi parve che dal cielo piovessero stelle su di lui
e fui colta da un delirio di bellezza.

Volli unire le labbra ai bianchi petali,
e dal firmamento della mia anima scesero baci,
un’infinità di baci d’amore sul tuo corpo sognante.

La dolcezza della tua tomba,
s’insinua nella mia mente,
come un bagno di rose,
ravvivandola con aneliti di passione.

Purificata è la mia carne
dalla pura aurora dei tuoi avi
che riposano accanto alla tua salma.

Anuarí, mia creatura.



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La Noche

(Los tres cantos)


Il cielo diventa più fragile nella terra dei dormienti;
ha tonalità stupefacenti che si offrono con umile morbidezza alle fossa,
e nel sole c’è meno desiderio di irradiazione,
più dolce nel suo oro che nei campi,
dove ritorna brillante,
come fiamme ravvivate dal vento,
alle spighe mature.
Ho sentito parlare coloro che se ne sono andati,
è un mormorio carezzevole; provo invidia.
C’è tanta bellezza nella semplicità e nel gelo.
Ogni defunto è un blocco immacolato di neve
che diffonde la sua bianca serenità
come una maestosa moltitudine di perdono e oblio.
Ogni defunto è profonda, immutabile bontà.
Ogni defunto è esempio di silente abnegazione.
Lì, tra i morti, trovo il mio spirito,
ed è con loro che condivide la sua profonda tenerezza.
È con loro che si sente forte ed è per loro che si arrende senza timori,
dolcemente, come un devoto al suo Dio.
Miei defunti; sublimi amori.
Vivrò tra voi; sarò un’estrosa dormiente senza gelidi sogni,
ma nel suo glaciale riposo.
Sarò madre di tutti, con le braccia cariche di fiori,
quei fiori che non potete cogliere con vostre algide dita.
Sarò la sposa vergine che vi darà tutta l’intensità
del suo dolore puro fra lapidi e pietre.
Sarò il vostro giorno, il vostro sole, la vostra notte di luna piena.
Oh, miei defunti! Nessuno verrà a togliermi questo privilegio;
i vivi hanno così tanto da dimenticare nella loro lotta per gli onori.
Essi non sanno che nel vostro paese si trova la chiave dell’enigma.



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Autodefinizione


Sono Teresa Wilms Montt
e anche se sono nata cento anni prima di te,
la mia vita non è stata tanto diversa dalla tua.
Anche io ho avuto il privilegio d’essere donna.

E’ difficile essere donne in questo mondo.
Tu lo sai meglio di tutti.
Ho vissuto intensamente ogni respiro e ogni istante della mia vita.
Ho distillato una donna.

Hanno cercato di reprimermi ma non ci sono riusciti con me.
Quando mi hanno voltato le spalle, io ci ho messo la faccia.
Quando mi hanno lasciato sola, ho dato compagnia
Quando hanno voluto uccidermi, ho dato vita.

Quando hanno voluto rinchiudermi, ho cercato la libertà.
Quando mi amavano senza amore, ho dato ancora più amore.
Quando hanno cercato di zittirmi, ho urlato.
Quando mi hanno picchiato, ho risposto.

Sono stata crocifissa, morta e sepolta,
dalla mia famiglia e la società.
Sono nata cento anni prima di te
comunque ti vedo uguale a me.

Sono Teresa Wilms Montt,
e non sono adatta per le signorine.





Edited by Milea - 30/11/2023, 22:22
view post Posted: 29/11/2023, 13:33     +6IL GIORNO DOPO - Maria Lisma - PRECIOUS MOMENTS

Autodefinizione


Sono Teresa Wilms Montt
e anche se sono nata cento anni prima di te,
la mia vita non è stata tanto diversa dalla tua.
Anche io ho avuto il privilegio d’essere donna.

E’ difficile essere donne in questo mondo.
Tu lo sai meglio di tutti.
Ho vissuto intensamente ogni respiro e ogni istante della mia vita.
Ho distillato una donna.

Hanno cercato di reprimermi ma non ci sono riusciti con me.
Quando mi hanno voltato le spalle, io ci ho messo la faccia.
Quando mi hanno lasciato sola, ho dato compagnia
Quando hanno voluto uccidermi, ho dato vita.

Quando hanno voluto rinchiudermi, ho cercato la libertà.
Quando mi amavano senza amore, ho dato ancora più amore.
Quando hanno cercato di zittirmi, ho urlato.
Quando mi hanno picchiato, ho risposto.

Sono stata crocifissa, morta e sepolta,
dalla mia famiglia e la società.
Sono nata cento anni prima di te
comunque ti vedo uguale a me.

