| Nicolas de Stael angelo disperato
Saint-Paul de Vence - "Per tutta la vita ho avuto bisogno di pensare alla pittura, di vedere quadri, di fare della pittura per aiutarmi a vivere, di liberarmi da tutte le impressioni, tutte le sensazioni, tutte le inquietudini alle quali non ho mai trovato altro scampo che la pittura". Forse solo qualche artista della sua generazione, che è quella nata entro il secondo decennio del secolo, avrebbe potuto pronunciare con altrettanta sincerità queste parole di Nicolas de Stael; tre righe da lui messe a introduzione della sua prima mostra americana nel febbraio del 1953. Ma nessuno delle generazioni successive.
Quel grande gesto di tenersi dentro la pittura in un modo così totale e così estremo, fino a morirne, è stato compiuto per l' ultima volta sulla metà del secolo; entro una generazione che aveva ancora potuto stabilire un rapporto di identità tra l' arte e la vita, realizzando probabilmente l' episodio finale di una condizione romantica. E non solo romantica; qualcosa di ancor più profondo e ancor più tragico; come il cuore segreto, appassionato e dolorante, posto proprio al suo centro, della modernità nel nostro secolo.
Per entrare nel concreto, tento alcuni nomi: Pollock, Wols, Gorky, Rothko, de Stael, Morlotti, Bacon, Dylan Thomas. Ma di tutti i pittori nominati, de Stael è stato il più perduto entro l' atto continuo, grandioso e affaticante del dipingere. Soprattutto in quel decennio, tra il 1945 e il 1955, che è l' unico della sua vera pittura e nel quale le sue forze, i suoi pensieri, le sue folgorazioni andarono sviluppandosi con un crescendo che lo portò negli ultimi tre anni, 1952, ' 53, ' 54 e primi mesi del ' 55, a dipingere più di settecento opere, finché giunse al momento in cui tutto era stato detto e tutto era esaurito, e rimaneva solo la morte. Aveva scritto: "Lavoro incessantemente e credo che la fiamma aumenti ogni giorno e spero di morire prima che si abbassi", nel marzo del 1955 la fiamma si era abbassata e poi si spense.
L' atto con cui allora de Stael si uccise fu un compimento fatale; mi azzardo a dire un richiamo, pensando alla lettera più sublime che fu mai scritta, di una sola parola, indirizzata da Emily Dickinson alle cugine, nel maggio del 1886, pochi giorni prima della morte: "Richiamata". Anche se nella Dickinson il significato è religioso e de Stael religioso non era. Poi raggiunse il successo Ma era probabilmente un angelo che doveva passare un periodo stabilito sulla terra; e quel 16 marzo il periodo era giunto alla fine. Un angelo disperato. Che fosse un viandante, che il suo passaggio fosse provvisorio lo dicono la sua origine russa, la sua educazione belga, la sua naturalizzazione francese, il suo ininterrotto viaggiare, il suo essere senza radici, la sua fame a Parigi, la sua comparsa folgorante nel Midi come una cometa, il sacco da montagna che appare in primo piano quale protagonista di una sua fotografia nello studio. Che fosse un angelo lo possono testimoniare, e alcuni l' hanno fatto, tutti coloro che lo conobbero bene; lo dice, a penetrarvi fino in fondo, la sua pittura, e lo dicono, a leggerle con animo puro, le sue lettere.
