“Quando sarai propenso a…” - William Shakespeare, Parafrasi e commento

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view post Posted on 11/7/2014, 14:22     +2   +1   -1
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Sono così tanti a zoppicare che chi cammina dritto, pare in difetto!

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“Quando sarai propenso a…”

William Shakespeare


Sonnets, n. 88


When thou shalt be dispos’d to set me light,
and place my merit in the eye of scorn,
upon thy side, against myself I’ll fight,
and prove thee virtuous, though thou art forsworn:

with mine own weakness being best acquainted,
upon thy part I can set down a story
of faults conceal’d, wherein I am attainted:
that thou in losing me, shalt win much glory:

and I by this will be a gainer too,
for bending all my loving thoughts on thee,
the injuries that to myself I do,
doing the vantage, double vantage me.

Such is my love, to thee I so belong,
that for thy right, myself will bear all wrong.

1595-1605



Libri



Quando sarai propenso a svalutarmi
e metterai i miei meriti alla berlina,
combatterò dalla tua parte contro di me
e ti mostrerò giusto, benché tu sia spergiuro.

Sono così esperto della mia indegnità
che a tuo favore posso imbastire una storia
di colpe nascoste, di cui mi sarei macchiato,
sicché mollandomi acquisterai più gloria:

così facendo sarò anch’io vincitore,
perché i pensieri d’amore tanto ho inchinato a te
che le ferite che io provoco a me stesso
avvantaggiandoti, mi danno un doppio vantaggio.

Tale è il mio amore, ti appartengo al punto
che per darti ragione mi assumerò ogni torto.



Libri




Shakespeare in love. Una grande delicatezza di cuore e di pensiero: l’innamorato sospetta che in un giorno non lontano colui che ama lo scaricherà, imbarazzato dalle chiacchiere del mondo - e che per rifarsi l’onore dovrà parlar male di lui, mettendolo in ridicolo. Ebbene, gli dice, sappi che in quel momento io sarò dalla tua parte; anzi, posso fare di più: siccome sono bravino a raccontare storie e conosco le mie debolezze, posso inventare su di me qualche calunnia che renda il tuo distacco inevitabile e ti faccia brillare di purezza. Mi darò addosso perché tu ne esca pulito, tutti i torti su di me per dimostrare alla gente che hai avuto ragione; che importa se soffrirò e se tu sarai venuto meno ai nostri giuramenti? È la stessa delicatezza, venata di masochismo, che in un altro sonetto lo spinge a dire al ragazzo «quando morirò non piangermi, non pronunciare nemmeno il mio nome, non dare adito ai pettegolezzi dei benpensanti; anzi, preferisco non essere più nei tuoi pensieri se il ricordo di me deve addolorarti».

Finora ho parlato al maschile, anche se a rigor di termini il discorso potrebbe esser rivolto a una donna
; e in effetti anche alla “dark lady” degli ultimi sonetti rinfaccia «come puoi dire che non ti amo, se contro me stesso prendo le tue parti?». Sull’omosessualità o bisessualità di Shakespeare si è discusso fin troppo, la scarsità di notizie non aiuta; spesso con strane negazioni, del tipo che l’amicizia amorosa per lo “sweet boy” era solo platonica - come se omosessualità e platonismo non fossero legati da sempre. Il suo neoplatonismo nero, quell’ossessione confinante con l’idolatria devono esser sembrate assai imbarazzanti ai contemporanei, se l’editore del 1640 cercò di purgare i sonetti volgendo al femminile tutti i pronomi maschili. Eppure il sonetto 20 è chiaro: il “master- mistress” della sua passione è meglio di una donna, peccato che poi la Natura abbia aggiunto al suo corpo un ammennicolo che a lui, Shakespeare, non serve - quindi le donne si godano quello, a lui l’amore e alle donne “la fruizione”.

