"Metà della vita" - Friedrich Hoelderlin, Parafrasi e commento

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view post Posted on 1/8/2014, 15:49     +4   +1   -1
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"Metà della vita" - Friedrich Hoelderlin

dal Taschenbuch 1805


Hälfte des Lebens


Mit gelben Birnen hänget
und voll mit wilden Rosen
das Land in den See,
ihr holden Schwäne,
und trunken von Kű ssen
trunkt ihr das Haupt
ins heilignű chterne Wasser.

Weh mir, wo nehm'ich, wenn
es Winter ist, die Blumen, und wo
den Sonnenschein,
und Schatten der Erde ?
Die Mauern stehn
sprachlos und kalt, im Winde
klirren die Fahnen.


(1804)



Libri


Metà della vita


Con gialle pere si curva
e folto di rose selvatiche
il paese nel lago,
voi cigni amati,
e ubriachi di baci
voi tuffate il capo
nell'acqua sacra-sobria.

Ahimé, dove prendo, quando
è inverno, i fiori, e dove
la chiarità del sole
e l'ombra della terra ?
I muri stanno
afoni e freddi, nel vento
cigolano le banderuole.



Libri


Nel cuore dell’idealismo.A noi novecenteschi e oltre, abituati a tutto, può sembrare un idillio ispirato alle stagioni – se ne facevano tanti allora, in letteratura come in musica, con le loro brave riflessioni sentimentali e morali. I recensori dell’Almanacco in cui la poesia (insieme ad altre otto) uscì nel 1804 non furono dello stesso parere: parlarono di “vaneggiamento in versi” e uno ironizzò: “per il raro mortale che si vanti di aver capito queste nove poesie… dovrebbe esser bandito un premio cospicuo, e non impediremo neppure all’autore di partecipare”. Il primo editore che le raccolse in volume (quando già effettivamente Hőlderlin viveva rinchiuso nella casa di un falegname, guardato a vista dopo una diagnosi di schizofrenia conclamata), trovando troppo strane le “Birnen” del v.1 le trasformò in “Blumen”, fiori.

Eppure quelle pere gialle con cui la terra si sporge, pende sul lago, sono un’immagine straordinaria di matura estate; col verbo a fine verso che tira giù con sé verso l’acqua anche le rose. E i cigni ubriachi di baci, che tuffano la testa in quella stessa acqua, chiudono il paesaggio in perfetta circolarità. La sintassi, certo, è anomala: con quegli “und” che sembrano riaprire frasi già orientate, quell’”ihr” vocativo ripetuto, quell’aggettivo composto e inedito, “heilignűchtern” (santamente sobrio). Nella seconda strofa sono anomali i due primi versi, che finiscono con “quando” e “dove” in bilico sul verso successivo. Ma la cosa che doveva apparire più incomprensibile è il nesso tra le due strofe: siamo in estate e ci si immagina l’inverno, o viceversa ? Quelle mura afone e indifferenti sembrano viste al presente, non c’entrano con la calda estate di prima. Ognuna delle due strofe ha intimamente bisogno dell’altra, sono tesi e antitesi – ma manca la sintesi.

Hőlderlin è stato compagno di collegio di Hegel, a Jena abitava accanto a Fichte, era molto amico di Shelling: nel cuore dell’idealismo tedesco. Avevano fatto il tifo per la rivoluzione francese poi Napoleone li aveva delusi. Hegel stava reagendo con una formidabile costruzione di pensiero, si stava inventando la filosofia della storia: il negativo veniva ‘superato’ in una positività più alta. Hőlderlin era psichicamente il più fragile: in famiglia aveva respirato il lutto, nel 1802 era morta Susette Gontard, la sola donna che avesse amato davvero. Per lui il principio di individuazione era la sofferenza: il tempo non si fa addomesticare dall’assoluto e la vita non è l’idea.
Al centro della poesia sta proprio lo spazio bianco tra le due strofe (entrambe di 7 versi e in metro libero, ma quanto ritmicamente più ansiosa la seconda !): le due metà della vita, anzi “hälfte” singolare, una metà, metà di una vita troncata in due. Quello spazio bianco è il segno di una lacerazione non sanabile.

Sotto l’apparente idillio c’è un simbolismo più ambizioso
: la tarda estate è pienezza, erotismo, armonia degli opposti (la selvatichezza delle rose e il vino che dà l’ebbrezza dionisiaca si placano nella sobrietà sacra dell’acqua) – Schiller gli aveva raccomandato in una lettera di mirare alla “sobrietà nell’entusiasmo”. E lui che venera Schiller si propone come poeta che ricompone una totalità perduta, anzi che tiene in vita il ricordo della totalità nella “notte” che il mondo sta attraversando (il ciclo di nove poesie nell’Almanacco lo aveva lui stesso definito Canti della notte). Ma non ce la fa, cerca i fiori d’inverno come quel ragazzo, impazzito per amore, che Werther incontra nel romanzo di Goethe. D’inverno la luce e l’ombra non si distinguono più e le cose appaiono indecifrabili: sono “sprachlos”, senza linguaggio, o parlano una lingua incomprensibile. In un abbozzo di questa poesia i fiori erano cercati “per intessere corone ai Celesti”, e Hőlderlin aggiungeva che a non trovarli “sarà come se più non conoscessi il Divino”. Sotto il ciclico contrasto delle stagioni c’è la perdita irrimediabile del contatto con l’Assoluto, la fine di un’utopia universale. Qui sta lo spessore tragico del testo, così pazzoide per i suoi contemporanei e così familiare alle novecentesche terre desolate o case dei doganieri. Nel progetto di inno intitolato La ninfa arriva a dire che siamo noi uomini “un segno senza spiegazione”.

