| Antonio Machado: un amaro destino da profugo
Andavano a decine di migliaia sotto una pioggia fina sulla strada infangata di Figueres, dietro carrette e muli, dietro automobili, camion e cannoni abbandonati, famiglie intere a piedi, stracariche di casse, balle, armadi, cani, pecore, bottiglie e materassi, esposti alla minaccia dei trimotori italiani che li bombardavano. Era la fine di gennaio del 1939. Dopo tre anni di guerra, la Repubblica spagnola finiva con un esilio in massa verso i campi di internamento francesi. Tra quei cinquecentomila spagnoli in fuga dalla Catalogna verso la frontiera, c' era anche Antonio Machado, il poeta delle Soledades e dei Campos de Castilla. Machado aveva allora 64 anni. Era malato: il cuore e lo stomaco, come disse in una lettera allo scrittore russo David Vigodsky, "si erano messi d' accordo per non svolgere le loro funzioni", le gambe semiparalizzate riuscivano a stento a sostenerlo, ma non aveva perso nulla della vitalità che, da giovane, lo aveva trasformato in uno dei protagonisti della vita artistica di Madrid e di Parigi, in un sodale di Rubén Daro, di Juan RamÀon Jiménez, di Ortega y Gasset, di Unamuno e AzorÀin, in un poeta stimato e popolarissimo. Nel 1936, quando scoppiò la guerra, don Antonio si schierò attivamente con la Repubblica, perdendo così i contatti col fratello maggiore, Manuel, passato dalla parte dei nazionalisti. Seguendo i destini del conflitto, abitò a Madrid, a Valencia, a Rocafort e infine a Barcellona, con la madre quasi novantenne e il fratello pittore José, che gli faceva da segretario. Eppure, era sereno. Attorno a lui, si riuniva un circolo di amici e di intellettuali per discorrere di musica popolare e di poesia. JoaquÀin Xirau, un filosofo catalano che poi lo accompagnò nel suo ultimo viaggio, in un testo apparso qualche anno fa anche in italiano, racconta che "don Antonio aveva previsto da sempre la tragedia finale. Nessun falso ottimismo sosteneva il suo fervore. Rimaneva in quell'angolo di Spagna per dignità umana e - lo ripeteva costantemente - per patriottismo".
Le sole cose che ancora lo indignavano erano le manovre della politica internazionale che avevano portato l'Europa alla catastrofe e i bombardamenti dell'aviazione italiana su Barcellona. Soltanto allora abbandonava il suo atteggiamento composto e silenzioso e si metteva a inveire contro gli aeroplani: "Canaglie! Canaglie!", dicono che gridasse. Per allontanarlo dal pericolo, il governo repubblicano gli offrì incarichi culturali e diplomatici all'estero, ma don Antonio li rifiutò sempre, finché, una domenica, mentre conversava in salotto con gli amici, arrivò la notizia che i franchisti erano alle porte di Barcellona.
Fuori, cadevano le bombe. Alle tre del mattino del martedì 22 gennaio 1939, lo vennero a prendere con un ambulanza per portarlo, insieme alla madre, al fratello e ad altri intellettuali, fino alla frontiera francese. Restarono per più di un'ora sotto un bombardamento sulla Diagonal, poi, quando tornò il silenzio, ripresero la marcia, confusi nella lenta processione che abbandonava la città. All'alba arrivarono a Gerona, ma le strade erano intasate ed era impossibile proseguire. Allora trovarono rifugio a Cervià de Ter, in una casa isolata dal villaggio, dove restarono due giorni. Don Antonio passava le ore affacciato alla finestra a contemplare i campi, il cielo di un azzurro compatto, finché arrivò la notizia della caduta di Barcellona. Era notte fonda quando una nuova ambulanza, stracarica di persone e di bagagli, addentrandosi nella sierra per una stradina tutta curve, li condusse al Mas Faixat, una grande masseria nel mezzo di un bosco. Fu l'ultima notte che Machado trascorse in Spagna.