Ma più che i particolari anatomici, mi pare decisiva la solitudine sociale a cui l’omosessualità è condannata; nel sonetto 49, che ha molti punti di contatto col nostro, dice «per lasciare il mio povero essere hai la forza delle leggi/ e all’amore non posso allegare nessuna ragione». Lo ha capito benissimo Pasolini, che proprio i sonetti shakespeariani deciderà di imitare quando nel 1971 si troverà in Inghilterra e dovrà affrontare davvero un abbandono; «io son senza», scriverà, «alcun diritto nel consorzio civile/ di pretendere che non mi diate dolore».

Il guaio di Shakespeare è che è troppo bravo: noi che abbiamo in testa le parole della sua Giulietta, e del suo Jago e del suo Lear, sappiamo quanto sia diabolicamente camaleontico e come sappia rendere credibili i suoi “io” non autobiografici. Anche nei sonetti naturalmente il suo “io” è un personaggio, e la bravura è la stessa. Genialmente reinterpretando la forma metrica, ha capito che può essere il contenitore perfetto per la malafede amorosa; emotività e argomentazione si rinforzano a vicenda, i luoghi comuni del concettismo cinquecentesco diventano carne e sangue. Qui per esempio il concetto, stra-abusato nel petrarchismo europeo, del «poiché siamo una cosa sola il tuo destino è il mio» risulta imbevuto di un’ironia straziante: il “double-vantage” è, pare, metafora tennistica, quel che bisogna conseguire quando il game finisce alla pari (o forse legata all’ambito della scherma, vedi “fight”). In lui le parole diventano subito scene concrete: questo faccia a faccia tra amato e amante (“io” e “tu”, nelle varie forme pronominali e possessive, ripetuti 25 volte in 14 versi) ha l’aria di un’arringa, o di una requisitoria giudiziaria - termini come “prove”, “upon thy part”, “faults”, “right” appartengono al linguaggio forense - “forsworn” o “attainted” piegano piuttosto verso il complotto.

Se è il giudizio del mondo che ti fa paura, io leggo la nostra relazione come un processo o un alto tradimento.
Ma “scorn” ci porta invece verso l’evangelico e il biblico, è la derisione a cui vengono sottoposti Cristo e Giobbe; “to bend” i pensieri d’amore è quasi costringerli a genuflettersi - chi si umilia sa di valere, religiosamente si sacrifica ma in fondo si sente maggiore dell’amato: “to lose” certo qui sta per “liberarsi, sbarazzarsi di”, ma conserva pur sempre il sottosenso di “perdere” - vinceremo entrambi, ma tu mi perdi. La struttura sintattica e quella logica inglobano l’inconscio in un’architettura precisa: il fitto intreccio di frasi causali, consecutive e concessive si dispone senza sforzo nel movimento in tre tempi (coincidente con le tre quartine) che potremmo schematizzare in “quando-anzi-eppure”, per chiudersi con l’”infatti” del distico finale.

Sentimenti delicati e contorti espressi con muscolosa eloquenza
: forse i suoi sonetti non sono un vero canzoniere (come invece era di moda all’epoca, da Sidney a Drayton a Spenser), forse la loro disposizione non è quella voluta dall’autore — ma le peripezie di quel doppio amore, per un uomo e per una donna con inganni incrociati, sono degne della tragedia (o della commedia) che Shakespeare non ha mai scritto.
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Ascolta la poesia






Edited by Milea - 4/7/2021, 22:11
 
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view post Posted on 11/7/2014, 14:28     +2   +1   -1
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Shakespeare
Il mistero infinito del Bardo



William-Shakespeare


È o non è William Shakespeare di Stratford l' autore di quel corpus di opere che va sotto tale nome? Shakespeare è un vero nome, o un nome finto, uno pseudonimo? Della contestata attribuzione si occupa lo studioso James Shapiro in Contested Will (Faber), libro che potrebbe mettere fine all' ansia, perché chi legga sino alla fine non potrà avere dubbi: Shakespeare è Shakespeare, non è Francis Bacon, né Edward de Vere, conte di Oxford, né Christopher Marlowe, né la regina Elisabetta... Perché sì è detto di tutto, e alle ipotesi più stravaganti sono abboccati non solo dei creduloni - un nome per tutti, Sigmund Freud. Ma si aggiunga alla lista Mark Twain, Henry James...

