“Una notte d’estate…” Antonio Machado, Parafrasi e commento

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view post Posted on 17/10/2014, 15:57     +3   +1   -1
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“Una notte d’estate…”

Antonio Machado


da Poesie complete, CXXIII


Una noche de verano
-estaba abierto el balcón
y la puerta de mi casa-
la muerte en mi casa entró.
Se fue acercando a su lecho
-ni siquiera me miró-
con unos dedos muy finos,
algo muy tenue rompió.
Silenciosa y sin mirarme,
la muerte otra vez pasó
delante de mi. ¿ Que has hecho ?
La muerte no respondió.
Mi niña quedó tranquila,
dolido mi corazón.
Ay, lo que la muerte ha roto
era un hilo entre los dos !

1913



Libri



Una notte d'estate
-era aperto il balcone
e la porta di casa mia-
la morte in casa entrò.
Si avvicinò al suo letto
-nemmeno mi guardò-
con dita delicate,
qualcosa di molto esile spezzò.
Silenziosa e senza sguardo
ancora la morte mi passò
davanti. Che hai fatto ?
La morte non rispose.
La mia bimba rimase tranquilla
sofferente il mio cuore.
Ahi, quel che la morte ha rotto
era un filo tra noi due!



Libri



Il silenzio del dolore.La prima volta che ho letto questa poesia, non avendo coordinate e conoscendo Machado solo superficialmente, l'ho completamente fraintesa: ho pensato che fosse il lamento di un padre per la perdita della figlia e che la perdita non fosse la morte fisica ma, con più sottile crudeltà, la fine della possibilità di comprendersi (la morte metaforica di un'intesa parentale, insomma) - mi aveva ingannato quel "la mia bambina restò tranquilla". Invece basta inserire la poesia nel suo contesto, in quella particolare posizione dei Campos de Castilla, per verificare che la "niña" è in realtà la moglie e che la morte è realissima: avvenuta in una notte d'agosto del 1912. "Niña" in spagnolo è sia "bambina" che "ragazza", ma nel caso particolare i due significati rischiano di sovrapporsi; Leonor, diciottenne quando morì, aveva quindici anni al momento delle nozze (lui trentaquattro) - poco più di una bambina, in effetti ("su voz de niña", la sua voce di bambina, lo accompagnerà negli anni del rimpianto).

"Restò tranquilla" è la chiave di sobrietà in cui il testo si iscrive, una sobrietà che è legittima difesa; nessun gesto drammatico né parola di disperazione, la morte non c'è neppure bisogno di esplicitarla. Si sente che la poesia è frutto di una tecnica "in levare": le frasi semplici, parallele, senza subordinate - il dolore è così forte che non sopporterebbe le complicazioni e gli approfondimenti della sintassi. La scena si svolge in un'atmosfera incantata e nel quasi assoluto silenzio (solo un attonito "che hai fatto?" a cui non viene data risposta). Quel che la morte ha da compiere non richiede violenza, la ragazza non cambia attitudine: la sua sopravvivenza è così fragile che troncarla è questione di un soffio. Tutto è già deciso (la tisi non perdona), la morte non guarda in faccia perché non c'è più niente da spiegare - si muove per casa con la familiarità di una serva o di un ladro che ha preso informazioni; passa e ripassa davanti al poeta che non osa nessun gesto, avverte solo un definitivo male al cuore.

La personificazione della Morte è tipica della poesia popolare, e anche il metro appartiene al folclore spagnolo trattandosi di un romance (che consiste in una serie di versi in cui i pari hanno rima assonanzata mentre i dispari restano sciolti); nel nostro componimento i versi sono ottosillabi e assonanzati con parole tronche in - o-; i sedici versi si raggruppano dal punto di vista narrativo in quattro quartine.
Anche il ricorso al metro popolare ha psicologicamente una funzione difensiva: un dolore così è difficile sopportarlo da soli, alludere al folclore vuol dire sentirsi parte di una collettività, di un destino che colpisce universalmente gli uomini; vuol dire rifugiarsi nella saggezza e nella pazienza popolare. Il padre di Machado era un esperto di poesia folclorica; e il figlio aveva già scritto, in quel metro, un lungo poema che il giovane Lorca gli sentì leggere durante un incontro a Segovia.

