"Lontano lontano..."- Franco Fortini, Parafrasi e commento

« Older   Newer »
  Share  
view post Posted on 25/7/2014, 15:29     +7   +1   -1
Avatar

Group:
Administrator
Posts:
34,024
Reputation:
+25,053
Location:
Sono così tanti a zoppicare che chi cammina dritto, pare in difetto!

Status:



"Lontano lontano..." Franco Fortini

(da Sette canzonette del Golfo, in Composita solvantur)



Lontano lontano si fanno la guerra.
Il sangue degli altri si sparge per terra.

Io questa mattina mi sono ferito
a un gambo di rosa, pungendomi un dito.

Succhiando quel dito, pensavo alla guerra.
Oh povera gente, che triste è la terra !

Non posso giovare, non posso parlare,
non posso partire per cielo o per mare.

E se anche potessi, o genti indifese,
ho l’arabo nullo ! Ho scarso l’inglese !

Potrei sotto il capo dei corpi riversi
posare un mio fitto volume di versi ?

Non credo. Cessiamo la mesta ironia.
Mettiamo una maglia, che il sole va via.

1991


Libri





La leggerezza dell’escluso. Distici di doppi senari a rima baciata: come tutti i versi parisillabi, in italiano la tradizione li vuole più adatti al comico che al tragico. A parte due sonetti (sarcastici per arcaismo), anche le altre “Canzonette del Golfo” hanno per metro un verso pari, otto o decasillabo. Ma il doppio senario è nei cori delle tragedie manzoniane, e in ottonari Carducci racconta la morte disperata del re Teodorico; ritmi del ridicolo o della Storia - qui, del ridicolo della Storia: la tragicommedia della propria impotenza di fronte all’ingiustizia di un rapporto di forze. La chiave del testo è al v. 7, «non posso parlare ». Fortini me lo ricordo, nel dispettoso auto-esilio di Bocca di Magra, a me che lo congratulavo per essersi tirato fuori dalla lotta politica, rispondere con durezza «non mi sono tirato fuori, mi hanno escluso». Era uscito dal Corriere sbattendo la porta, il Manifesto ospitava i suoi articoli ma lui ci credeva sempre meno, era stanco della “battaglia delle idee”; le alternative anti-imperialistiche in cui aveva creduto erano cadute una dopo l’altra. In quell’inverno del ‘91 l’unanimismo filo-americano non concedeva margini di discussione, stare con gli iracheni sembrava una follia.

Nella nota che accompagna il testo, Fortini definisce quella guerra «un’operazione di polizia»: falsa nei moventi e ipocrita negli scopi, assurdamente asimmetrica. Lui la guardava in tivù, curava il giardino della sua villa aggrappandosi angosciosamente all’immagine dei saggi cinesi, tra Brecht e Lu Hsun. Aveva 74 anni.

La leggerezza è voluta e patita, non rientrava nel suo carattere: è un surrogato del silenzio. “Lontano lontano” si dice nelle fiabe, ma è anche il titolo di una malinconica canzone di Tenco; era pure la consolazione degli italiani in quel momento, per fortuna sta succedendo così lontano. Il sangue era degli altri: la sproporzione tra i due eserciti, in termini di perdite umane, fu incredibile e inaudita - era una guerra a senso unico. Ecco che scatta, parodistico, il confronto tra le ferite belliche e la puntura di una rosa. Non dice «succhiandomi il dito» ma «succhiando quel dito », come se l’insopportabilità del sangue rendesse estraneo perfino il proprio corpo. E i pensieri sono elementari, senza mordente politico; sono i pensieri di un povero vecchio qualunque: lui che più di vent’anni prima a Firenze, in una “manifestazione unitaria” contro un’altra impresa dell’imperialismo americano, aveva acuminato i paradossi («sul Vietnam non ci si unisce, sul Vietnam ci si divide!») fino a rischiare l’ostracismo della sinistra. Ora si sente solo, tagliato fuori da ogni dibattito: non gli resta che il sogno patetico e infantile di un impossibile arruolamento.

La vecchiaia, le barriere linguistiche (il suo tardivo dispiacere di aver studiato il francese e non l’inglese, da giovane).

