WILLIAM HEINSEN - L’Omero delle Fær Øer che rifiutò il Nobel, Lode ad uno dei più grandi narratori danesi del XX secolo

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view post Posted on 2/8/2022, 15:37     +3   +1   -1
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William Heinesen
l’Omero delle Fær Øer che rifiutò il Nobel



Perfino il “New York Times” si inchinò di fronte a questo uomo dal viso rude, taglieggiato dal secolo – aveva una barba marina, imponente, e occhi dall’illecita pietà. Nato nel gennaio del 1900, William Heinesen se ne va a 91 anni, in marzo, inghiottito dalle nebbie delle Fær Øer, le isole amate, centro glaciale del suo mondo, in un gracidio di nevi, tra rovinose pietre. Il censimento del “Ny Times” è telegrafico: “Romanziere, poeta, è considerato uno dei più grandi narratori danesi del XX secolo”. Era, appunto, il 1991. William Heinesen, in verità, era anche pittore: i suoi quadri, un po’ naïf, rimarcano i miti faroesi, sono pieni di ragazzi divinizzati, fauni nordici, pesci, mostri dalle fauci leggendarie. Tutto, lassù, vive di elementi primi, di gesti runici, incisi: la calligrafia del muschio, il temporale, il pallore del sole, sono legati, nel sangue, al coraggio degli abitanti, radi, alle singole scelte; tutto, lassù, è missione di morte, annuncio di vita. Autore di una ventina di libri, Heinesen ha una certa fama nel mondo anglofono: Dedalus Books, l’editore che ha tradotto i suoi romanzi più importanti, ne parla come “di uno dei più grandi, se non il più grande, narratore scandinavo del ventesimo secolo”.

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Heidegger & Dostoevskij

Cresciuto alternando il fango mitico, originario, alla lettura di Nietzsche, Heinesen ha scritto libri di primordiale bellezza, colmi di cupe superstizioni, dove il privilegio del singolo è limato dalle asperità naturali – prova vertiginosa – e dal bisogno di costituire brevi comunità di resistenti, gente dello stesso reame dinastico. Probabilmente il libro più bello è Det gode håb (in inglese si trova come The Good Hope), uscito in origine nel 1964, ambientato alla fine del Seicento, “è un romanzo epistolare basato sulla vita del reverendo Lucas Debes; racconta una vicenda di brutali oppressioni, di povertà e truci malattie, ma anche di coraggio, di lotta per difendere le proprie convinzioni. I temi consueti di Heinesen – la lotta contro il male, il settarismo, la prevaricazione – sono riassunti in questa fantasia drammatica”. Di recente, il “Times Literary Supplement” ha dedicato un lungo servizio a Heinesen, “cronista geniale, minuzioso e lirico del suo paese, creatore di personaggi geograficamente isolati, dipendenti dagli elementi del luogo per sopravvivere, caratterizzati da un’evangelizzazione che ha dato spazio a sette carismatiche piuttosto aspre”. Heinesen è il cantore delle Fær Øer, è l’Omero di quei luoghi dispersi e disperati, dove

“Tutto inizia e continua secondo il ritmo consueto, notte e giorno si alternano, rintoccano, e si vive ciò che vale la pena vivere, le cose fondamentali che rendono la vita sempre nuova”.

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In Italia, William Heinesen è relegato a Noatun, romanzo pubblicato nel 1938, tradotto da Giacomo Prampolini e Kirsten Montanari nel 1943, per Mondadori. Il libro fu promosso con una quarta tonante:

“Noatun è la valle solitaria delle Fær Øer, le isole sperdute dell’Oceano Glaciale Artico, dove vivono, soffrono, sperano i protagonisti di questo libro forte e umano: alcune famiglie di pescatori e lavoratori della terra ivi immigrate da un fiordo superpopolato. Lo scrittore danese William Heinesen narra in pagine scabre ed essenziali le vicissitudini della vita quotidiana di quella esigua popolazione, che si trova continuamente alle prese con gli elementi implacabili della natura nordica e che lotta incessantemente contro tremende difficoltà di ogni genere e ostacoli quasi insormontabili, ottenendo effetti umani profondi e toccanti”.

Il romanzo, fin dall’incipit – “Le raffiche di vento che scendevano dal valico talvolta risuonavano come selvaggi e prepotenti nitriti” – è il regesto di una natura superba e atroce, dove gli umani si muovono come profeti senza lanterna, latori di una promessa postuma, posticcia. Tutto è continuo esodo, qui: al posto del deserto è l’oceano, e la rovina è illuminata dal cardo del futuro. Sembra che il rigore della natura assegni una profondità diversa alle anime degli uomini che vi si avventano.