Era figlio del generale barone Vladimir de Stael Holstein, nacque a Pietroburgo; a due anni è nominato paggio alla corte Imperiale; a tre, nel 1917, abbandona la Russia con i genitori che muoiono entrambi poco dopo; e comincia fin da allora la sua vita errabonda: genitori adottivi, anche se affettuosi, residenti in Belgio, viaggi in Africa, in Spagna, e poi l' amore per la Francia, il riconoscersi in quella cultura, in quella intelligenza, in quella animazione, in quella luce. Era traboccante di entusiasmi, impetuoso, tenero, con un fondo sottile di mestizia per una costante nostalgia di assoluto; cosciente della sua instabilità, del suo essere di passaggio; a ventitré anni scriveva: "so che la mia vita sarà un viaggio continuo su un incerto mare, è una ragione per costruirmi un solido battello". Era umile e orgoglioso; amava i poveri e i semplici; in Spagna fu affascinato dai miserabili che chiedevano l' elemosina con superba dignità; e divenne amico di un contadino che lasciava consumare la sigaretta tra le dita perché "fumava il Buon Dio".
Era potente e fragile; come la sua pittura di cui disse: "So cos' è la mia pittura, sotto le sue apparenze, la sua violenza, i suoi perpetui giochi di forza è una cosa fragile nel senso del buono, del sublime, è fragile come l' amore". Sopportò spesso una grande miseria, molta fame, molto freddo, la vita spoglia e desolata; e anche quando, raggiunto dal successo, Paul Rosenberg, che era stato il mercante di Picasso, gli assicurò da New York moltissimi milioni, ne rimase indifferente, e continuò la sua vita sempre più chiusa nella solitudine, soltanto con più colori, con molte tele, con un grande studio, dichiarando però che sarebbe tornato "a crepare di fame" se le necessità della sua pittura, libera da ogni fine, lo avessero richiesto. Non aveva alcun interesse per i soldi, per la gloria, per i premi, per le mostre, il successo gli era solo di ostacolo; non leggeva le riviste d' arte né i critici; leggeva solamente i poeti. Aveva una sensibilità fortissima per la musica, che forse fu l' unica cosa ad influenzare a fondo la sua pittura.
Era ricco d' amore e di generosità e si legò di un' amicizia abbandonata e tersa con alcuni uomini non comuni: Jacques Dubourg, Georges Braque, Georges Duthuit, Denys Sutton, e soprattutto il poeta René Char. Due centimetri di Cézanne Di statura quasi gigantesca, aveva mani da operaio, "mani callose a forza di sensibilità" come di lui disse di Hercules Seghers. Una voce profonda, da basso, "annuncia la morte di Boris Godunov chiedendo dei ravanelli" (Duthuit) "segno particolare; un' irresistibile charme" (ancora Duthuit). E' stato uno dei grandi, dei più grandi pittori europei del secolo; ma se ha provocato in alcuni, specie letterati, entusiasmi e gioie, in molti invece incomprensione; e ancora adesso la sua pittura non sembra universalmente capita e valutata per quello che contiene e vale. L' incomprensione massima è stata di un uomo assai intelligente, Roland Barthes, che disse una volta: "Tutto de Stael è in due centimetri quadrati di Cézanne". Non vedeva, il critico sottile, né la pittura, né lo spirito, né la profondità, né la grandezza. A un altro critico, dei maggiori e favorevole questo, che si accingeva a scrivere un saggio su di lui, de Stael dovette scrivere innumerevoli lettere per ottenere un testo abbastanza vicino alla sua pittura, "sans bétises".
Conviene allora per conoscere tutta l' estensione, la luce e l' essere tanto pittura di questa pittura, recarsi a Saint-Paul de Vence, dove nelle stanze della Fondazione Maeght, che i pini marittimi proteggono dalla troppa luce dell' estate mediterranea, si può vedere una stupenda mostra di Nicolas de Stael. "Rétrospective de l' oeuvre peint", quasi cento quadri di incomparabile bellezza, ed alcuni di grandissima dimensione, capolavori che mai Cézanne, e nessun altro, poteva contenere, né prevedere. Prendiamo ad esempio Bouteilles dans l' atelier (200x350 cm) del 1953; de Stael disse indifferentemente, in due occasioni diverse, che il soggetto non esiste o che tutto è soggetto; e queste possono sembrare bottiglie nascenti dal nulla alla vita, o impronte di bottiglie, o fantasmi di bottiglie che vanno svanendo, ma resta che il quadro per la composizione costruita e libera, per il colore delicato e folgorante, per il soggetto senza soggetto, l' invenzione grandiosa dello spazio, il fluire e fissarsi e balenare della luce, la difficile semplicità, e l' armonia musicale dell' insieme, è un' enorme invenzione, splendente, poetica e dolorosa; e risponde, o manda un richiamo, senza saperlo, con selvaggia delicatezza, con un respiro possente, con un intrico tutto spirituale, agli intrichi di natura e di inconscio, alle cattedrali formicolanti, alla cosmicità terrestre, che Pollock andava tessendo su tele altrettanto grandi dall' altra parte dell' Atlantico.
