Anton Zoran Mušič, matricola n. 128231 a Dachau: il pittore della Shoah

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view post Posted on 2/10/2014, 19:30     +5   +1   -1
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Sono così tanti a zoppicare che chi cammina dritto, pare in difetto!

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Anton Zoran Mušič, matricola n. 128231
a Dachau: il pittore della Shoah





Le opere dell’arte e del pensiero hanno, tra gli altri, anche lo scopo di custodire la memoria collettiva o personale. L’arte figurativa non si sottrae a questo compito. Infatti, cos’è un dipinto o una statua o una foto, se non il desiderio di conservare qualcosa che altrimenti sfuggirebbe e si perderebbe per sempre? Ciò vale sia a livello individuale sia in senso collettivo: siamo circondati da monumenti, che non consistono solo nelle sculture, ma in tombe, luoghi, lapidi, atmosfere.

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Sotto l’aspetto etimologico, la parola «monumento» si riferisce esplicitamente alla memoria: alla sua radice c’è il verbo latino moneo, il quale a sua volta deriva dal greco mimnésco, e significa «rammentare, ammaestrare, documentare, testimoniare, commemorare, ammonire, richiamare alla mente» e così via.
Tutto ciò è stato tenuto presente in modo esplicito da uno degli artisti che si sono interessati alla shoah: Anton Zoran Mušič. Egli ha avuto il coraggio di ricordare ciò che aveva sperimentato in se stesso e negli altri e in alcune sue opere ha fissato lo sguardo, suo e nostro, su quella realtà grottesca, assurda e demoniaca che si era manifestato nella “civilissima” Europa del XX secolo: esaltazione non solo dell’irrazionale, ma dell’antirazionale.
Aspetti di crudeltà e di sadismo, scarti bruschi, momenti di tensione si rincorrono nei suoi dipinti, dando origine a volti disumani, pose tragicamente deformate, false prospettive, profili frastagliati, che hanno la forza di svelare e di trascrivere la drammatica vicenda di una follia collettiva.

Nato nel 1909 a Gorizia, all’epoca appartenente all’Impero Austro-Ungarico, Mušič (nella foto in alto è il primo a sinistra, accanto a due colleghi pittori) era figlio di insegnanti. Negli anni Trenta compì studi artistici presso l’Accademia di Belle Arti di Zagabria. Inviso al regime nazista, fu accusato di collaborare con ebrei e gruppi antitedeschi, così che nel 1944 venne arrestato dalla Gestapo a Venezia e, per quasi un anno, internato nel campo di concentramento di Dachau, presso Monaco di Baviera.

Qui si procurò dei materiali poveri, quali inchiostro allungato con acqua per farlo durare, foglietti piegati nascosti sotto la camicia, carte e penne sottratte ai laboratori, e abbozzò una serie di disegni che, successivamente, rielaborò in una sequenza di quadri più completi, alla quale diede il titolo Non siamo gli ultimi. I disegni, eseguiti con grande rischio, complessivamente erano circa duecento, ma egli riuscì a salvarne solo trentacinque. Esausto e ammalato, venne liberato dalle truppe americane alla fine della guerra.
In tal modo Mušič non solo documentò le atrocità di cui era stato testimone, ma le rivisse in modo profondo e consapevole, al punto che tutta la sua produzione futura ne sarà costantemente influenzata.
Morì a Venezia nel 2005.

Illuminanti risultano queste parole, che egli scrisse molti anni dopo essere stato liberato da Dachau:
«Ancora oggi mi accompagnano gli occhi dei moribondi come centinaia di scintille pungenti che mi seguivano mentre mi facevo strada, scavalcandoli. Occhi luccicanti che in silenzio chiedevano aiuto a uno che poteva ancora camminare. […] Verso sera quelli che morivano, e tra loro anche quelli solo creduti morti, venivano accatastati come pezzi di legna su un mucchio, come per un rogo. […] Ho imparato a vedere le cose in un altro modo. Dopo le visioni di cadaveri, spogli di tutti i requisiti esterni, di tutto il superfluo, privi della maschera dell’ipocrisia, delle distinzioni di cui si coprono gli uomini e la società, credo di aver scoperto la verità, di aver capito la verità, la terribile e tragica verità che mi è stato dato di toccare».

Nelle immagini che Mušič dedica alle sue memorie di Dachau, l’uomo appare completamente alienato: è “altro da sé”. E le parole precedentemente citate sono il più efficace commento alle immagini.



Il dipinto qui in alto esprime in pieno quei corpi «accatastati come pezzi di legna su un mucchio». Non è più un’umanità: è una massa informe, nella quale è impossibile distinguere delle individualità con le loro fisionomie e le loro storie, le loro speranze e i loro progetti. A stento si riconoscono delle singole membra, slogate e frantumate, atrocemente e beffardamente ammucchiate come in un caos primordiale. L’orrore e la tragedia dell’olocausto è già tutto in questa immagine: un paesaggio di morti, una stanchezza paralizzante, uno scoraggiamento totale. Uno studioso francese, Jean Clair, ha detto che «la vera scuola di Mušič non fu l’Accademia di Zagabria, ma la “scuola di Dachau”».

L’umanità soffocata dallo sterminio nazista è come un’onda tumultuosa
che, senza riuscirvi, tenta di approdare ad un lido di razionalità. Mušič era, e lo sarà anche in seguito, pittore di paesaggio: ma qui egli va oltre l’apparenza, per giungere ad una visione interiore delle cose, una volta che ogni maschera di ipocrisia è crollata. Il silenzio e la solitudine appaiono, perciò, realtà più profonde e “sostanziali” rispetto alle urla e alla folla che viene travolta dagli eventi. Lo spazio risulta assente, come se tutta la vita dell’uomo si svolgesse su un piano immediato, di pura e dura presenza. Ha detto una studiosa italiana, Alessandra Doratti:

«In Mušič, quanto nella superficie di una tela può sfuggire,
è immobile, fissato, senza tempo, senza ora,
senza epoca, senza realtà;
la sua è un’opera ferma, di tempo solidificato,
di durata eterna».


Ed effettivamente manca ogni possibile punto di riferimento che possa collocare la scena all’interno di una storia, di una vicenda: tutto si riduce a scabra poesia, ruvida essenza dell’uomo, pura desolazione che tende alla disperazione.
Tutto ciò riecheggia drammaticamente nella terza figura: lo sguardo appassionato del pittore si posa su un gruppo di tre persone. Ma sono ancora persone? Sono fantasmi. È una macabra danza della morte di sapore medievale che ritorna nella moderna civiltà. Il primo personaggio a sinistra ha il volto ridotto alle vuote occhiaie e alla bocca, aperta come in un urlo, mentre agita le braccia in modo disarticolato e impacciato. Il secondo porta la destra all’altezza della bocca, mentre guarda (guarda?) l’altro, in un dialogo fatto di orrore e di lacerazione. L’ultimo, infine, volge lo sguardo al cielo: attesa di una salvezza o rimprovero a Dio, che non interviene per salvare i suoi figli?



Questo crescendo di disumanità sprofonda definitivamente (ultima figura in basso): l’individuo, il singolo uomo, che, secondo la grande tradizione umanistica europea, è rivestito di ogni dignità e di ogni splendore, qui è lo scheletro rivestito di una camicia, su uno sfondo oscuro, inutilmente agitato e fisicamente disarticolato. Se questo è un uomo…, direbbe Primo Levi.



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