"Sogno" - Giovanni Pascoli, Parafrasi e commento

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view post Posted on 18/4/2014, 15:36     +7   +1   -1
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"Sogno"
Giovanni Pascoli


da "Myricae"


Per un attimo fui nel mio villaggio,
nella mia casa. Nulla era mutato.
Stanco tornavo, come da un vïaggio;
stanco, al mio padre, ai morti, ero tornato.
Sentivo una gran gioia, una gran pena;
una dolcezza ed un'angoscia muta.
"Mamma ?" "E' là che ti scalda un po' di cena".
Povera mamma ! e lei, non l'ho veduta.

1892



Libri



L'ultima consolazione di Pascoli. Nessuno in Italia prima di Pascoli era riuscito a intonare poesia mantenendo così basso il registro linguistico; lo stile si solleva dalla prosa di tutti i giorni grazie a pochissimi artifici ben collaudati. In primo luogo le ripetizioni, ben sei in otto versi (nel... nella; stanco... stanco; al... ai; tornavo... tornato; gran... gran; mamma... mamma); poi ingorghi fonetici e false parentele (nella-nulla; mutato- muta), bipartizioni bilanciate come ai vv. 5 e 6, e una classica dieresi al v. 3. Gli endecasillabi si distendono senza sforzo in uno schema metrico di assoluta semplicità, due quartine a rima alternata. Pascoli sogna di tornare per un attimo nella vecchia casa di San Mauro, dove ha lasciato i suoi morti: il padre, la madre, tre sorelle e due fratelli. È stanco per il viaggio della vita, sa di tornare in una casa di fantasmi; ma l'ultima consolazione, rivedere la madre almeno in sogno (stando in collegio a Urbino non aveva potuto salutarla nella bara), gli è negata dall'amore e dalla sollecitudine materna - è "di là", intenta ai doveri di accudimento. Un'ellissi che strappa le lacrime per la nudità della constatazione ("e lei, non l'ho veduta"); il macchinario onirico è bloccato da un'inesplicabile quanto indiscutibile censura inconscia: non sei ancora pronto, vedere mamma ti è vietato.

Nello stesso 1892 Pascoli scrive Gladiatores, un lungo poema in latino di quelli che mandava ai concorsi di Amsterdam: vi si parla di tre gladiatori, seguaci di Spartaco, alla vigilia della battaglia decisiva - uno di loro, il più vecchio, durante la notte sogna la madre ("miseram matrem", povera mamma); un altro sogna anch'egli di tornare al proprio villaggio ma le forze gli mancano davanti al cortile di casa sua; grida e nessuno lo sente; la madre, finiti i lavori domestici, sta per uscire in cortile, già la porta gira sui cardini... ma suona la tromba dell'adunata e il gladiatore si sveglia. "Povera mamma! " sta anche in un abbozzo di prefazione alla terza edizione di Myricae, pure del 1892; lì Pascoli ricostruisce la vicenda del padre, freddato da una fucilata mentre tornava a casa col calesse - l'esclamazione si colloca subito prima dello sparo. Che relazione può esserci tra l'identificazione pascoliana con un antico gladiatore e la sua tragica vicenda familiare? Cesare Garboli ci ha spiegato che gli anni decisivi per questo nesso sono stati quelli tra il 1889 e il 1893, che lui definisce di "crisi del nido".

Nel 1887 Pascoli era stato trasferito dal liceo di Massa a quello di Livorno e lì aveva chiamato a vivere le sorelle Ida e Maria; nel 1889 si era infatuato di una ragazza e per un istante aveva pensato di dichiararsi - forse autorizzata dall'esempio, anche Ida aveva mostrato interesse per un giovanotto. Pascoli, sconvolto perché inconsciamente innamorato di Ida, aveva subito rinunciato al pallido progetto di fidanzamento e brigato perché anche Ida lasciasse il giovanotto. Il "nido" si era così ricostituito ma all'insegna della malinconia e della rimozione. È in quegli anni di auto-imposta castità che Pascoli elabora il mito della propria tragedia familiare: è allora che fissa l'immagine eroica di se stesso come capofamiglia espiatorio, gladiatore deciso a sacrificarsi lavorando, rinunciando all'amore per portare sulle spalle il peso di tutti (compreso un fratello in perenne difficoltà economica). Quando Ida, insofferente della tetra atmosfera domestica, si sposerà e andrà a vivere altrove, Pascoli non presenzierà al matrimonio ma continuerà a versarle un assegno mensile.