Sono Teresa Wilms Montt,
e non sono adatta per le signorine.

(Teresa Wilms Montt, Cile 1893-1921)





view post Posted: 26/11/2023, 23:19     +8IL GIORNO DOPO - Maria Lisma - PRECIOUS MOMENTS

Il giorno dopo


Datemi il silenzio del giorno dopo,
senza panchine e senza scarpe rosse,
senza parole di commossa circostanza
e foto in posa dietro le bandiere.

Datemi la mano del segno della pace
e la carezza degli occhi del conforto,
la luce fioca della candela accesa
e il cuscino bianco della coscienza pura.




Datemi un letto dove riposare
e pagine nuove per poterlo dire,
l’anello eterno per il giuramento
e la testa alta per non dimenticare.

Datemi uno specchio per il mio ritratto
e compassione per il mio sguardo pesto,
un carillon per la mia bimba bella
che sogna ancora allodole e farfalle.




Datemi le bende sopra le ferite
e la cipria rosa sulle guance sfatte,
il sollievo dolce della consolazione
e il diritto certo della giustizia giusta.

Alle mie ali nuove ci penso io
da sola:
piuma su piuma, mi riprendo
il volo.


Maria Lisma




(per “Le parole delle donne”)





Edited by Milea - 26/11/2023, 23:35
view post Posted: 25/11/2023, 14:49     +9LA GIOCONDA: l'arte di Leonardo spiegata ai bambini - ARTISTICA

Progetto artistico: La Gioconda

Scheda didattica


Un ottimo modo per studiare il potere delle linee, la bellezza del contrasto e il mistero duraturo di Monna Lisa è quello di realizzare una lezione di disegno, partendo dal suo famosissimo volto e riempiendo poi il proprio sfondo con delle linee, solo per contrasto.

Materiali: (tempo necessario:1 ora circa)
- Carta da disegno o per pittura
- Matita di grafite e matite colorate
- Gomma morbida
- Due pennarelli neri, a punta media e a punta fine per creare i contorni scuri e di disegni.

Istruzioni :
Innanzitutto mostrare agli allievi il dipinto della Monna Lisa come riferimento. Stampate per ogni studente una copia a colori del modello; avere l’immagine a colori e la “line art” sulla stessa superficie li aiuta a fondersi insieme, in modo da poter ammirare l’arte e non essere distratti da abilità di taglio e incollaggio non sempre perfette. Ritagliare e incollare un’immagine può essere utile, ma il mix di foto a colori e linee a pennarello, sullo stesso foglio di carta è ancora più intrigante.


Tracciate una nuova “Gioconda”; dopo aver eseguito la figura, riempite lo sfondo con tante linee e segni; ognuno potrà decidere se eseguire un quadretto figurativo o optare per l’astrattismo puro; se colorarlo o lasciare il contrasto della pelle e dello sfondo monocromatico.


Per ottenere risultati migliori, cercate di usare un pennarello con la punta media per le forme principali del corpo e uno molto sottile per tutti i dettagli. Le due cose rendono il disegno più facile da interpretare e più interessante da osservare.


Abbozzate e tracciate i contorni di base con un pennarello spesso. Aggiungete i dettagli con un pennarello sottile: più sono meglio è. Fonte





Edited by Milea - 25/11/2023, 16:05
view post Posted: 22/11/2023, 19:07     +11Giuseppe Abbati - Chiostro di Santa Croce - I Macchiaioli



Giuseppe Abbati
Le Porte Sante
1862 circa
olio su tavola - 13 x 26 cm.
Collezione privata


Nel desolato disordine di un cimitero ancora in costruzione, una donna in gramaglie si avvicina veloce alle tombe, quasi un’apparizione, evocativa nel suo rapido incedere, della drammatica fatalità della morte. Il luogo raffigurato è a Firenze, sui bastioni attorno alla Basilica di San Miniato al Monte, dove nel 1861 sorse il nuovo luogo di sepoltura della città. La sottilissima materia pittorica ricopre a malapena la tavoletta, tanto che le venature del legno contribuiscono a suggerire la situazione atmosferica della giornata di vento, con il cielo striato di nuvole che passano sul sole, creando ombre trascorrenti sul terreno. Nell’ora meridiana la luce si posa intensa sul muro di fondo del camposanto, mentre per contro, rabbuia quello di fronte, accanto alle pareti delle case, lì addossate.