La posizione di questo testo nella raccolta Campi di Castiglia, dicevamo; è un crinale decisivo per la carriera di Machado, coincidente col suo trasferirsi, subito dopo la morte di Leonor, dalla Castiglia all'Andalusia. L'Andalusia era la terra dell'infanzia e lui aveva chiesto al Ministero di essere trasferito lì (come insegnante di francese) nel tentativo di allontanarsi dai luoghi dello strazio; ma è come se il paese natale gli fosse diventato straniero, perché "falta el hilo que el recuerdo anuda" - manca il filo capace di annodare i ricordi. Quel che la morte ha tagliato non è tanto (tradizionalmente) il filo della vita di Leonor, quanto il filo che li univa - cioè è una condanna alla solitudine, alla mancanza di senso, perché quel filo tra loro era la forza che legava il poeta a tutto il resto. Proprio dalla solitudine era partita la sua poesia (la prima raccolta si intitolava Soledades): la solitudine era essenzialità, verginità di un alfabeto che metteva in relazione l'intimismo emotivo e gli elementi primari della natura (acqua, cielo, alberi). Poi erano venuti l'impegno civile, l'adesione ai "valori spirituali" del paesaggio castigliano promossi da Miguel de Unamuno, la consapevolezza che la poesia è "cosa cordiale" - che non riguarda solo l'io ma anche un "tu" e un "noi". Ora la morte di Leonor sembra averlo punito proprio in questa raggiunta estroversione: la morte è entrata perché il balcone era aperto, come la porta di casa. La serena notte estiva, in cui era solito passeggiare "solo, come un fantasma", è stata il teatro che ha visto assassinare la socialità nel suo punto più tenero e indifeso.

"Quando ho perso mia moglie", scrive nel 1913 a Ramón Jiménez, "ho pensato di spararmi un colpo, ma il successo del mio libro mi ha salvato"; si tratta della prima edizione dei Campos, quella uscita pochi mesi prima della tragedia. Nelle aggiunte alla seconda edizione sono poche le poesie di dolore (tra cui la nostra); presto vengono esorcizzate dallo stoicismo, dal senso del dovere, dalla volontà di essere esemplare. La grazia non verrà mai a mancare del tutto - ma la tomba di Leonor resterà come un segno mai espiato, un oscuro tradimento del sé profondo, un peso che non permette più di volare. Fonte



Ascolta la poesia





Edited by Milea - 4/7/2021, 21:53
 
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Antonio Machado:
un amaro destino da profugo




machado_ape


Andavano a decine di migliaia sotto una pioggia fina sulla strada infangata di Figueres, dietro carrette e muli, dietro automobili, camion e cannoni abbandonati, famiglie intere a piedi, stracariche di casse, balle, armadi, cani, pecore, bottiglie e materassi, esposti alla minaccia dei trimotori italiani che li bombardavano. Era la fine di gennaio del 1939. Dopo tre anni di guerra, la Repubblica spagnola finiva con un esilio in massa verso i campi di internamento francesi. Tra quei cinquecentomila spagnoli in fuga dalla Catalogna verso la frontiera, c' era anche Antonio Machado, il poeta delle Soledades e dei Campos de Castilla. Machado aveva allora 64 anni. Era malato: il cuore e lo stomaco, come disse in una lettera allo scrittore russo David Vigodsky, "si erano messi d' accordo per non svolgere le loro funzioni", le gambe semiparalizzate riuscivano a stento a sostenerlo, ma non aveva perso nulla della vitalità che, da giovane, lo aveva trasformato in uno dei protagonisti della vita artistica di Madrid e di Parigi, in un sodale di Rubén Daro, di Juan RamÀon Jiménez, di Ortega y Gasset, di Unamuno e AzorÀin, in un poeta stimato e popolarissimo.

machado_poeta

Nel 1936, quando scoppiò la guerra, don Antonio si schierò attivamente con la Repubblica, perdendo così i contatti col fratello maggiore, Manuel, passato dalla parte dei nazionalisti. Seguendo i destini del conflitto, abitò a Madrid, a Valencia, a Rocafort e infine a Barcellona, con la madre quasi novantenne e il fratello pittore José, che gli faceva da segretario. Eppure, era sereno. Attorno a lui, si riuniva un circolo di amici e di intellettuali per discorrere di musica popolare e di poesia. JoaquÀin Xirau, un filosofo catalano che poi lo accompagnò nel suo ultimo viaggio, in un testo apparso qualche anno fa anche in italiano, racconta che "don Antonio aveva previsto da sempre la tragedia finale. Nessun falso ottimismo sosteneva il suo fervore. Rimaneva in quell'angolo di Spagna per dignità umana e - lo ripeteva costantemente - per patriottismo".

Le sole cose che ancora lo indignavano erano le manovre della politica internazionale che avevano portato l'Europa alla catastrofe e i bombardamenti dell'aviazione italiana su Barcellona. Soltanto allora abbandonava il suo atteggiamento composto e silenzioso e si metteva a inveire contro gli aeroplani: "Canaglie! Canaglie!", dicono che gridasse.
Per allontanarlo dal pericolo, il governo repubblicano gli offrì incarichi culturali e
diplomatici all'estero, ma don Antonio li rifiutò sempre, finché, una domenica, mentre conversava in salotto con gli amici, arrivò la notizia che i franchisti erano alle porte di Barcellona.