Adorno sosteneva che la paratassi, cioè accostare le frasi senza subordinarle (tipica dello stile di Hőlderlin, e caratteristica principale della nostra poesia) dipendeva dalla docilità, dalla passività esistenziale; e che questa passività lo ha condotto alle riuscite più geniali quando è diventata docilità alla lingua – cioè lasciar fare alle parole, “essere parlati”: lasciare che le parole si raggrumino in gorghi involontari (qui, l’incontro “trunken/trunkt”, o la folla di “w” ai vv.8-9), come se gli dèi in fondo fossero l’inconscio. Purtroppo Hőlderlin è andato oltre: la tensione inconciliabile lo ha portato personalmente alla psicosi – le poesie degli ultimi anni, che firmava “Scardanelli, con deferenza”, parlano delle stagioni ma con massime rassicuranti, in rima. Si è arreso, la scissione è stata rimossa e il tempo “nemico” non esiste più – lui, che non datava mai le sue poesie, nella casa del falegname le data con cura: ma le date vanno dal 1648 al 1940. Fonte


Ascolta la poesia






Edited by Milea - 4/7/2021, 22:09
 
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Friedrich Hoelderlin:
bellissimo, eclettico, folle




hord_ape


Ci aveva troppo viziati, Friedrich Hoelderlin (1770-1843). Nei poco più che trent' anni della sua vita cosciente aveva scritto un romanzo, Iperione, che spiccava il volo, dalla più dolorosa attualità storica (lotta dei Greci contro la signoria dei Turchi), verso un'altissima visione metastorica, filosofica, mitica, politica ove si rifletteva, con l'immediatezza misteriosa della poesia, sulle nuove febbri europee e sul destino di quel popolo feroce, infantile e immaturo che erano i tedeschi. Aveva anche composto una tragedia, La morte di Empedocle, che - come alcune grandissime opere teatrali - avrebbe sempre stentato a trovare degna ospitalità sul palcoscenico. Era infatti un puro mito lirico, una confessione personale di sconcertante stranezza: il poeta che, incompreso dal proprio secolo, cerca trasfigurazione in una sorta di suicidio sacrificale.

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Ci aveva anche dato, Hoelderlin, traduzioni arcifedeli e insieme originalissime, urtanti e rivelatrici, di poeti greci come Sofocle e Pindaro. E in certi saggi ci aveva fatto vedere dentro il cuore segreto della civiltà ellenica, là dov' essa nasconde la sua natura asiatica e orgiastica, irrazionale e quasi demente: in ciò anticipando di vari decenni le "scoperte" di Nietzsche. Ma soprattutto, questo bellissimo giovane svevo destinato a essere pastore evangelico ma che poi era corso via per le strade della Germania e della Francia, e più ancora per le strade interne della rivoluzione francese e della filosofia idealistica tedesca (suoi compagni di scuola erano stati Hegel e Schelling), aveva esplorato in sé zone fino allora appena sfiorate da qualche sommo in un momento di grazia, come Goethe, che però lo avrebbe lasciato in disparte con un certo fastidio.

Di una delicatezza e vulnerabilità da sensitivo, Hoelderlin era arrivato a intuire i segreti del cosmo, i comuni legami delle filosofie e religioni più apparentemente lontane, il risveglio di popoli sino allora in letargo, i segnali criptici che la natura ci manda per alludere all'altro e all'oltre: e non solo auscultando il suo cuore e i suoi nervi, ma traendo lezioni dalle proprie letture, dai traumi di quell'età rivoluzionaria e innovatrice, da un amore dolcissimo e tremendo (e atrocemente casto) come quello per Susette Gontard, la giovane moglie di un uomo di finanza, dalle umiliazioni e incomprensioni che furono l'amaro pane quotidiano. Altri, più tetragoni di lui, avrebbero retto.
Lui non ce la fece, e sprofondò nella pazzia, passando una quarantina d' anni, più sorvegliato che rinchiuso, nella casa di un falegname: il quale, insieme con tutta la sua famiglia, si dimostrò degno di custodire un tal uomo. Molti vanno a visitarla, a Tubinga, la torre in cui Holderlin vegetò così a lungo, ogni tanto visitato da qualcuno ch' egli accoglieva - e forse neutralizzava - con le raggelanti cerimoniosità di cui tra noi era maestro Carlo Emilio Gadda. E poi, passeggiate, letture, ore contemplative alla finestra, nasali musiche sulla spinetta, conversazioni coi signori Zimmer.