Il “fitto volume di versi” esisteva davvero: l’anno prima, nel ‘90, Einaudi aveva pubblicato i Versi scelti — un’amplissima antologia che era anche una consacrazione. L’autoironia amara raggiunge qui (nella rima ricca “versi/ riversi”) il suo culmine: di fronte all’ingiustizia storica e al dolore creaturale la letteratura conta meno di zero. La stessa regolarità metrica suona come uno sberleffo. E forse agiscono anche i dubbi sulla sorgività della propria vocazione di poeta (l’invidia per Pasolini ed Eluard); i poeti nativi e sorgivi possono permettersi di essere irresponsabili e poco lucidi, lui no. La riflessione autocritica gli fa cadere la verve, non ha più voglia di scherzare. Quell’inutile “non credo” è puro desiderio di finire, per fortuna il sole sta tramontando e a quell’ora i bravi vecchietti si mettono la maglia di lana.

Tante volte Fortini, sia saggista che poeta, è stato accusato di oscurità (lo prendevamo in giro, «si spezza ma non si spiega»); e invece qui, in questa senilità inerme e smarrita, la cosa più commovente è proprio la semplicità. Non c’è una parola difficile o astrusa, non c’è una citazione colta, non c’è un’inversione sintattica latineggiante o preziosa: il testo si presenta indifeso come le “genti” che non può andare a soccorrere. Mai Fortini ha raggiunto, parlando d’amore, l’intimità emotiva di questo testo di delusione e di rabbia. È una resa, ma una resa che sottintende una resistenza più profonda: gli altri poeti italiani della sua generazione, da Sereni a Caproni a Bertolucci, di fronte al crollo delle vecchie categorie si trincerano dietro un grande-stile lapidario e un po’ mortuario, pronunciano le verità ultime e sublimi, si astraggono dalla cronaca o la interpretano secondo sottili equivalenze metaforiche.

Lui continua a guardare la cronaca in faccia, come di lì a poco guarderà la malattia; accetta la propria miseria e inefficacia ma non smette di testimoniare: questa volta si spiega, riducendo il proprio armamentario retorico ai minimi termini, ma non si piega all’idea di una lirica che appartenga solo a se stessa. Sul rapporto tra impegno e forma, tra Storia e assoluto, forse i suoi saggi orgogliosi e poco ruffiani, così appassionati nell’intervento e così poco giornalistici, potrebbero ancora servire: per “un buon uso delle rovine”, come suona il sottotitolo di uno dei suoi ultimi libri. Fonte


Ascolta la poesia




Edited by Milea - 4/7/2021, 22:09
 
Web  Top
view post Posted on 25/7/2014, 15:37     +4   +1   -1
Avatar


Group:
Tazzulella fumante
Posts:
1,149
Reputation:
+202

Status:



Franco Fortini: un uomo “contro”

La strana leggerezza dell'outsider


I libri, lo stile, le battaglie di un intellettuale di sinistra fuori degli schemi


fortini_ape


In un ponderoso volume appare un'importante raccolta di scritti fortiniani (F. Fortini, Un giorno o l'altro, a cura di M. Marrucci e V. Tinacci, introduzione di R. Luperini, Quodlibet, pagg. 593, euro 35). La storia della raccolta è presto detta. Secondo quanto racconta Luperini nella sua bella (e, direi, nostalgica) introduzione, lui stesso avrebbe ricevuto dalla vedova di Fortini, Ruth Leiser, un plico contenente "cinquecento pagine fitte di appunti": il frutto di un lavoro compiuto dall'Autore negli ultimi quindici anni della sua vita, e inteso a ricostruire, secondo le parole di Fortini negli Appunti per una prefazione, non un "archivio", non una raccolta di "documenti", ma una "autobiografia": una sorta di vittoriniano Diario in pubblico, come ancora Fortini lo definisce in una lettera a Giulio Bollati del 2 maggio 1987, posta in epigrafe al volume (e già questo suscita qualche stupore, siccome si potrebbe dire, - e lo stesso Fortini lo dice - che non esistano due personalità più diverse di Vittorini e Fortini, anche nella costruzione e trattazione della propria autobiografia: ma tant' è, qualche elemento di chiarezza lo si acquisirà forse più avanti). Trattasi dunque di opera tipicamente incompiuta e, soprattutto nella parte finale, come lasciano supporre le due curatrici, affastellata e caotica, cui non presiede alcun ne varietur da parte dell'Autore: sì da dar luogo a un caso abbastanza estremo (e perciò tanto più interessante) di filologia della contemporaneistica.