Consumata la tragedia, il misterioso interdetto di comunicazione svanirà: nell'Ultimo sogno ritrova la madre ancora silenziosa al capezzale di se stesso malato e sente nel brusio dei cipressi il rumore di un fiume "che cerca il mare inesistente". È un sogno di guarigione, ma la guarigione coincide con la morte. Nelle poesie del Ritorno a San Mauro ( del 1897) Pascoli finalmente riuscirà a parlare con la madre morta - non solo a vederla ma a dirle quel che prima rimuoveva: "Io non son potuto crescere". Vedere la madre significherà immolarsi senza possibile ritorno, riempiendola di mille pazze promesse; e lei potrà rispondergli in nome di un desolato principio di realtà: niente è più possibile ormai, nella casa ci abita altra gente, io sto al cancello - e delle bimbe sei tu che devi dirmi qualcosa, io non ne so più niente.

A stretto rigor di termini quando qui, nel nostro testo, dice di esser tornato a suo padre, e ai morti, sembra escludere proprio le due sorelle ancora vive; ma tutto è sospeso e impreciso come accade nei sogni (non "da un viaggio" ma "come da un viaggio"). La descrizione è senza sbavature e nello stesso tempo impregnata di un'emozione arcana, dolcezza e angoscia si mischiano senza trovare sbocco. Non è solo il sentimento contrastato di chi rivede come fantasmi le persone che ha amato, è lo smarrimento di chi si è imprigionato da solo ("ci siamo accorti tutti e tre", scrive in una lettera del 1892 a Severino Ferrari, "che abbiamo sbagliato nella somma la vita, e non si rinasce"). Non è un sogno ad occhi aperti tipo il Sogno d'estate di Carducci, è proprio l'immersione in una zona buia di cui non si è padroni, già pronta per Freud.
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Edited by Milea - 4/7/2021, 22:19
 
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view post Posted on 18/4/2014, 15:41     +2   +1   -1
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Destini incrociati


pascoli_ape


Parole rubate all'intimità come a un sussurro di confessionale e per questo più autentiche. Le lettere di Giosuè Carducci e Giovanni Pascoli (...) sono documenti rivelatori del carattere dei due grandi letterati che furono docenti dell'Alma Mater, proprio perché sottratte al privato e a una scrittura prossima alla confidenza. C' è il Carducci irruente, indispettito dalla burocrazia, ferito dalla scomparsa della "musa" Carolina Cristofori Piva, la "Lidia" delle Odi barbare, che reagisce da par suo scrivendo all'ex allieva Giulia Cavallari, prima donna italiana a laurearsi in Lettere. E c' è il Pascoli timido, titubante, un po' tremebondo che si accinge a prendere il posto del grande toscano sulla cattedra bolognese in punta di piedi, quasi pronto a tirare un sospiro di sollievo se l'incarico fosse revocato.

Si potrebbe dire, leggendo, che "in lettera veritas" tanta è la rivelazione involontaria di sé. Carducci, come detto, in una delle quattro missive datata 10 giugno 1881, risponde alla Cavallari che gli chiedeva di scrivere versi dedicati alle donne memore dell'incontro tra il poeta e la real famiglia Savoia tre anni prima con tanto di folgorazione per Margherita a cui dedicò l'Ode alla regina d' Italia. Ma il sulfureo professore non la prende benissimo: Dove ho io una poesia che possa stare in un almanacco di dame? sbotta. E subito dopo, con la proverbiale schiettezza, aggiunge il lamento del docente oberato: Ci sono molti che credono ch' io stia tutto il giorno a cogliere il dolce miele dai fiori del pensiero (...) E invece sono giustamente (...) condannato ai lavori forzati dell'erudizione, della professione, della burocrazia. E via enumerando le incombenze: un articolo di rivista, le tesi, gli esami, un viaggio di lavoro a Napoli...
Fatica che traspare tra le righe. Come per il Pascoli, il quale, il 25 giugno 1905, già certo che succederà a Carducci, scrive: Io non so se andrò a Bologna: designazione non è nomina; e la nomina dev' essere fatta dal Ministero previo assentimento del Consiglio superiore. E subito dopo si sente in dovere di garantire tutta la varia scolaresca di Giosuè Carducci quasi temesse una crisi di rigetto. Sanguigno, franco, grande amatore il poeta di Valdicastello, introverso, schivo, timido fino a rasentare il patologico il romagnolo. Due caratteri in altrettante lettere, che sembrano prelevate dall'ombra di un cassetto di comò. Fonte

 
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