E' in quest' atmosfera di acquario o di limbo che Hoelderlin, dimenticando man mano se stesso, riprende la penna e butta giù qualche poesia. Quante, in tutti quegli anni? Non si sa, ma pare ne sia stata distrutta una quantità enorme, considerata roba di cui vergognarsi, per uno ch' era stato Hoelderlin. Ma una cinquantina di questi componimenti lirici sono conservati. E ci presentano qualche difficoltà. Dicevo all'inizio che questo poeta ci aveva viziati. La sua lirica infatti - abbagliante, tagliente, soavissima, spietata, tutta ribaltamento, tutta classicità - è l'unica che possa competere con quella di Goethe, in tutta la letteratura germanica. Ma oltre che viziati Hőlderlin ci ha pure condizionati. Voglio dire che leggere una sua poesia composta dopo i primi anni dell'Ottocento, quando la sua mente si oscura fino a farlo definire pazzo, ci forza pur sempre a un confronto con le grandi opere precedenti: il che è ingeneroso e fuorviante. Perché non facciamo invece un altro esercizio?

Supponiamo che il primo Hoelderlin sia morto nel 1802 (quando morì anche la sua Susette). Immaginiamo che le liriche composte più tardi siano di un altro poeta, che col primo non abbia nulla in comune. Ebbene, che effetto ci farebbero? Che posto assegneremmo, nella poesia lirica tedesca, al loro autore? Forse sono io, adesso, a farmi condizionare in questa operazione di anticondizionamento: ma ritengo che il poeta di questi nuovi canti ci affascinerebbe, ci riempirebbe di sorpresa, ci farebbe emettere un alto voto. Ma, beninteso, non mettendolo mai a confronto speculare con l'altro Hoelderlin: il primo, che per molti rimane l'unico. Il secondo Hoelderlin, infatti, che qui con commovente regressione giovanile torna ai metri regolari e alle rime da lui scompaginati nella stagione della sua genialità, ha una dolcezza, un occhio limpido e innamorato, una "quiete dopo la tempesta" che non solo ci toccano come rivelazione psicologica, ma ci conquistano come attuazione stilistica e poetica. Per l'editore Bibliotheca (pagg. 62, lire 15.000, testo a fronte), Giampiero Moretti ha scelto e tradotto - quasi sempre con belle soluzioni, in alcuni casi lasciandomi un tantino perplesso - ventidue di queste liriche, col titolo Le stagioni, che è poi il tema dominante di questo poetare postremo e "senile".


Le stagioni, appunto.
Addio, storia contemporanea, con le tue bandiere, ghigliottine, costituzioni, cannonate, idee progressiste. Addio amore di Susette, paradiso infernale e inferno paradisiaco, fonte di conoscenze e di illuminazioni. Addio pensiero filosofico, scoperte critiche, lampi di profetismo religioso tra il crìstico e il pagano. Tutto questo ormai è cancellato. Resta la natura, la divina natura: ma solo col suo volto consolante; mai matrigna, sempre madre e sorella. Lo dicono le parole stesse, accarezzate come cuccioli mansi, evitando tutte quelle che hanno denti e artigli: le parole gioia, splendore, chiaro, mite, fiorire, brillare, fresco, ornato, festa, perfezione... Un idillio? L'Arcadia rinata? Un giardino d' infanzia? Sì e no. Più no che sì. Niente melassa, infatti, niente sentimentalismo ottimistico in queste mirabili orditure di parole-luce, di parole-armonia, di parole-felicità. E' come il canto di un angelo o di un beato, che evoca le bellezze e le soavità del mondo non perché non ne conosca i lati cupi e perfino orrendi, ma perché quel purgatorio ormai l'ha superato e vede solo la sua attuale beatitudine. Ci fosse solo questo Hoelderlin numero due, la Germania avrebbe comunque un grande poeta da amare e da studiare. Ma certo, Hoelderlin numero uno...

Un consiglio? Prendete la ristampa di tutte Le liriche di Hoelderlin, uscite nei Classici Adelphi nel 1977-78, a cura di Enzo Mandruzzato, e ora riproposte dalla stessa casa, in un solo volumone (pagg. 994, lire 29.000) in edizione economica. Vi ritroverete le stesse poesie ultime, diversamente tradotte (confrontarle può essere un esercizio dilettevole e istruttivo). Ma vi potrete leggere anche le composizioni poetiche della giovinezza, cioè precedenti le ombre della pazzia. (Ma fu poi vera pazzia, o una simulazione per sottrarsi a un mondo ormai insoffribile? C' è qualcuno che oggi lo sostiene, come per Robert Walser). Si percorrerà così l'arco intero della creatività del poeta: un vero arc-en-ciel della cultura mondiale, nel segno della poesia, disegnato negli anni in cui il vecchio mondo impallidiva e si cancellava, mentre quello nuovo - tremendo e affascinante - cominciava a prendere possesso del nostro pianeta. Fonte


 
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