Pare a me che le due curatrici, Marrucci e Tinacci, se la siano cavata piuttosto bene, approfittando anche del fatto che gran parte del materiale era già contenuto - e parzialmente ordinato - in quattro floppy-disk registrati da Letizia Gozzini, collaboratrice di Fortini, a loro volta confrontati puntualmente per l'occasione con l'ampio materiale cartaceo conservato nel benemerito Archivio Franco Fortini dell'Università di Siena (dove, ricordiamolo, Fortini aveva a lungo e scrupolosamente insegnato). Naturalmente, in lavori del genere, che non pretendono alla compiutezza (del resto, anch' essa tante volte aleatoria!) dell'edizione critica o diplomatica, tanti sono gli interrogativi su cui si vorrebbe tornare a discutere.

fortini_poeta

Io li ridurrei qui sostanzialmente a tre: 1) la disposizione dei "pezzi", per quanto ufficialmente autenticata dall'Autore (di cui per altro non esiste da questo punto di vista alcuna giustificazione soggettiva) avrebbe potuto probabilmente esser fatta oggetto - cammin facendo - di qualche informazione e spiegazione in più; 2) l'individuazione dei luoghi originari dei "pezzi", quando ce ne fossero, consegnata alle venti pagine delle Note, appare davvero un po' troppo avara rispetto all'alto numero complessivo dei "pezzi" pubblicati: poco comprensibile, in modo particolare, si rivela la linea di distinzione fra "pezzi" già editi e "pezzi" inediti; 3) la presente edizione si conclude con i materiali del 1978, avverte una scarna noticina a p. XXI delle introduzioni: sarebbe stato il caso, - invece di affidarsi tout court all'attendibilità delle curatrici - fornire una descrizione più precisa dello stato dei materiali dopo quella data e fino alla morte dell'Autore, del resto sedici anni tutt' altro che poveri di scritti, interventi, prese di posizione e polemiche da parte sua.

Come che sia, il libro è meritorio e importante, non solo perché riporta l'attenzione su di un Autore oggi troppo poco frequentato (non casualmente, come vedremo), ma soprattutto perché consente di ri-misurare la sua ragguardevole presenza (contestata e contestabile, ovviamente) nel panorama letterario e politico-culturale italiano del Novecento. Ha ragione Romano Luperini ad attirare l'attenzione sul valore di senhal del titolo da lui prescelto per quest' opera composita e volutamente provocatoria: Un giorno o l'altro (che per altro è un calco da un verso veneto di Noventa) insiste sull'importanza della temporalità e del trascorrere del tempo - nella posizione fortiniana: "Sempre dall'ieri al domani; sempre l'oggi in bilico fra passato e futuro, fra memoria e mutamento" (R. Luperini, pag. IX). Anche il titolo di Una volta per sempre, la raccolta delle sue poesie fra il 1938 e il 1973, è da inserire evidentemente in questa serie. Osserverei che, man mano che il tempo passava, e le situazioni si facevano più difficili, invece, paradossalmente, di semplificarsi, la dialettica passato - presente-futuro, che in Fortini presiede fra l'altro alla sua nozione di classico, tendeva tuttavia a sincronizzarsi su di un presente sempre più ossessivo. Ricorderò che, nelle pagine finali di quel libro straordinario che è I cani del Sinai (1967), lo scrittore osservava: "Il nostro lavoro non ha luogo. Non tutto, ma molto può accadere. E poi non ho più voglia di spiare quel che accadrà ma solo di fare quel che posso ora per ora".