Ripartirono all'alba, piegando per strade secondarie per evitare il fiume umano che scorreva lungo la nazionale, poi, minacciati dagli aerei che sorvolavano la zona, attraversarono l'Alto Ampurdan fino a Cadaqués, a Port Bou, e oltre, sulla strada che collegava alla frontiera. Non dormivano da tre giorni e non avevano mangiato quasi niente. Sotto di loro, il mare schiumava contro la scogliera, poi si alzò il vento, cominciò a piovere fitto. Fu allora che gli autisti delle ambulanze li costrinsero a scendere: volevano tornare a Gerona a evacuare feriti. Mancavano seicento metri alla frontiera, ma per don Antonio e per sua madre erano ancora un viaggio, da fare a piedi, sotto la pioggia che la tramontana trasformava in violenti schiaffi d' acqua. Machado dovette abbandonare là la sua valigia, che riapparve qualche tempo dopo, però vuota. Evidentemente, la persona che avrebbe dovuto custodirla pensò che i manoscritti che conteneva fossero troppo compromettenti. Sappiamo quasi con certezza di cosa si trattava: alcune poesie attribuite a un poeta immaginario chiamato Pedro de Zuniga, che avrebbe fatto parte della Generazione del ' 27, e un'antologia di poeti futuri, non meno immaginari. Don Antonio si appoggiava al braccio del fratello, la madre a quello della nuora.
Camminavano nel buio, in mezzo a camion e carri, agnelli e asini, tra falò e feriti, finché, sfiniti, arrivarono alla catena del confine. Non avevano né soldi né passaporti. Li fecero passare solo perché una delle persone del gruppo aveva con sé un invito per tenere una conferenza alla Sorbona. A Cerbère, il primo paesino al di là della frontiera, la polizia francese rastrellava le strade alla ricerca degli spagnoli privi di documenti per portarli nei campi di concentramento. Machado e i suoi dormirono in un vagone ferroviario vuoto, poi, con i trecento franchi avuti dal ministro José Giral, incontrato per caso, trovarono una sistemazione all'Hotel Bougnol-Quintana di Collioure. Ma ormai don Antonio era stremato. Solo una volta volle uscire per vedere il mare, per fissare a lungo le onde spinte dal vento freddo. Il 22 febbraio del 1939, il cuore e i polmoni lo tradirono. Venne sepolto lì a Collioure, avvolto in una bandiera della Repubblica, portato a spalla da sei miliziani fuggiti da un campo di concentramento. La madre lo seguì il ventisei di quello stesso mese. Frontiera maledetta. Un anno e mezzo dopo, Walter Benjamin la percorreva in senso inverso, fuggendo dai nazisti a piedi su per i Pirenei, per il sentiero Lister, anche lui trascinando a fatica una borsa nera che custodiva un manoscritto. "Questa borsa", disse a Lisa Fittko, la donna che gli faceva da guida, "è il mio bene più prezioso. Il manoscritto "deve" essere salvato, più importante di me stesso". Però, quando arrivò a Port Bou, scoprì che proprio da quel giorno la Spagna rimandava indietro, nelle mani della Gestapo, i profughi privi del visto d' uscita dalla Francia. Benjamin non resse. Si suicidò in una stanza della Fonda Francia, un alberghetto in cui gli avevano permesso di passare la notte prima di essere ricondotto dall'altra parte dei Pirenei.
Fu sepolto a Port Bou, ma poi della sua tomba si persero le tracce. Nella sua borsa nera c' erano un orologio d' oro, un passaporto, settanta dollari, sei fotografie, una pipa e un paio d' occhiali. Il manoscritto, invece, non fu più ritrovato. Come se un capriccioso scherzo del destino avesse voluto accomunare Benjamin e Machado, disperdendo nel vento, fra Port Bou e Collioure, i loro ultimi scritti, la loro stessa vita. Fonte
Edited by Milea - 17/10/2014, 17:04
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