Il punto di vista ribassato avvicina in maniera risentita l’orizzonte e mette in risalto il severo tenore geometrico dell’impianto compositivo, concepito per meditare scansioni cromatiche che, nella loro rigorosa struttura di campi-colore, non lasciano spazio all’immaginazione. Una simile volontà di adesione ai principi dell’analisi positivista il più possibile esatta, induce a ritenere che il dipinto sia stato eseguito almeno nel 1862, quando l’artista, a Firenze da ormai più di un anno essendovi giunto nell’autunno del 1860 dopo aver preso parte alla Spedizione dei Mille, perdendo un occhio a Capua nella battaglia del Volturno. Nella città fiorentina si era fatto sempre più convinto delle teorie estetiche dei Macchiaioli, tese a tradurre secondo puntuali analogie la realtà pittorica.


Nel far propria la metodologia scientifica della “macchia”, Abbati su era imposto una chiusura alla spontaneità dell’espressione sentimentale, che aveva però portato l’artista napoletano d’animo allegro e giocoso, ad assumere un atteggiamento “melanconico e severo” : “la sua giocondità” , notava Diego Martelli col quale viveva in un appartamento di via dello Sprone, s’era trasformata in “misantropia, la sua malizia [in] asprezza, la sua natura [era divenuta] meditabonda e cupa”. (D: Martelli, minute per Giuseppe Abbati, Firenze, Biblioteca Marucelliana). In arte un tale mutamento di carattere comportò l’interesse per temi altrettanto malinconici, come nella tavola in esame, o addirittura attenti a escludere ogni piano di comunicabilità umana, fino “all’annientamento dell’assenza di tema, in un paesaggio qualsiasi: il nulla isolato”. Dipinti dal significato triste o laconico, ma che, date le doti eccelse d’artista del pittore, possiedono una straordinaria qualità formale, tale da infondere loro una poesia solenne e commovente a un tempo.

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Giuseppe Abbati
Il Camposanto di Pisa
1864
olio su tela - 41 x 62 cm.
Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, Roma


La composizione riecheggia in modo palese l’impianto ordinato delle vedute meticolosamente oggettive della Restaurazione e di quelle immagini, sostenute da un descrittivismo minuzioso, ricrea anche il senso di staticità. Ma anziché confortante come un tempo, proprio perché allusiva alla tradizione e alla stabilità, ora la severa raffigurazione del cimitero monumentale, con i vasti loggiati dove le tombe moderne sono accostate ai sarcofagi antichi e del Rinascimento, è pervasa di un’atmosfera arcana che suscita sottili inquietudini, indicativa della consapevolezza dell’uomo moderno di come la semplicità e la quiete, tipiche di un passato appena trascorso, siano per lui motivo di rimpianto sì, ma comunque non lo distolgono dalla curiosità per l’ignoto che il futuro prospetta.

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Giuseppe Abbati
Loggiato con armigero
1864
olio su tavola - 45,5 x 72 cm.
Collezione privata


Un’inquadratura taglia drasticamente il cortile del Palazzo del Bargello, precluso alla vista, ma suggerito all’osservatore attraverso la figura di un soldato in armature rinascimentale, che si affaccia con atteggiamento distaccato fra i pilastri del loggiato del piano superiore dell’edificio. La malinconia che traspare dal dipinto, velata dal rigore della resa formale e luministica, viene interpretata, secondo la mentalità positivista di Diego Martelli, come l’ovvia conseguenza del dover lavorare senza troppa ispirazione, per necessità economica, a quadri d’interno raffiguranti il Bargello o qualche chiesa monumentale, quantunque innovativi “per la scelta e per il modo di esecuzione”.




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Giuseppe Abbati
La torre del Palazzo del Podestà
1865
olio su tavola - 39 x 32 cm.
Collezione privata


Un’immagine inconsueta del campanile della Badia Fiorentina, attraverso le arcate della torre del Bargello. Come nel “Camposanto di Pisa”, anche in questo caso il riferimento è il vedutismo romantico di pittori nordici come Caspar David Friedrich e Johan Christian Dahl, qui ancor più esplicito per la resa cristallina della luce che definisce con limpidezza le architetture e la veduta delle città fino all’orizzonte lontano, e mette in risalto la sagoma dell’uomo che si sporge oltre il parapetto. E’ proprio questa figuretta, colta in atteggiamento realisticamente semplice e casuale, a infondere alla scena di misteriosa, malinconica sospensione. (M.@rt)



view post Posted: 22/11/2023, 15:34     +13Giuseppe Abbati - Chiostro di Santa Croce - I Macchiaioli



Giuseppe Abbati
Ritratto di Teresa Fabbrini
1865 - 1866 circa
olio su tela - 59 x 38 cm.
Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti, Firenze