Dunque, un'autobiografia. Ma, ovviamente, un'autobiografia non narrativa: bensì ricostruita sui materiali di volta in volta elaborati nel tempo. Essi, per chiarezza ancora maggiore, vengono disposti cronachisticamente anno per anno: trentaquattro dal 1945 al 1978.
In questi medesimi anni (se teniamo anche noi come termine ad quem il 1978) appaiono tutte le opere fondamentali di Franco Fortini: le grandi raccolte saggistiche; Dieci inverni (1957), Verifica dei poteri (1965), Saggi italiani (1974), Questioni di frontiera (1977); la raccolta poetica che, come già s'è ricordato, riassume quanto in quel campo fino ad allora aveva realizzato, Una volta per sempre (1978); persino il meglio della sua produzione satirica ed epigrammatica, L'ospite ingrato (1966). Ora, le domande sono due: cosa cercava di fare Fortini, ipotizzando una storia soggettiva della sua esperienza, che andasse al di là di quella straordinaria, per certi versi insuperabile "autobiografia implicita", contenuta nelle sue opere testè richiamate e nel dibattito pubblico, intensissimo, che sempre le ha precedute e sempre le ha seguite? E quali effetti ulteriori ne ha conseguito, ed è dato ora a noi valutare e apprezzare? Azzarderò due risposte. Confrontando la "serie pubblica" (quella delle opere già edite) con quella di Un giorno o l'altro, si direbbe che Fortini abbia voluto descrivere la "storia interna" di quel percorso: la serie delle motivazioni profonde, i conflitti, i problemi esistenziali, persino le dolorose rinunce, cui l'"esposizione pubblica", pur così ricercata e voluta, s' ispirava e al tempo stesso lo esponeva. Facciamo un passo indietro per capirlo meglio. Nel saggio Il senno di poi, che apre a mo' di prefazione Dieci inverni, egli scriveva: "La costante del lavoro nostro, voglio dire il mio e di alcuni amici, è stata quella di operare perché si formasse un inizio, un frammento di società nuova, un modo di "essere insieme"".

Altrove, tornando sul medesimo argomento, ragionerà che non è sufficiente cambiare il mondo in termini economici o, se si vuole, materialistico - storici: bisogna porsi l'obiettivo di cambiarne il modo d' essere, cioè la cultura, cioè, in termini più radicali, l'antropologia. Questo programma, in un'Italia (un'Europa? un mondo?) dove la forma più consolidata di trasformazione è la corruzione, corre il rischio di apparire sovranamente anacronistico, - cosa che del resto non avrebbe affatto imbarazzato il nostro Autore. Infatti, negli Appunti per una prefazione, Fortini, tanto per esser chiaro fino in fondo, anche, verrebbe voglia di dire, con attitudine postuma, dichiara di non volersi rivolgere a nessun common reader e tanto meno agli esponenti della "cosiddetta repubblica intellettuale", ma - si deve supporre - solo a quei lettori che siano in grado di sorbirne l'amaro calice e perfino di gradirlo.
Insomma: Un giorno o l'altro ne mostra quel che sta (è stato) dietro i libri saggistici, le raccolte di poesie e gli interventi polemici dichiarati: la riflessione e il colloquio con le fonti per lui più importanti (Sartre, Gramsci, Lukàcs, Brecht, Weil), l'intreccio spesso arroventato dei rapporti con gli amici-nemici (Vittorini, Calvino, Pasolini, Sereni, Guiducci, e poi Montale, Luzi, Cases, Anceschi, Capitini), la rappresentazione dei momenti di sconforto, di depressione, d' irritazione, - e di stizza. E gli effetti di questa lunga rivisitazione? Alterni. Ci sono pagine bellissime, soprattutto quelle sui suoi auctores.

Di qualche pagina si sarebbe fatto volentieri a meno. Com' è noto, il temperamento, - quello intellettuale in primo luogo, ma anche quello caratteriale, - di Fortini rappresenta la singolare confluenza di un autentico illuminismo marxista, di un intenso utopismo d' origine probabilmente ebraica (per quanto mitigato e arginato da un inflessibile laicismo, fonte anch' esso per lui d' innumerevoli censure) e di un autentico rigorismo protestante, che si manifestava anche nei modi spogli della vita quotidiana e nei rapporti molto diretti con le persone. Aggiungi un Narciso poetico di notevolissime proporzioni. Sul piano privato questa ricchissima (e contraddittoria) miscela si manifestava a volte nelle forme di un acceso risentimento e di una nevrotica intolleranza, acuite dal sentimento permanente di non essere abbastanza riconosciuto nonostante i suoi meriti. Questo di fatto era vero: ma ci si stupiva talvolta che egli non capisse che, dato il radicalismo delle posizioni assunte, era anche inevitabile. Infine, il caso personale. Dai brani che mi riguardano, raccolti in questo volume, si direbbe che Fortini abbia guardato a me come ad un pericoloso eversore e ne abbia preso, talvolta con durezza, le distanze. La storia, raccontata per intero, sarebbe più complessa.

