| "Sogno" Giovanni Pascoli
da "Myricae"
Per un attimo fui nel mio villaggio, nella mia casa. Nulla era mutato. Stanco tornavo, come da un vïaggio; stanco, al mio padre, ai morti, ero tornato. Sentivo una gran gioia, una gran pena; una dolcezza ed un'angoscia muta. "Mamma ?" "E' là che ti scalda un po' di cena". Povera mamma ! e lei, non l'ho veduta.
1892
L'ultima consolazione di Pascoli. Nessuno in Italia prima di Pascoli era riuscito a intonare poesia mantenendo così basso il registro linguistico; lo stile si solleva dalla prosa di tutti i giorni grazie a pochissimi artifici ben collaudati. In primo luogo le ripetizioni, ben sei in otto versi (nel... nella; stanco... stanco; al... ai; tornavo... tornato; gran... gran; mamma... mamma); poi ingorghi fonetici e false parentele (nella-nulla; mutato- muta), bipartizioni bilanciate come ai vv. 5 e 6, e una classica dieresi al v. 3. Gli endecasillabi si distendono senza sforzo in uno schema metrico di assoluta semplicità, due quartine a rima alternata. Pascoli sogna di tornare per un attimo nella vecchia casa di San Mauro, dove ha lasciato i suoi morti: il padre, la madre, tre sorelle e due fratelli. È stanco per il viaggio della vita, sa di tornare in una casa di fantasmi; ma l'ultima consolazione, rivedere la madre almeno in sogno (stando in collegio a Urbino non aveva potuto salutarla nella bara), gli è negata dall'amore e dalla sollecitudine materna - è "di là", intenta ai doveri di accudimento. Un'ellissi che strappa le lacrime per la nudità della constatazione ("e lei, non l'ho veduta"); il macchinario onirico è bloccato da un'inesplicabile quanto indiscutibile censura inconscia: non sei ancora pronto, vedere mamma ti è vietato.
Nello stesso 1892 Pascoli scrive Gladiatores, un lungo poema in latino di quelli che mandava ai concorsi di Amsterdam: vi si parla di tre gladiatori, seguaci di Spartaco, alla vigilia della battaglia decisiva - uno di loro, il più vecchio, durante la notte sogna la madre ("miseram matrem", povera mamma); un altro sogna anch'egli di tornare al proprio villaggio ma le forze gli mancano davanti al cortile di casa sua; grida e nessuno lo sente; la madre, finiti i lavori domestici, sta per uscire in cortile, già la porta gira sui cardini... ma suona la tromba dell'adunata e il gladiatore si sveglia. "Povera mamma! " sta anche in un abbozzo di prefazione alla terza edizione di Myricae, pure del 1892; lì Pascoli ricostruisce la vicenda del padre, freddato da una fucilata mentre tornava a casa col calesse - l'esclamazione si colloca subito prima dello sparo. Che relazione può esserci tra l'identificazione pascoliana con un antico gladiatore e la sua tragica vicenda familiare? Cesare Garboli ci ha spiegato che gli anni decisivi per questo nesso sono stati quelli tra il 1889 e il 1893, che lui definisce di "crisi del nido".
Nel 1887 Pascoli era stato trasferito dal liceo di Massa a quello di Livorno e lì aveva chiamato a vivere le sorelle Ida e Maria; nel 1889 si era infatuato di una ragazza e per un istante aveva pensato di dichiararsi - forse autorizzata dall'esempio, anche Ida aveva mostrato interesse per un giovanotto. Pascoli, sconvolto perché inconsciamente innamorato di Ida, aveva subito rinunciato al pallido progetto di fidanzamento e brigato perché anche Ida lasciasse il giovanotto. Il "nido" si era così ricostituito ma all'insegna della malinconia e della rimozione. È in quegli anni di auto-imposta castità che Pascoli elabora il mito della propria tragedia familiare: è allora che fissa l'immagine eroica di se stesso come capofamiglia espiatorio, gladiatore deciso a sacrificarsi lavorando, rinunciando all'amore per portare sulle spalle il peso di tutti (compreso un fratello in perenne difficoltà economica). Quando Ida, insofferente della tetra atmosfera domestica, si sposerà e andrà a vivere altrove, Pascoli non presenzierà al matrimonio ma continuerà a versarle un assegno mensile.
Consumata la tragedia, il misterioso interdetto di comunicazione svanirà: nell'Ultimo sogno ritrova la madre ancora silenziosa al capezzale di se stesso malato e sente nel brusio dei cipressi il rumore di un fiume "che cerca il mare inesistente". È un sogno di guarigione, ma la guarigione coincide con la morte. Nelle poesie del Ritorno a San Mauro ( del 1897) Pascoli finalmente riuscirà a parlare con la madre morta - non solo a vederla ma a dirle quel che prima rimuoveva: "Io non son potuto crescere". Vedere la madre significherà immolarsi senza possibile ritorno, riempiendola di mille pazze promesse; e lei potrà rispondergli in nome di un desolato principio di realtà: niente è più possibile ormai, nella casa ci abita altra gente, io sto al cancello - e delle bimbe sei tu che devi dirmi qualcosa, io non ne so più niente.
A stretto rigor di termini quando qui, nel nostro testo, dice di esser tornato a suo padre, e ai morti, sembra escludere proprio le due sorelle ancora vive; ma tutto è sospeso e impreciso come accade nei sogni (non "da un viaggio" ma "come da un viaggio"). La descrizione è senza sbavature e nello stesso tempo impregnata di un'emozione arcana, dolcezza e angoscia si mischiano senza trovare sbocco. Non è solo il sentimento contrastato di chi rivede come fantasmi le persone che ha amato, è lo smarrimento di chi si è imprigionato da solo ("ci siamo accorti tutti e tre", scrive in una lettera del 1892 a Severino Ferrari, "che abbiamo sbagliato nella somma la vita, e non si rinasce"). Non è un sogno ad occhi aperti tipo il Sogno d'estate di Carducci, è proprio l'immersione in una zona buia di cui non si è padroni, già pronta per Freud. Fonte
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Edited by Milea - 4/7/2021, 22:19
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