La sua pittura è in ogni punto un concentrato di intensità; quella vertigine e quella forza ossessiva che lo sostenevano e lo spingevano nella vita, le trasfonde nell' opera, dove attraverso la calma della forma raggiunta diventano intensità inesauribile. Scriveva a Dubourg: "Voi sapete questa storia: due cose importano, l' intensità dell' urto e l' intensità della meditazione". Per questo i suoi intarsi di blocchi, di piani, di superfici, sono molto diversi e molto superiori a quelli di Poliakoff e di ogni altro. Difficile dire da dove venga la sua pittura. Non da Cézanne; forse in parte da Courbet passando per Bonnard. Ma è ancora lui a riconoscere: "I buoni quadri sono quelli di cui si può dire che non si sa dove vanno né da dove vengono". A chi gli chiedeva se fossero impressionisti rispondeva di non sapere che cosa ciò significasse. Né aveva senso per lui il dibattito o contrapposizione, così vivace e dilagante, in quegli anni Cinquanta, tra astratto e figurativo.
La sua pittura era al di là sia di un termine che dell' altro. Alcuni grandi quadri visibili a Vence come Le Parc de Sceaaux, L' Orchestre, Les grands footballeurs, che dovrebbero stare, secondo la comodità delle partizioni critiche, nel periodo "figurativo", sono opere in cui la pittura tocca culmini di tensione e di bellezza ma senza possibilità, e necessità, di immagine immediatamente riconoscibile, né sono lontani dalla realtà e dalla verità. L' Orchestre è come un palpito d' ali, un soffio immenso, una luminosa vela, o anche un muro celestiale, cui il digradare e il trascorrere innumerevole dei grigi, tutti diversi di tono e di valore, conferisce distesa armonia. I grigi di de Stael, dalla madreperla alla seta, dalla pelle di topo all' argento, dalla cenere alla nuvola, insieme uniti non danno grigiore ma splendore. Egli avrebbe potuto esclamare come Vuillard: "Ah, les beaux gris!".
Tutto dipendeva dalla luce; per de Stael era l' elemento essenziale, e così nuovo ogni volta, che gli capitò di andare a Parigi in aereo dal mattino alla sera per controllare la tenuta alla luce variabile del Nord di quadri dipinti al fulgore abbacinante della Costa. Si possono vedere a Vence anche un gruppo insolitamente ricco di paesaggi siciliani e cinque interni di Atelier dell' ultimo anno. Nei primi, quasi tutti intitolati Agrigente, la materia è ridotta alla sua essenza come per una combustione operata dalla luce, i colori raggiungono sotto quella pioggia luminosa la loro pienezza; la luce li modifica, li esalta e li fissa; i cieli si fanno rossi, neri, verdi, le strade gialle, le case viola. Negli Ateliers la luce diventa avvolgente, diffusa, tutta internata, celeste nel mattino, rossa e arancione sul mezzogiorno, blu alla sera, ogni cosa è immobile nello spazio e nella solitudine, perfetta e intoccabile nella costruzione. E' quella stessa luce calma e drammatica che ha visto il lungo corpo di de Stael scavalcare il davanzale della finestra e sparire nel buio.
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