Il ritratto raffigura Teresa Fabbrini, donna di umili origine, compagna di Diego Martelli che l’aveva conosciuta in una casa di tolleranza prima di condividere con lei tutta la vita, nonostante le opposizioni della madre di Diego al loro legame. L’amicizia di Abbati con Teresa è testimoniata da alcuni scambi epistolari, ed una foto dell’epoca che ritrae la donna quasi nello stesso abbigliamento, molto simile a quello nel dipinto “L'Orazione”, conferma l’identità dell’effigiata. Nell’inventario del fondo Martelli da cui l’opera proviene, accanto al nome di Teresa Fabbrini è erroneamente posto, tra parentesi, il nome Teresa Abbati. L’anno di esecuzione sembra riferirsi alla fine del 1865 quando è certo che Teresa Fabbrini aveva soggiornato a Firenze, lasciando Castiglioncello dove risiedeva nella tenuta di Diego. Anche l’interno, appena evocato dalla tappezzeria, pare riferirsi ad un’abitazione cittadina. La sobrietà dei toni, giocata sui grigi e sui neri a contrasto col fondo chiaro e il rigore formale, ben si confà alla sottile analisi psicologica del volto di Teresa, la cui fissità mite ma austera è addolcita dai riflessi bianco rosati dell’incarnato.

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Giuseppe Abbati
Ritratto di signora in grigio
1865 - 1866 circa
olio su tavola - 26 x 14 cm.
Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti, Firenze


Nella donna, ritratta in un interno domestico di profilo in piedi con le mani poggiate sulla spalliera di una seggiola bianca, è raffigurata Teresa Fabbrini, compagna di Diego Martelli. Rispetto ad altre immagini di Teresa, risalenti alla fine del 1865, nei mesi in cui ella soggiorna a Firenze, il “Ritratto in grigio”, presenta una condotta pittorica molto più sintetica, dove la magrezza dell’impasto cromatico lascia trasparire con evidenza le venature del legno, come spesso accade in altre opere di Abbati e con più frequenza negli ultimi anni. Ma il ritratto di Teresa potrebbe aver risentito nello stile per la pennellata più rapida e sommaria, anche della presenza del ferrarese Boldini; quest’ultimo aveva, infatti, frequentato Castiglioncello nell’estate del 1865. Al Gabinetto Disegni e Stampe di Firenze sono conservati due disegni a matita su carta grigia strettamente analoghi a quest’opera; in uno Teresa indossa un doppio scialle, anzichè la mantella; nell'altro veste gli stessi abiti, ma è voltata quasi interamente di spalle.

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Giuseppe Abbati
Signora in piedi, di spalle
1865 circa
disegno a matita nera su carta grezza - 18,7 x 11 cm.
Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, Firenze


Il disegno ritrae una donna avvolta nel mantello e con un elegante cappellino, appoggiata alla spalliera di una sedia modesta. Con ogni probabilità il foglio risale al tempo in cui Abbati lavorava ad un ritratto di Teresa Fabbrini, quasi terminato nel gennaio del 1866 come si deduce da una lettera inviata dal pittore napoletano alla donna per la quale provava stima e simpatia: “Cara Teresina, fra giorni spero venire a stringerle la mano...il ritratto è quasi finito...la cornice è ordinata? Suo Beppe”. Nello studio preparatorio, la donna indossa il medesimo cappello che porta nella stesura definitiva, lo stesso del disegno, ed è appoggiata alla spalliera tornita di una sedia. (M.@rt)

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Giuseppe Abbati
Figura femminile
datazione incerta
disegno (matita nera su carta azzurrina) - 29,1 x 21 cm.
Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, Firenze




view post Posted: 21/11/2023, 21:42     +17Giuseppe Abbati - Chiostro di Santa Croce - I Macchiaioli



Giuseppe Abbati
Via di campagna con cipressi
1863 - 1865
olio su tela - 28 x 38 cm.
Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti, Firenze


Citata anche col titolo “Via di campagna con cipressi” o “Strada toscana”, l’opera è stata esposta per la prima volta a Roma nel 1956. La datazione corrisponde al periodo in cui Abbati dipinge, oltre che a Castiglioncello, anche nei dintorni di Firenze: proposta convincente se si confronta questo dipinto ad altri capolavori di quegli anni come “Le mura di San Giminiano” o “La via di Montughi” di Abbati o la si mette in rapporto con “Radura nel bosco” di Sernesi, opera concepita probabilmente negli anni del sodalizio artistico di Piagentina.