Fuori, cadevano le bombe. Alle tre del mattino del martedì 22 gennaio 1939, lo vennero a prendere con un ambulanza per portarlo, insieme alla madre, al fratello e ad altri intellettuali, fino alla frontiera francese. Restarono per più di un'ora sotto un bombardamento sulla Diagonal, poi, quando tornò il silenzio, ripresero la marcia, confusi nella lenta processione che abbandonava la città. All'alba arrivarono a Gerona, ma le strade erano intasate ed era impossibile proseguire. Allora trovarono rifugio a Cervià de Ter, in una casa isolata dal villaggio, dove restarono due giorni. Don Antonio passava le ore affacciato alla finestra a contemplare i campi, il cielo di un azzurro compatto, finché arrivò la notizia della caduta di Barcellona. Era notte fonda quando una nuova ambulanza, stracarica di persone e di bagagli, addentrandosi nella sierra per una stradina tutta curve, li condusse al Mas Faixat, una grande masseria nel mezzo di un bosco. Fu l'ultima notte che Machado trascorse in Spagna.

Ripartirono all'alba, piegando per strade secondarie per evitare il fiume umano che scorreva lungo la nazionale, poi, minacciati dagli aerei che sorvolavano la zona, attraversarono l'Alto Ampurdan fino a Cadaqués, a Port Bou, e oltre, sulla strada che collegava alla frontiera. Non dormivano da tre giorni e non avevano mangiato quasi niente. Sotto di loro, il mare schiumava contro la scogliera, poi si alzò il vento, cominciò a piovere fitto. Fu allora che gli autisti delle ambulanze li costrinsero a scendere: volevano tornare a Gerona a evacuare feriti. Mancavano seicento metri alla frontiera, ma per don Antonio e per sua madre erano ancora un viaggio, da fare a piedi, sotto la pioggia che la tramontana trasformava in violenti schiaffi d' acqua. Machado dovette abbandonare là la sua valigia, che riapparve qualche tempo dopo, però vuota. Evidentemente, la persona che avrebbe dovuto custodirla pensò che i manoscritti che conteneva fossero troppo compromettenti.
Sappiamo quasi con certezza di cosa si trattava: alcune poesie attribuite a un poeta immaginario chiamato Pedro de Zuniga, che avrebbe fatto parte della Generazione del ' 27, e un'antologia di poeti futuri, non meno immaginari. Don Antonio si appoggiava al braccio del fratello, la madre a quello della nuora.

Camminavano nel buio, in mezzo a camion e carri, agnelli e asini, tra falò e feriti, finché, sfiniti, arrivarono alla catena del confine. Non avevano né soldi né passaporti. Li fecero passare solo perché una delle persone del gruppo aveva con sé un invito per tenere una conferenza alla Sorbona. A Cerbère, il primo paesino al di là della frontiera, la polizia francese rastrellava le strade alla ricerca degli spagnoli privi di documenti per
portarli nei campi di concentramento. Machado e i suoi dormirono in un vagone ferroviario vuoto, poi, con i trecento franchi avuti dal ministro José Giral, incontrato per caso, trovarono una sistemazione all'Hotel Bougnol-Quintana di Collioure. Ma ormai don Antonio era stremato. Solo una volta volle uscire per vedere il mare, per fissare a lungo le onde spinte dal vento freddo. Il 22 febbraio del 1939, il cuore e i polmoni lo tradirono. Venne sepolto lì a Collioure, avvolto in una bandiera della Repubblica, portato a spalla da sei miliziani fuggiti da un campo di concentramento. La madre lo seguì il ventisei di quello stesso mese. Frontiera maledetta. Un anno e mezzo dopo, Walter Benjamin la percorreva in senso inverso, fuggendo dai nazisti a piedi su per i Pirenei, per il sentiero Lister, anche lui trascinando a fatica una borsa nera che custodiva un manoscritto. "Questa borsa", disse a Lisa Fittko, la donna che gli faceva da guida, "è il mio bene più prezioso. Il manoscritto "deve" essere salvato, più importante di me stesso". Però, quando arrivò a Port Bou, scoprì che proprio da quel giorno la Spagna rimandava indietro, nelle mani della Gestapo, i profughi privi del visto d' uscita dalla Francia. Benjamin non resse. Si suicidò in una stanza della Fonda Francia, un alberghetto in cui gli avevano permesso di passare la notte prima di essere ricondotto dall'altra parte dei Pirenei.

Fu sepolto a Port Bou, ma poi della sua tomba si persero le tracce. Nella sua borsa nera c' erano un orologio d' oro, un passaporto, settanta dollari, sei fotografie, una pipa e un paio d' occhiali. Il manoscritto, invece, non fu più ritrovato. Come se un capriccioso scherzo del destino avesse voluto accomunare Benjamin e Machado, disperdendo nel vento, fra Port Bou e Collioure, i loro ultimi scritti, la loro stessa vita. Fonte




Edited by Milea - 17/10/2014, 17:04
 
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