Con pazienza e senza disprezzo Shapiro ci accompagna nelle contorte peregrinazioni alla ricerca del "vero" Shakespeare, che nasce da una diffidenza, da un pregiudizio: nella sostanza, non si riesce a credere che un provinciale, un uomo qualunque possa essere stato capace di tanto. Troppo sembra conoscere l' autore di Amleto, di Lear, di Otello, troppo profondo è il suo pensiero, troppo vasto il suo intelletto, troppo raffinata la sua lingua: non può essere un uomo qualunque, di una qualunque città di provincia. Il quale, in più, alla fine abbandona baracca e burattini e vi torna, e compra case, stemmi, e pensa solo ai soldi, per soldi litiga, come se l' unica cosa che conti siano i possessi materiali. Vi pare una mentalità da grande scrittore, questa? (si può osservare che non sarebbe certo il primo Shakespeare a scrivere per soldi; anzi da che mondo è mondo pare che il denaro sia la grande molla dell' ispirazione.) Ma per certi idealisti che avevano assunto Shakespeare a Bibbia laica, non poteva essere così.

Delia Bacon, un' americana stravagante, forse anche perché si chiamava come si chiamava, decise che l' autore del corpus shakespeariano era Francis Bacon e venne in Inghilterra a cercare prove dentro la tomba del poeta, ed era pronta a scavare, se non le fosse stato impedito, convinta com' era che nella bara avrebbe trovato le prove.


CasaBardo


Un altro, che si chiamava Looney, nomen omen anche in questo caso (perché loony sfuma nell' idea di lunatico, eccentrico, fuori di testa) invece è convinto che sia il conte di Oxford, e non importa che il conte muoia ben prima che Shakespeare smetta di scrivere. Altri ancora ricorrono a sedute spiritiche, per farsi dire la verità proprio da lui, da Shakespeare. All' inizio della quête, che Shapiro descrive con brio e pazienza, c' è un peccato originale.

Risale al 1790, quando Edmond Malone lavora a una nuova edizione dei drammi shakespeariani, che vuole in ordine cronologico, e tale ordine crede di poter costruire in base ai rimandi personali, biografici, che cerca nei testi, quasi che si potesse scrivere solo di cose che si conoscono perché le abbiamo vissute. È il grande abbaglio che acceca Freud (secondo il quale Shakespeare non poteva scrivere l' Amleto se non dopo la morte del padre), e prima ancora giustifica chi dirà: come faceva Shakespeare a sapere tutto dell' arte della falconeria, se non era un aristocratico?

Come faceva a sapere tutto di una nave, se non aveva mai navigato? Il punto è che con l' epoca moderna, si cominciò a dubitare di tutto: ad esempio, chi aveva scritto l' Iliade? Chi l' Odissea? Lo stesso autore? Impossibile, decretò Samuel Butler: si capisce subito che l' Odissea l' ha scritta una donna, che sa come si tendono i panni al sole, si piegano le lenzuola e come si tesse al telaio. E difatti, è una principessa siciliana, di Trapani, l' autrice. Mentre è certamente un uomo che sa tutto della guerra ad aver scritto l' Iliade. E se per quello chi aveva scritto la Bibbia? Era davvero credibile che fossero dei pescatori ignoranti? Non erano analfabeti i discepoli? Qui il libro si fa non solo interessante, ma cogente, dimostrando come il concetto di autorità e autorialità e identità e proprietà si stringano in nodo intrinseco e problematico, tanto da produrre nuove interpretazioni, succubi tutte dello Zeitgeist; dalle quali si evince che non la verità, ma il mito domina e guida la vicenda. E il mito trionfa proprio allontanando dalla cosa vera, evocando false ombre, sembianti.

Basterebbe leggere, Shakespeareè lì; se non gli si vuol credere, se non si vuol credere alle testimonianze di chi l' ha incontrato, ai contemporanei che della sua esitenza testimoniano, è senz' altro perché un certo fanatismo occulteggiante è la strada che da che mondo è mondo prende la fantasia. Mentre per conoscere Shakespeare ci vuole intelligenza e immaginazione. Fonte


 
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