“Si sdraiò nel letto sospirando profondamente. Pian piano di quietò, ma continuava a parlare a bassa voce con se stesso, ogni tanto si sentiva solo un fioco mormorio, poi la voce ritornava limpida e ricordava gli avvenimenti salienti della sua vita. Sunneva e Niels Peter sedevano accanto a lui, erano tutti e due commossi e ogni tanto Sunneva doveva chinarsi a nascondere i singhiozzi nel grembiule. Angelund parlava di sua moglie Greta: era morta troppo giovane, la sua vita era stata piena di pene, le erano morti quattro bambini piccoli, l’uno dopo l’altro, Greta ne aveva sofferto molto, pensava sempre ai bambini morti e li voleva. Questa forse era una delle ragioni per le quali, quando si ammalò, non poté lottare contro il male. Aveva avuto un carattere triste e strano. Angelund sospirò: ‘È strano pensare a queste cose ora che sono giunto alla fine della mia giornata. Sono stato un cattivo artefice della mia fortuna, tutta la vita… Mio nonno era un ricco possidente, mio padre, figlio di possidenti, divenne un povero pescatore. Ed io nacqui figlio di poveri e dovetti arrangiarmi nella vita lavorando per gli altri sul mare e sulla terra. Ma voi… forse diventerete di nuovo contadini padroni della vostra terra’. Nel corso della serata i discorsi del vecchio diventarono più sconclusionati, cominciò a canticchiare con voce velata”.

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Cauto, piano ed esatto è il narrare di Heinesen, di chi si approssima alla vita e al suo immaginario con una fioriera di fiaccole, covoni di luce; qualche affinità la vediamo, forse, con l’opera di Knut Hamsun. Ad ogni modo, Noatun ha avuto un qualche successo: nell’agosto del 1944 Mondadori avvia la seconda ristampa del romanzo. Installato nella collana ‘Medusa’ – la “collezione di grandi narratori d’ogni paese” – Heinesen è pubblicato insieme a Colette e a John Fante, a William Faulkner, D.H. Lawrence, Aldous Huxley. Probabilmente, non era tempo di ambizioni glaciali, di vasti spazi, di angustie esistenziali, quello: Heinesen fu presto dimenticato. La nota Treccani che lo cataloga tra i grandi scrittori danesi, ne ricorda la “notevole qualità dello stile”. William Heinesen fu pure poeta: alcuni testi – che qui traduciamo – sono stati pubblicati su “Poetry” e sulla mitica antologia della New Directions di James Laughlin. Con costanza inflessibile, Heinesen raccontò soltanto delle Fær Øer, in un nitore epico e vigoroso; quando, nel 1981, il suo nome risuonò possente tra i candidati per il Nobel della letteratura, prese carta e penna e scrisse agli accademici svedesi. Rifiutò la candidatura e, a priori, il premio. Il punto era primariamente linguistico, dunque di destino, dunque di dignità:

“La lingua faroese, un tempo, era tenuta in così bassa considerazione che tentarono di sopprimerla, di estirparla. Eppure, proprio in lingua faroese è stata creata una grande letteratura, per questo sarebbe ragionevole consegnare il Nobel a un autore che scrive in faroese. Se sceglieste di assegnarlo a me, il premio andrebbe a un autore che scrive in danese, dando così un duro colpo a chi tenta di creare, tramite il faroese, una cultura indipendente”.

La solita storia di cannibalismo, di miti inghiottiti, di immaginari cancellati. Heinesen parlava il faroese, ma da bambino, a scuola, gli era stato inculcato il danese. Era un uomo inscritto in una austera legge. Quell’anno, per la cronaca, il Nobel andò a Elias Canetti.




Artico

Crudo odore
di uomini nel sonno e rumori
tra i tetti delle case:
pendono ancora i vestiti
e nel suo orecchio è la tana
di voci remote, eco
di richiami, suono di lignaggi
che graffiano la memoria.
Ma davanti a lui si srotola la notte
turpe e distese di terre senza nome.

Come il fiore appena colto
desidera la radice che lo ancorava
al suolo così lui anela il ritorno alla terra
delle voci vive, rossore che scorre
tra le risate, lacrime di occhi miti,
giorni sepolti per sempre.
Di fronte a lui è la terra
muta e priva di promesse –
landa inaudita
centro privo di cardine
lì dove finisce il viaggio.

*

Pioggia a Leningrado

Piove e la sera lampeggia
di grigio: sulle strade simili a specchi
sulla baia e nel fiume fioco.
L’erba trema sulle tombe dei morti
stretta tra la pazienza delle piogge.

Ovunque, l’aria crolla,
i giovani alberi squillano
piantati dai cittadini
dopo la guerra per ricordare
la vittoria e le amare perdite.

Nel Palazzo d’Inverno c’è una sala
lastricata d’oro.
Oggi era piena di folle sonnambule:
questa sera solo l’oro è di casa
dietro i vetri censiti dalla pioggia
e i corridoi che bucano la tenebra.

William Heinesen
 
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