Cercherò di riassumerla qui in forma aneddotica.
Quando agli inizi degli anni '60 mettemmo in piedi - mentore e promotore indispensabile Raniero Panzieri, - la redazione dei "Quaderni Rossi", Fortini da un certo momento in poi prese a frequentarla: fatto oggetto da parte nostra di una scandalosa indifferenza, che nei più sfrontati arrivava fino alla più aperta derisione. Fra quei trentenni esagitati e il quarantacinquenne Fortini, che già allora si dichiarava sconfitto più volte, non c' era né omogeneità di esperienze né comunanza di prospettive. Del resto, ci sono momenti in cui è più giusto rimarcare le differenze che le affinità: se si vuole crescere.
Negli anni successivi questa divaricazione, espressa inizialmente nelle forme più tipiche del ribellismo giovanile, prese un andamento più teorico nella denuncia della sopravvivenza in Fortini delle vecchie forme (per quanto rivisitate da un punto di vista critico) della "battaglia culturale" ("fine della battaglia culturale", appunto). In una lunga recensione, quasi un saggio, al suo Verifica dei poteri, intitolata L'uomo, il poeta, declinavo l'impossibilità, l'illusione, la patologia di continuare a pensare che poesia, critica e letteratura potessero essere tramite, strumento, occasione, metafora, simbolo di un discorso direttamente politico e ne invocavo l'assoluta peculiarità, - insomma, al tempo stesso, l'autosufficienza linguistica e il limite pratico invalicabile. Significava negare l'essenza più profonda del tentativo fin allora portato avanti da Fortini.

Molti degli appunti polemici presenti in Un giorno o l'altro si riferiscono a questo episodio e a questa fase.
Poi le cose andarono diversamente: non solo per Fortini; ma anche per il mio, per il nostro, tentativo di andare oltre anche rispetto a lui (che per molti anni aveva svolto il ruolo di polo estremo della criticità). L'oltranza giovanile della "fine della battaglia culturale" si è confrontata successivamente con quelle condizioni che solitamente si definiscono "più avanzate", in cui, per così dire, era diventato illusorio dividersi intorno al tema se una "battaglia culturale" poteva essere oppure no un momento necessario, anzi indispensabile, di una battaglia politica (antropologica) più generale, siccome di "battaglia culturale" non c' era più traccia, né buona né cattiva: semplicemente se l'era divorata lo sviluppo, cioè l'inesorabile liquidatore di ogni tipo di battaglia, non solo culturale, ma anche politica e sociale (con una conseguente, terribile torsione antropologica, allora inimmaginabile). Quando questo fu chiaro. Fortini ed io capimmo che era venuto meno il motivo del contendere e ci scoprimmo dalla stessa parte. Gli ultimi anni suoi, anche dolorosi e contraddistinti da una solitudine crescente (lo avevano abbandonato a folate molti dei suoi più giovani estimatori e persino adulatori, convolati a giuste nozze con il sistema e con i suoi danarosi diadochi), hanno visto manifestarsi una crescente comunità d' intenti. Verso dove? Difficile dirlo? Più facile dire da dove, anzi, più esattamente, lontano da dove. In questo senso la lezione fortiniana, al di là delle singole affermazioni e del linguaggio fortemente datato, è ancora viva: chi sta troppo accosto alle cose, le cose lo afferrano e se lo pappano. Ma questa è la storia dei nostri giorni. Fonte




Edited by Milea - 28/7/2014, 15:37
 
Top
1 replies since 25/7/2014, 15:29   15253 views
  Share