"Metà della vita" - Friedrich Hoelderlin, Parafrasi e commento

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*stellinat*
view post Posted on 1/8/2014, 15:57 by: *stellinat*     +3   +1   -1
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Friedrich Hoelderlin:
bellissimo, eclettico, folle




hord_ape


Ci aveva troppo viziati, Friedrich Hoelderlin (1770-1843). Nei poco più che trent' anni della sua vita cosciente aveva scritto un romanzo, Iperione, che spiccava il volo, dalla più dolorosa attualità storica (lotta dei Greci contro la signoria dei Turchi), verso un'altissima visione metastorica, filosofica, mitica, politica ove si rifletteva, con l'immediatezza misteriosa della poesia, sulle nuove febbri europee e sul destino di quel popolo feroce, infantile e immaturo che erano i tedeschi. Aveva anche composto una tragedia, La morte di Empedocle, che - come alcune grandissime opere teatrali - avrebbe sempre stentato a trovare degna ospitalità sul palcoscenico. Era infatti un puro mito lirico, una confessione personale di sconcertante stranezza: il poeta che, incompreso dal proprio secolo, cerca trasfigurazione in una sorta di suicidio sacrificale.

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Ci aveva anche dato, Hoelderlin, traduzioni arcifedeli e insieme originalissime, urtanti e rivelatrici, di poeti greci come Sofocle e Pindaro. E in certi saggi ci aveva fatto vedere dentro il cuore segreto della civiltà ellenica, là dov' essa nasconde la sua natura asiatica e orgiastica, irrazionale e quasi demente: in ciò anticipando di vari decenni le "scoperte" di Nietzsche. Ma soprattutto, questo bellissimo giovane svevo destinato a essere pastore evangelico ma che poi era corso via per le strade della Germania e della Francia, e più ancora per le strade interne della rivoluzione francese e della filosofia idealistica tedesca (suoi compagni di scuola erano stati Hegel e Schelling), aveva esplorato in sé zone fino allora appena sfiorate da qualche sommo in un momento di grazia, come Goethe, che però lo avrebbe lasciato in disparte con un certo fastidio.

Di una delicatezza e vulnerabilità da sensitivo, Hoelderlin era arrivato a intuire i segreti del cosmo, i comuni legami delle filosofie e religioni più apparentemente lontane, il risveglio di popoli sino allora in letargo, i segnali criptici che la natura ci manda per alludere all'altro e all'oltre: e non solo auscultando il suo cuore e i suoi nervi, ma traendo lezioni dalle proprie letture, dai traumi di quell'età rivoluzionaria e innovatrice, da un amore dolcissimo e tremendo (e atrocemente casto) come quello per Susette Gontard, la giovane moglie di un uomo di finanza, dalle umiliazioni e incomprensioni che furono l'amaro pane quotidiano. Altri, più tetragoni di lui, avrebbero retto.
Lui non ce la fece, e sprofondò nella pazzia, passando una quarantina d' anni, più sorvegliato che rinchiuso, nella casa di un falegname: il quale, insieme con tutta la sua famiglia, si dimostrò degno di custodire un tal uomo. Molti vanno a visitarla, a Tubinga, la torre in cui Holderlin vegetò così a lungo, ogni tanto visitato da qualcuno ch' egli accoglieva - e forse neutralizzava - con le raggelanti cerimoniosità di cui tra noi era maestro Carlo Emilio Gadda. E poi, passeggiate, letture, ore contemplative alla finestra, nasali musiche sulla spinetta, conversazioni coi signori Zimmer.

E' in quest' atmosfera di acquario o di limbo che Hoelderlin, dimenticando man mano se stesso, riprende la penna e butta giù qualche poesia. Quante, in tutti quegli anni? Non si sa, ma pare ne sia stata distrutta una quantità enorme, considerata roba di cui vergognarsi, per uno ch' era stato Hoelderlin. Ma una cinquantina di questi componimenti lirici sono conservati. E ci presentano qualche difficoltà. Dicevo all'inizio che questo poeta ci aveva viziati. La sua lirica infatti - abbagliante, tagliente, soavissima, spietata, tutta ribaltamento, tutta classicità - è l'unica che possa competere con quella di Goethe, in tutta la letteratura germanica. Ma oltre che viziati Hőlderlin ci ha pure condizionati. Voglio dire che leggere una sua poesia composta dopo i primi anni dell'Ottocento, quando la sua mente si oscura fino a farlo definire pazzo, ci forza pur sempre a un confronto con le grandi opere precedenti: il che è ingeneroso e fuorviante. Perché non facciamo invece un altro esercizio?