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Giuseppe Abbati
L’Arno alla casaccia
1863 circa
olio su tela - 27 x 38 cm.
Collezione privata


Oltre Porta della Croce, uno degli edifici più antichi eretto lungo l’Arno, era “La Casaccia” in località Bellariva, una bella villa quattrocentesca con un ampio loggiato che dà sul fiume, più volte danneggiata dalle piene dell’Arno e quindi ricostruita Si dice fosse appartenuta prima alla famiglia Alighieri, poi a Giuliano di Jacopo che vi aprì una bottega d’arte ed infine alla famiglia livornese dei Tommasi. Sin dal primo costituirsi della cosiddetta scuola di Piagentina, Giuseppe Abbati prese parte alle esperienze che Silvestro Lega, Telemaco Signorini, Odoardo Borrani, Raffaello Sernesi conducevano in quella zona, corrispondente oggi a un tratto del lungarno Colombo. Ritrassero spesso quello scorcio della periferia fiorentina, dalla stagione in cui, sull’esempio di Lega, avevano preso l’abitudine di recarvisi a dipingere. [...] Quanto furono piene di passione, di entusiasmo, di attività febbrile, quelle belle giornate passate [...] in quel piccolo e studioso cenacolo di amici (...) E quali deliziose giornate furono quelle passate dipingendo lungo le arginature dell’Affrico, o fra i pioppi sulle rive dell’Arno. (Telemaco Signorini, Per Silvestro Lega, Firenze 1896).





Nell’ora mattutina, la sagoma della città avvolta nella luce sospesa dell’alba si delinea con delicatezza sul cielo lattiginoso che si riflette a specchio nell’acqua quasi immobile del fiume, dove una barca dondola lenta. Eseguita attorno al 1863, quando ormai da tempo Giuseppe Abbati partecipava al “piccolo e studioso cenacolo” di Piagentina, la veduta riflette la disposizione spirituale di quegli artisti che si erano ritirati a dipingere lontano dalla confusione della città, dedicandosi con coscienza critica alla ricomposizione della realtà attraverso rigorose analogie formali, secondo le indicazioni della filosofia positivista più aperta e meno sistematica.





Nella quiete della campagna, essi applicarono il metodo dell’analisi lenta e meditata, infondendo ai soggetti semplici e quotidiani che erano a loro cari il tono solenne e astraente delle predelle quattrocentesche toscane, sottolineate da una tavolozza ricca di colori complementari. Il dipinto, che non fu completamente ultimato come si denota dalla figura del barcaiolo, fu acquistato nel 1928, in occasione dell’asta delle opere più prestigiose della collezione di Enrico Checcucci, da Arturo Toscanini.



Giuseppe Abbati
Lungo L’Arno
olio su tela - 31 x 77 cm.
Collezione privata




In questo momento di produzione dell’artista napoletano si colloca stilisticamente e cronologicamente anche l’opera “Lungo l’Arno” per il profilo delle colline fiorentine che appaiono sullo sfondo del dipinto, e “L’Arno alla Casaccia” conservato alla Pinacoteca di Bari, dove le argentee trasparenze sembrano rarefarsi al sole del mattino.



Giuseppe Abbati
L’Arno alla casaccia
1862 - 1863 circa
olio su tela - 23,6 x 47,6 cm.
Pinacoteca Metropolitana, Bari






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Giuseppe Abbati
Dalla cantina di Diego Martelli
1866 circa
olio su tavola - 38 x 29 cm.
Collezione privata


Tornato dalla prigionia, dopo la terza guerra di indipendenza, nel 1866, Abbati “prese stanza a Castelnuovo della Misericordia”, come ricorda Diego Martelli, “Ivi, tranquillo e solitario divideva il suo tempo tra la lettura, le lunghe passeggiate pedestri e lo studio dal vero”. E’ molto probabile che il dipinto in esame sia uno dei primi eseguiti dal pittore che ora a Castelnuovo volge la propria ricerca verso espressioni più sentimentali, soffuse di poesia per le cose semplici, pittoricamente risolte con una luce vibrante che suggerisce la molteplicità e la mutevolezza degli stati d’animo. (M.@rt)




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Giuseppe Abbati
Lungo l’Arno alle Cascine
1860 circa
olio su tela - 55 x 29,8 cm.
Collezione privata, Livorno



view post Posted: 21/11/2023, 16:52     +9Federico Zandomeneghi - Interno del Palazzo del Podestà - I Macchiaioli



Federico Zandomeneghi
Il giubbetto rosso
1895
olio su tela - 80 × 70 cm.
Collezione privata



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