Supponiamo che il primo Hoelderlin sia morto nel 1802 (quando morì anche la sua Susette). Immaginiamo che le liriche composte più tardi siano di un altro poeta, che col primo non abbia nulla in comune. Ebbene, che effetto ci farebbero? Che posto assegneremmo, nella poesia lirica tedesca, al loro autore? Forse sono io, adesso, a farmi condizionare in questa operazione di anticondizionamento: ma ritengo che il poeta di questi nuovi canti ci affascinerebbe, ci riempirebbe di sorpresa, ci farebbe emettere un alto voto. Ma, beninteso, non mettendolo mai a confronto speculare con l'altro Hoelderlin: il primo, che per molti rimane l'unico. Il secondo Hoelderlin, infatti, che qui con commovente regressione giovanile torna ai metri regolari e alle rime da lui scompaginati nella stagione della sua genialità, ha una dolcezza, un occhio limpido e innamorato, una "quiete dopo la tempesta" che non solo ci toccano come rivelazione psicologica, ma ci conquistano come attuazione stilistica e poetica. Per l'editore Bibliotheca (pagg. 62, lire 15.000, testo a fronte), Giampiero Moretti ha scelto e tradotto - quasi sempre con belle soluzioni, in alcuni casi lasciandomi un tantino perplesso - ventidue di queste liriche, col titolo Le stagioni, che è poi il tema dominante di questo poetare postremo e "senile".


Le stagioni, appunto.
Addio, storia contemporanea, con le tue bandiere, ghigliottine, costituzioni, cannonate, idee progressiste. Addio amore di Susette, paradiso infernale e inferno paradisiaco, fonte di conoscenze e di illuminazioni. Addio pensiero filosofico, scoperte critiche, lampi di profetismo religioso tra il crìstico e il pagano. Tutto questo ormai è cancellato. Resta la natura, la divina natura: ma solo col suo volto consolante; mai matrigna, sempre madre e sorella. Lo dicono le parole stesse, accarezzate come cuccioli mansi, evitando tutte quelle che hanno denti e artigli: le parole gioia, splendore, chiaro, mite, fiorire, brillare, fresco, ornato, festa, perfezione... Un idillio? L'Arcadia rinata? Un giardino d' infanzia? Sì e no. Più no che sì. Niente melassa, infatti, niente sentimentalismo ottimistico in queste mirabili orditure di parole-luce, di parole-armonia, di parole-felicità. E' come il canto di un angelo o di un beato, che evoca le bellezze e le soavità del mondo non perché non ne conosca i lati cupi e perfino orrendi, ma perché quel purgatorio ormai l'ha superato e vede solo la sua attuale beatitudine. Ci fosse solo questo Hoelderlin numero due, la Germania avrebbe comunque un grande poeta da amare e da studiare. Ma certo, Hoelderlin numero uno...

Un consiglio? Prendete la ristampa di tutte Le liriche di Hoelderlin, uscite nei Classici Adelphi nel 1977-78, a cura di Enzo Mandruzzato, e ora riproposte dalla stessa casa, in un solo volumone (pagg. 994, lire 29.000) in edizione economica. Vi ritroverete le stesse poesie ultime, diversamente tradotte (confrontarle può essere un esercizio dilettevole e istruttivo). Ma vi potrete leggere anche le composizioni poetiche della giovinezza, cioè precedenti le ombre della pazzia. (Ma fu poi vera pazzia, o una simulazione per sottrarsi a un mondo ormai insoffribile? C' è qualcuno che oggi lo sostiene, come per Robert Walser). Si percorrerà così l'arco intero della creatività del poeta: un vero arc-en-ciel della cultura mondiale, nel segno della poesia, disegnato negli anni in cui il vecchio mondo impallidiva e si cancellava, mentre quello nuovo - tremendo e affascinante - cominciava a prendere possesso del nostro pianeta. Fonte


 
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